Questa relazione,
che ho condiviso con altri compagni della FAI reggiana, non
vuole essere il rendiconto di una ricerca esaustiva su cosa
mangiavano, dove e come i militanti del movimento operaio,
socialista, anarchico e chi più ne ha più ne
metta, nella nostra regione, dal secolo XIX ad oggi. Semplicemente
perché una ricerca del genere, se minuziosa, richiederebbe
mesi di lavoro.
Per questo il nostro intento sarà proporre un percorso
generale, con spunti e curiosità utili magari per futuri
lavori.
Spunti e curiosità che derivano sia da testi e documenti
scritti, sia dalla memoria orale che conosciamo perché
passata fra più generazioni di militanti. Perché
se anche la storia ufficiale ormai utilizza le fonti orali,
queste sono in materia di alimentazione ancora più
legittimate: lo stesso Piero Camporesi distingue fra una “cucina
scritta” e una “cucina orale” come differenza
fra ciò che l’oggetto della ricerca doveva essere
e ciò che effettivamente si è dato.
Intanto perché delimitare questo ambito ideale della
“via Emilia”? Senz’altro perché la
via Emilia, e la regione ad essa collegata, è un originale
sistema città-strada al cui interno troviamo forti
momenti di continuità seriale fra i segmenti che lo
compongono. Non a caso un urbanista libertario del XX secolo,
Patrick Geddes, faceva l’esempio della via Emilia come
di una “conurbazione”, cioè una città
multipla, molto prima che venissero forgiati termini come
“megalopoli” e “periurbano”.
Una continuità del tutto eccezionale anche nella storia:
la via Emilia viene tracciata dai Romani nel II secolo avanti
Cristo come principale via di penetrazione nella valle padana
e verso i valichi alpini, negli stessi anni in cui si fonda
la gran parte delle città. Due millenni dopo, nella
seconda metà del secolo XIX, in perfetto parallelo
alla strada viene tracciata la ferrovia, e le stazioni, collegando
centri principali che sono rimasti più o meno gli stessi,
spesso corrispondono alle fermate per il cambio dei cavalli
del periodo romano.
E da lontano partono le testimonianze sulla storia materiale
di questa regione: proprio riguardo al II secolo, Livio ci
riferisce come fosse prevalente l’allevamento dei suini,
data l’abbondante presenza di querce. Questi, oltre
a nutrire gli abitanti della zona, servivano per l’esportazione,
e fonti archeologiche ancora più antiche dimostrerebbero
che già dall’emporio di Spina partiva carne diretta
verso l’Atene di Pericle.
Esterno
del teatro
Salsicce, zampone e cotognata
Prima di arrivare a noi, segnaliamo solo che in un’opera
del caposcuola delle ricerche di storia materiale, economica
e sociale, sono citate in fila quattro città della
via Emilia, prime di una lista di altre città italiane
che si distinguevano per le loro specialità gastronomiche.
Sto parlando di Civiltà materiale, economia e capitalismo
di Fernand Braudel, dove seguendo un cronista del Cinquecento,
incontriamo nell’ordine “le salsicce e i salami
di Bologna, lo zampone di Modena, la cotognata di Reggio,
il formaggio e gli gnocchi all’aglio di Piacenza”.
Forse non è un caso che si sia imbattuto nelle nostre
città lo storico che si è posto il problema
di sapere tutto della giornata di Luigi XIV ma nulla di cosa
mangiavano i suoi contadini.
Sono citati ovviamente cibi dei ricchi, riservati alle classi
popolari al massimo nei giorni di festa, in cui il mito del
paese di cuccagna faceva dimenticare la fame quotidiana.
È all’inizio dell’età contemporanea,
con la rivoluzione francese, che questo mito si rovescia,
perché nelle città rivoluzionarie della Repubblica
Cisalpina, fra cui ad esempio Reggio, grandi tavolate uniscono
proletari e borghesi in una nuova simbologia che sarà
il pasto collettivo non più legato a scadenze sacre
o agricole, ma a scadenze rivoluzionarie, miranti perciò
ad un’abbondanza meno occasionale, che uniscono simbolicamente
i partecipanti al nuovo rito laico.
Riti che continueranno ad essere fatti propri dalle classi
popolari, anche come segno di malcontento, come nel caso della
festa di Quaresima che si faceva a Guastalla nel periodo della
tassa del macinato (anni ’60 del XIX secolo). Come ci
racconta il Fincardi, mentre si servivano i tradizionali gnocchi
era esposta una grottesca caricatura di re mugnaio dalla quale
traspariva chiara la polemica antimonarchica e antifiscale.
La fiera vedeva una grossa affluenza di reggiani che vi si
recavano apposta dal capoluogo.
Ma a questo punto se vogliamo capire il seguito dobbiamo soffermarci
sull’Internazionale. È fra gli anni ’60
e ’70 dell’Ottocento che con i viaggi di Bakunin
e Cafiero arriva in Italia il socialismo, nella versione della
componente anarchica della Prima Internazionale.
La via Emilia è una via di comunicazione molto usata
dai primi internazionalisti, dato che il primo congresso della
sezione italiana è convocato a Rimini nel 1872 e il
secondo l’anno dopo a Bologna (si terrà poi a
Mirandola per problemi polizieschi). Il primo tentativo insurrezionale
degli internazionalisti italiani, nel 1874, sarà rivolto
a raggiungere Bologna dalle città della Romagna.
Ma se non esiste ancora un movimento operaio con proprie sedi
e strutture, se non società di mutuo soccorso che hanno
ancora per lo più carattere paternalistico, dove si
riuniscono gli internazionalisti?
Elementare, nei locali deputati alla socialità pubblica
delle classi meno abbienti dell’epoca: osterie, locande,
bettole.
Durante
il veglione, “Figli dell’officina” tra i
tavoli e i commensali
Cospirare e mangiare
Le prime “cucine del popolo” furono proprio quei
locali in cui un clima recettivo o un oste simpatizzante consentivano
ai cospiratori di avere un posto fisico dove trovarsi, fare
un po’ di propaganda e magari bere un bicchiere o mangiare
un boccone.
La prima riunione del fascio operaio di Bologna avviene alla
fine del 1871 alla trattoria-albergo “Le tre zucchette”,
sull’attuale piazza del Nettuno, con costituzione solenne
dell’associazione e nomina delle cariche.
A Imola, nello stesso anno, Andrea Costa ed altri compagni
fondano la sezione cittadina dell’“Internazionale
socialista” all’osteria “ed Campétt”.
Nell’Imolese i locali addirittura si differenziano per
tendenza politica, dal momento che l’anno dopo saranno
i mazziniani a scegliere l’osteria “dl’Enzel”
come quartier generale della loro “Società Democratica
Repubblicana”, ed altre mescite erano sede o di gruppi
repubblicani, o di società per l’istruzione ed
il progresso. In tutta la regione abbiamo esempi di locali
che servono alle riunioni delle associazioni popolari sprovviste
di sede, come il caffè Garibaldi in piazza a Cavriago.
Ancora in Romagna, queste locande saranno poi note come le
“cameracce”, nome che si tramanderà al
successivo passaggio della socialità operaia: le case
del popolo. Si tramanda il nome perché in alcuni casi
la continuità fra le due esperienze è diretta:
certe case del popolo, soprattutto in campagna, per fornire
la socialità necessaria a vederle frequentate, saranno
una specie di “osterie autogestite”. La repressione
statale avverrà spesso con il far chiudere questi spazi
per mancanza della licenza, senza distinguere l’impresa
commerciale da quella sociale.
All’interno delle case del popolo più grandi,
e sede di diverse associazioni, che sorgeranno come funghi
nei decenni successivi, funzioneranno cucine e caffè
autogestiti.
Fino a pochi decenni or sono del resto erano ancora attive
in Romagna alcune osterie senza osti, dove si consumava quel
che portavano gli avventori.
Il dispregiativo che ci poteva essere in quel termine “cameracce”
ha implicazioni non casuali: i perbenisti e la borghesia hanno
bisogno di argomenti per screditare questi pericolosi socialisti
(o socialisti-anarchici) additandoli alla disapprovazione
pubblica. Uno dei pretesti è proprio il fatto che spesso
si ritrovano in osteria: in vari dialetti della Valle Padana
ritroviamo l’assonanza beffarda fra “socia-lèsta”
e “ciocia-lèter”, socialista e
ciuccialitri, ovvia allusione all’accusa di alcolismo,
indice di immoralità e ancor più di scarsa credibilità.
Questi stereotipi borghesi dovrebbero far suonare un campanello
d’allarme: è vero che stiamo a celebrare le cucine,
e il vino, del popolo. Ma stiamo attenti a non cadere in visioni
troppo romantiche del rivoluzionario godereccio e dell’osteria
covo di sovversione. Se Bakunin porta nel suo passaggio in
Emilia il fascino della sua massiccia figura e del suo leggendario
appetito, la misera condizione quotidiana della quasi totalità
del proletariato lasciava spazio a ben poche esperienze eno-gastronomiche
esaltanti anche quando ci si ritrovava tutti assieme alla
bettola. L’osteria peraltro, non era sempre luogo di
sovversione, era anche il posto dove a volte i padroni distribuivano
i salari al sabato in modo che i lavoratori li spendessero
lì, perché un proletariato abbrutito era senz’altro
più controllabile di un proletariato cosciente.
Le
“resdore” (cuoche) di Massenzatico preparano i
patti di cappelletti
“Banchetto economico a lire una”
Anche per questi motivi, fra la fine dell’Ottocento
e i primi del Novecento, si diffonde a macchia d’olio
in regione il fenomeno delle case del popolo.
La prima inaugurazione ufficiale sarà proprio qui a
Massenzatico nel 1893 alla presenza dei leaders socialisti
nazionali e internazionali (ci sarà Vandervelde, perché
l’esperienza delle case del popolo belghe ha stretti
contatti con quella emiliana, anche a causa dell’emigrazione),
e di circa “diecimila contadini”.
Le cronache di questa inaugurazione accennano al pasto consumato
quel giorno. È interessante confrontare questo resoconto
con quello del pranzo della Società Cooperativa dei
birocciai, tenuto tre anni prima alla Locanda del Leoncino
in S. Croce sul quale così si esprime il giornale “la
Giustizia”: “Il pranzo, ricco ed ottimamente servito,
passò fra la più viva cordialità rallegrato
anche dalla presenza di molte belle ragazze che si affacciavano
di quando in quando, spettatrici gentili, alle finestre prospicienti
il vasto cortile ove era imbandita la tavola di 80 coperti”.
Invece l’evento di Massenzatico è presentato,
nelle prenotazioni, come “banchetto economico a lire
una”, e nel resoconto ci si trova “davanti alla
nuova casa, modesta ma elegante[…] seduti ad un pasto
semplice e frugale, affratellati dalla comunanza dei sentimenti”.
È abbastanza evidente come fossero ancora poche le
“aristocrazie” che potevano celebrare il loro
sodalizio con una gastronomia “ricca”, mentre
in genere nelle occasioni conviviali operaie si citano le
idee, qualche volta si fa riferimento alla festa o alla bicchierata,
raramente ci si dilunga nel descrivere quel che si mangia.
Il motivo si può intuire leggendo un qualsiasi saggio
di storia dell’alimentazione: fino ai primi del Novecento,
e in certi casi fino al secondo dopoguerra, il sostentamento
delle classi povere nella nostra regione si basava sulla cosiddetta
“economia della minestra”.
Per meglio dire, che si stesse in città o in campagna,
le cose che mangiavano quotidianamente i poveri potevano essere
in diverse proporzioni ma erano quelle due: minestra e polenta.
La minestra salvo nei festivi era acqua insaporita da verdure,
e sulla polenta era già festa quando ci si poteva spalmare,
condividendola con una numerosa famiglia, la mitica “saracca”.
La storia degli operai e dei contadini è fin qui una
storia di privazioni, e di malattie da cattiva alimentazione,
come la pellagra che imperversa almeno fino agli anni Dieci.
Molto dipende anche dalle annate e dalle congiunture economiche:
per gli ultimi 3-4 anni dell’Ottocento alcuni storici
hanno parlato di “digiuno nazionale”.
Ma queste privazioni nel nostro caso sono vissute da persone
che hanno la consapevolezza di muoversi per costruire un mondo
nuovo, ed organizzano questa capacità creativa a partire
dal pane quotidiano. Le mense per i poveri organizzate dai
comuni e da associazioni caritatevoli un po’ in tutte
le città vengono bollate dai socialisti come paternalistiche,
e si cercano soluzioni alternative a quella minestra (come
abbiamo visto, nel senso letterale del termine, anche se alla
mensa di Reggio il consenso popolare ebbe un’impennata
quando si decise di aggiungere di tanto in tanto alla zuppa
di verdura un po’ di lardo e cotica di maiale…).
Fiorire di caseifici cooperativi
Un filone è senz’altro quello della cooperazione,
nella quale eccellevano i reggiani della scuola di Prampolini,
la cui capacità costruttiva non è in discussione
anche per le forti ripercussioni che ha in città e
in provincia nel tessuto sociale. Questa riguarda in primis
lo scambio di prodotti alimentari, e contribuisce senz’altro
nel corso del ’900 a modificare la dieta e a mettere
sulle tavole di molti lavoratori qualcosa di un po’
più “grasso”.
Non a caso risale al 1903 questo eccezionale documento sul
veglione del circolo socialista di Albinea dove è riportato
il menù di quella serata, che è lo stesso che
sarà riproposto qua stasera.
Saranno fra gli altri i socialisti a convincere i contadini
del Reggiano, Modenese e Parmense a privilegiare l’allevamento
delle vacche per la mungitura, contribuendo al notevole incremento,
nel primo ventennio del secolo, della produzione del mitico
Parmigiano-Reggiano. Fioriscono in quegli anni numerosissimi
caseifici cooperativi, che caratterizzano in maniera originale
il tessuto sociale delle nostre campagne, che da quel momento
avranno anche una alimentazione più ricca di quella
delle province vicine (il formaggio era del resto efficace
contro la pellagra).
In generale nei primi anni del XX secolo la situazione alimentare
comincia lentamente a migliorare e più persone possono
permettersi di gustare i piaceri della tavola. Da Forlimpopoli,
sempre sulla via Emilia, comincia la fortuna del libro dell’Artusi,
, che è dapprima rivolto a un pubblico borghese, ma
data la sua semplicità verrà distribuito presso
cerchie sempre più vaste. In una dedica all’autore
un altro romagnolo, Lorenzo Stecchetti, fa un paragone fra
le ingiustizie nella società e quelle fra le scienze,
che relegavano ancora alimentazione e gastronomia nel limbo
delle discipline prive di autorevolezza.
Ma oltre a riformisti e umanitari, anche le correnti rivoluzionarie,
che erano presenti nelle case del popolo e nelle varie esperienze
mutualistiche, non rimangono a guardare: le cucine del popolo
dei primi decenni del novecento sono anche le “mense”
organizzate dai sindacalisti rivoluzionari durante gli scioperi
generali, antenate delle cucine comuniste già citate
in questo convegno.
Lo sciopero generale è il grido di battaglia di quelle
leghe e unioni di industria che non si riconoscono nella linea
riformista della Confederazione Generale del Lavoro (fondata
nel 1906) che si costituiranno nei comitati di azione diretta,
per poi diventare nel 1912 l’Unione Sindacale Italiana,
o rimanere in sindacati di settore molto combattivi sia interni
alla Confederazione che autonomi.
All’epoca uno sciopero non viene convocato per quattro
ore dopo aver sentito il rappresentante del ministero per
il welfare: può durare diversi mesi, e c’è
il problema del sostentamento. La cucina assume dunque un
aspetto fortemente comunitario e solidaristico. Fonti orali
ci testimoniano che nei paesi delle Apuane, fra cui Gragnana,
che ospitarono i figli degli scioperanti della dura lotta
agraria del parmense del 1908 vennero organizzate apposite
mense per nutrirli, alle quali contribuiva tutta la comunità
locale.
Nel filone sindacalista sono presenti in gran numero gli anarchici.
Ma questi partecipano in varie situazioni anche alle esperienze
delle case del popolo, degli spacci cooperativi e delle Università
Popolari anche perché in molti casi le camere del lavoro
condividono sedi con queste associazioni. In particolare nell’Emilia-Romagna
la presenza delle Case, nei primi vent’anni del Novecento
è capillare in ogni paese, e l’attività
anarchica è più intensa che in molte altre regioni.
Questa presenza caratterizza senz’altro alcune delle
esperienze più vivaci in termini culturali, e anche
culinari.
È certo che gli anarchici, che si preoccupano di costruire
l’umanità nuova per il mondo nuovo, non si limitano
a rivendicare il pane, ma cercano di applicare al cibo i loro
concetti ideali, anche se lo faranno per strade molto differenti.
Proprio per questo bisogna stare attenti agli stereotipi:
alcuni predicheranno il vegetarianesimo, altri saranno astemi.
Se da una parte abbiamo già parlato di Bakunin, dall’altra
uno dei miti internazionali dell’anarchismo d’azione,
Buenaventura Durruti, non beveva e non fumava per precisa
scelta ideologica.
Un filone da approfondire sarebbero invece gli apporti sulla
cucina quotidiana e collettiva delle nozioni di igiene che
venivano insegnate nelle Università Popolari. Secondo
il Sorcinelli, la cucina del tempo che fu non era affatto
sana, ma spesso mal cucinata e veicolo di malattie. Possiamo
supporre che queste ultime nel Novecento diminuiscano anche
per l’avanzare della cultura popolare.
“Passerella”
delle cuoche di Massenzatico nel teatro, al termine del veglione
rosso, accolte dall’ovazione dei presenti
Strade fantasiose
Alcuni troveranno strade fantasiose: è emblematico
l’esempio di quell’anarchico di Mercato Saraceno
che aveva “brevettato” il cappelletto unico di
due etti per risolvere il problema dello sfruttamento del
lavoro femminile, ed era molto fiero di offrirlo agli ospiti.
Può sembrare un aneddoto ingenuo, ma crediamo che sia
assolutamente significativo di una serie di sforzi nel quotidiano
per trovare la coerenza fra vita e ideale: in una società
che in campagna vive ancora secondo schemi rigidamente patriarcali,
il cappelletto che risparmia molte ore di lavoro alle donne
in nome dell’emancipazione femminile e del progresso
dell’umanità è un fatto rivoluzionario.
Questo discorso si collega con la trasformazione del Primo
Maggio da sciopero illegale a festività riconosciuta.
Vi si trasferisce la tradizione della cucina del giorno di
festa, che in area emiliano-romagnola vede il trionfo dei
cappelletti, oppure dei tortellini. Piano piano i cibi consumati
per questa occasione cominciano ad assumere la valenza simbolica
della festa stessa e dunque esorcizzare, in qualche modo,
il potere del momento, come già avveniva in alcune
zone della Romagna con gli strozzapreti, piatto evidentemente
anticlericale; pare venissero confezionati maledicendo il
clero se per caso qualche tonaca nera passava per strada.
Nel Reggiano, la memoria collettiva ha associato all’antifascismo
il tradizionale pasto dei cappelletti in brodo con lambrusco
come piatto antifascista. Beh, il lambrusco già ai
primi del secolo serviva per i battesimi laici.
Ma secondo poi Franzoni e Bonaretti, aveva anche molti motivi
per essere antifascista: in primo luogo era rosso, in secondo
luogo si univa, nel tradizionale “surbir”, al
brodo dei cappelletti. Questi cappelletti sono un’altra
delle eminenti vittime delle violenze squadriste del ventennio,
perché, essendo proibito festeggiare il primo maggio,
le squadracce erano solite perlustrare quel giorno le case
dei possibili oppositori, e se scoprivano qualcuno mangiare
i cappelletti, non solo punivano il responsabile, ma distruggevano
a manganellate la pietanza medesima.
Si esponevano così ancora di più allo scherno
popolare, molto vivace nella nostra provincia in quegli anni,
secondo il quale “i fasèsta stanghèven
i caplèt”. Scherno che per altro era frequente
grazie anche a figure quali Ulderico Zilocchi. Alla cospirazione
cittadina contribuirono alcuni militanti del vecchio gruppo
anarchico “Spartaco”, che per tutto questo tempo
ne conservarono la bandiera e gli archivi, per poi consegnarli
ai militanti dei gruppi anarchici del dopoguerra.
L’alimentazione dunque diventava fatto politico, e se
per Feuerbach “l’uomo è ciò che
mangia”, per gli antifascisti reggiani questa identità
non era solo fisiologica, ma sovversiva.
E come ultima e migliore pernacchia alla faccia dei prepotenti
in camicia nera, a partire dal 1945 i cappelletti a Reggio
si fanno regolarmente non solo il primo maggio, ma anche il
25 aprile.
Federico Ferretti
Bibliografia
essenziale
•
AA. VV., Le case del popolo.
• Artusi Pellegrino, La scienza in cucina e l’arte
di mangiar bene, Firenze, Giunti, 1960.
• Braudel Fernand, Civiltà materiale, economia
e capitalismo. Le strutture del quotidiano, Torino, Einaudi,
2001.
• Camporesi Piero, Alimentazione, folclore, società,
Parma, Pratiche editrice, 1980.
• Canovi Antonio, Poveri in città. Beneficienza
e cucine a Reggio Emilia, in “L’almanacco”
n. 22, Reggio Emila, ist. P. Marani, 1993.
• Fincardi Marco, Il pasto in piazza, in “L’almanacco”
n. 22, Reggio Emilia, ist. P. Marani, 1993.
• Franzoni Guerrino, Bonaretti Enrico, Il lambrusco
antifascista, Reggio Emilia, 1975.
• Geddes Patrick, Città in evoluzione,
Milano, Il Saggiatore, 1970.
• Manfredi Valerio Massimo, Malnati Luigi, Gli Etruschi
in val Padana, Milano, Mondadori, 2003.
• Paterlini Marco, Le “forme” del socialismo,
in “L’almanacco” n. 22, Reggio Emilia, ist.
P. Marani, 1993.
• Sorcinelli Paolo, Gli italiani e il cibo, Bologna,
Clueb, 1992.
Interno
del teatro, dopo il veglione rosso, al canto dell’Internazionale
Scheda
dei relatori del convegno
Fiamma
Chessa, La Locanda itinerante di Aurelio
curatrice dell’“Archivio Famiglia Berneri
– Aurelio Chessa”, Reggio Emilia
Alberto
Ciampi, Il bicchiere ribelle
architetto, studioso e storico delle avanguardie internazionali,
redattore della rivista “ApARTe”
Giorgio
Sacchetti, Il cibo e la lotta. Mense comuniste
e rivendicazioni gastronomiche: il caso dei minatori
del Valdarno
dottore di ricerca, autore di studi sul movimento operaio,
direttore della “Rivista storica dell’anarchismo”,
collaboratore di “Slow Food”
Luigi
Veronelli, I vini della libertà
enologo di fama internazionale, autore delle prime guide
italiane su vini, ristoranti ed oli, editore e pubblicista
Federico
Ferretti, La cucina sociale della Via Emilia
studioso e pubblicista specializzato in geografia sociale
Guido
Andrea Pautasso, La cucina dell’Avanguardia
artistica e letteraria
scrittore e protagonista eclettico dei movimenti d’avanguardia
artistica e
letteraria italiani
Marco
Rossi, L’alimentazione della Resistenza
saggista e storico della resistenza antifascista italiana
|
Compagna
lambrusca
Compagno lambrusco
I
vini della libertà
Voglio
spiegare al mondo perché il Lambrusco è l’unico
vino di libertà.
Lo spiego io, perché io li ho conosciuti bene: Libero
e Libera, Spartaco, Lenin, Emma detta la Rossa, Solidea e Solidario,
Comunardo, Rivoluzio. Tutti battezzati con il Lambrusco.
Nelle case del popolo, costruite in faccia alle chiese, frizzante
e rosso il sugo nelle uve reggiane e modenesi colava sulle fronti
di quei bambini, figli di socialisti e anarchici, per aspersorio
un cucchiaino: “Io ti battezzo Libertà”.
Sgocciolavano su quei destini nomi forti, densi, carichi, non
mitologici: Reclus, Eliseo, Jenner, Luisa, Giordano Bruno, Juarés.
Nomi che sei già grande appena nato. “Io ti battezzo
Eguaglianza”.
Il fascismo ne fece strage, bestiale, anche all’anagrafe:
di Comunardo restò solo Nardo.
Erano gocce di un prodotto vivo, profumato di terra, effervescente,
rosso, nero in bottiglia. L’acqua stagnante dei battesimali,
ferma, stantìa, al confronto sbiadiva. In quelle chiese
piccole e innalzate al cielo si pensava ad altrove, il naso
per aria. Noi nelle case del popolo tenevamo i piedi per terra
e le facevamo più larghe e basse che potevamo, perché
più ampie erano, più donne e uomini potevano contenere,
a cercare qui, il loro paradiso
proletario.
Esiste dalla notte dei tempi, il Lambrusco, da Romolo e Remo.
Vitigni selvatici, ribelli, incontrollati. Non facili da governare,
da trattare con rispetto. È Lambrusco, ma anche Lambrusca,
e questo piaceva a noi donne anarchiche di Santa Croce, con
la lavalliére al collo in segno di emancipazione.
I vecchi anarchici lo ricordavano con orgoglio: “Mé
sun stèe batzèe cun al Lambròsc”.
Trovate un altro vino al mondo così. E che sappia innaffiare
i tortelli e i cappelletti antifascisti così bene, che
ti alzi da tavola con la voglia di cantare. Cercate pure, io
brindo con voi a Lambrusco.
Reggio
Emilia, 30 Ottobre 2004
La cuoca rosso-nera
Scheda
dei promotori e degli sponsor
Il
comitato promotore del convegno:
Archivio Storico-Libreria della FAI reggiana
“A Rivista Anarchica”
Associazione Aprile di Reggio Emilia
Associazione Giustizia e Libertà
Associazione Socrate Reggio Emilia
“Carta – Cantieri Sociali”
Cooperativa La Collina
Cooperativa Mag 6
Federazione Anarchica Reggiana
FIAP – Federazione Italiana delle Associazioni Partigiane
Infoshop Mag 6
Laboratorio Sociale AQ16
Partito dei Comunisti Italiani
Rifondazione Comunista
Spazio Sociale Kronstadt
Verdi Reggio Emilia
Gli
sponsor:
Azienda agricola La Collina – Codemondo
(RE)
Cooperativa sociale agricola a coltivazione biologica
e biodinamica.
Azienda
agricola Reggiana – Borzano di Albinea
(RE)
Azienda vitivinicola posizionata sulle colline di Albinea.
L’azienda lavora nei vigneti in forma di lotta integrata
a basso impatto ambientale, con trattamenti a necessità
e non a calendario. Produce diversi vini, lambruschi e
bianchi delle colline di Scandiano, mosto cotto per aceto
balsamico e aceto balsamico tradizionale.
Cantina
Garibaldi – Cavriago (RE)
Osteria da battaglia.
Cooperativa
sociale Elfo – Reggio Emilia
Osteria
Lido Enza – Brescello (RE)
L’Osteria Lido Enza propone i cibi particolari della
tradizione della Bassa reggiana. La "rivoluzione
in cucina" ricerca i cibi particolari, contro la
"non-cultura" dei sapori.
Terraviva-Frutta
e verdura secondo natura – Rondinara di
Viano (RE)
Terraviva è un piccolo podere immerso nel verde
e nel silenzio della natura, nelle prime colline dell'Appennino
reggiano, con acqua di sorgente, letame e una terra generosa.
Si coltivano verdure senza l'uso di sostanze chimiche;
i boschi e i prati della zona donano frutti di varietà
antiche, sulle quali Terraviva è impegnata in una
costante ricerca.
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