Il ministro anarchico
Sul finire del 1936 è uno degli uomini più potenti
della Spagna repubblicana. Ministro della Giustizia nel governo
di Largo Caballero, figura di spicco della fortissima componente
anarcosindacalista del movimento dei lavoratori, “idolo”
della Barcellona proletaria.
E anche fra i pochi sopravvissuti del mitico gruppo dei Solidarios,
gli spavaldi difensori della classe operaia impegnati a difenderne
la libertà d’azione e di organizzazione contro
i pistoleros ingaggiati dal padronato. Ora che sono
scomparsi i suoi più cari compagni – Francisco
Ascaso il 19 luglio nelle strade barcellonesi, Buenaventura
Durruti in novembre sul fronte di Madrid – è lui
che più di ogni altro rappresenta il forte movimento
anarchico così radicale e radicato fra le masse spagnole.
Ha 34 anni Juan García Oliver quando, nel novembre del
1936, entra a far parte del governo centrale repubblicano. Catalano
di Reus, operaio tessile a otto anni, cresciuto in una miseria
talmente aspra da rubargli un fratellino per malnutrizione,
ex cameriere (sua la battaglia, vincente, contro l’umiliante
pratica della propina) e poi maître d’hotel, costretto
a scontare, a più riprese, quattordici anni di carcere
quando non è ridotto all’esilio, agitatore sindacale,
militante rivoluzionario, Oliver rappresenta uno degli aspetti
più emblematici della rivoluzione spagnola: un anarchico,
e che anarchico, che si fa ministro. E che ministro!
È proprio per questa sua paradossale specificità,
per questo sommare le contraddizioni, le grandezze, gli eroismi,
gli errori, e poi il declino dell’anarchismo e dell’anarcosindacalismo
spagnolo, che Fulvio Abbate trova nuovi spunti per interessarsi
alle vicende anarchiche e parlare di noi nel suo ultimo libro
(Il ministro anarchico, Milano, Baldini Castoldi Dalai
editore, 2004). E parlarne non tanto, o non solo, come uno storico
attento più ai fatti che alle persone che vissero quei
fatti, ma piuttosto come l’affascinato indagatore di un
mondo che, se oggi appare ormai scomparso, ha pur tuttavia caratterizzato,
con la sua grandezza e la sua peculiarità, un pezzo di
storia del Novecento. Stiamo parlando, è chiaro, del
movimento libertario di lingua spagnola.
Con stile da documentarista, Abbate costruisce la complessa
biografia di Juan García Oliver per immagini e brevi
flash che si sovrappongono l’uno all’altro.
E quasi condotto per mano, in questa sorta di viaggio iniziatico,
da uno degli ultimi protagonisti della rivoluzione spagnola
(il vecchio Abel Paz, alias Diego Camacho, autore di una biografia
di Durruti da cui abbiamo tratto alcuni brani), scruta e indaga
fra le pieghe di un periodo storico tanto irripetibile quanto
fu irripetibile, nella sua unicità, la vita del nostro
ministro anarchico. Un periodo che ha segnato il discrimine
ultimo fra due epoche, fra il prima delle speranze
concrete della liberazione degli sfruttati e della loro emancipazione
dalla oppressione del potere, della chiesa e del capitale, e
il dopo della dolorosa sconfitta e della resa al sanguinario
autoritarismo del macellaio Franco.
Così, nella parabola esistenziale del protagonista di
questo racconto, che pur essendo stato un importante ministro,
mai avrebbe accettato di farne il trampolino per diventare un
rivoluzionario di professione, come sarà invece per molti
che contribuirono ad uccidere la rivoluzione dicendo di difenderla,
si rinnova emblematicamente la drammatica storia, prolungatasi
nei decenni dell’esilio e della diaspora, dei protagonisti
di un movimento di sovversione sociale e di un progetto rivoluzionario
che accomunò, pur nelle loro diversità, milioni
di proletari spagnoli.
E di loro fratelli nei cinque continenti. La storia di García
Oliver, infatti, proprio perché un anarchico resta pur
sempre un anarchico anche se diventa ministro, è la storia
parallela di migliaia di esiliati, di rifugiati, di semplici
militanti operai, costretti a lasciare la Spagna per sfuggire
alla vendetta del Caudillo.
E che cercarono di ricreare, nelle ricostituite comunità
di esiliati e sconfitti sparse fra l’Europa e le Americhe,
una parvenza di quella grande organizzazione proletaria che
aveva acceso le speranze di libertà del proletariato
Estate barcellonese
Sulla guerra civile spagnola, sulla rivoluzione libertaria dell’estate
barcellonese del 1936, sulle origini, le cause, gli sviluppi
e le conseguenze di quegli avvenimenti si sono versati fiumi
di inchiostro e, per chi fosse interessato ad un approccio più
propriamente storico o politico all’argomento, rimando
alla bibliografia pubblicata in calce a questo “Ritratto
in piedi”.
E anche se mi piace citare Oliver quando riflette se «può
un anarcosindacalista diventare ministro della Giustizia?”
e si risponde: “Sì, se afferma la necessità
del diritto, l’abolizione delle carceri e delle catene,
se me lo hanno permesso potremo distruggere tutte le carceri»,
non penso sia necessario ripercorrere le polemiche, inevitabili
e accese, che agitarono il movimento anarchico in seguito alla
decisione dei vertici della Confederacion Nacional del Trabajo
di partecipare, nel pieno della guerra contro chi voleva affossare
ogni forma di libertà e di organizzazione proletaria,
al governo “popolare” del socialista Largo Caballero.
Neppure di Abbate è questo intendimento, perché
a lui preme soprattutto parlare della dimensione umana di García
Oliver, delle sue traversie, della fuga dalla Spagna nel 1939,
del peregrinare fra Francia, Unione Sovietica, Svezia e Stati
Uniti d’America, del definitivo approdo in Messico, dove
cercherà di ricostruirsi una vita confidando solo su
se stesso, senza nulla attendersi, né pretendere, dal
suo “glorioso e importante” passato.
García Oliver, questo splendido uomo, “di colorito
olivastro, bello, con una cicatrice sul viso, fotogenico, cupo,
una enorme parabellum alla cintola, un oratore esperto, ardente,
abile”, l’idolo della Barcellona proletaria secondo
le parole di Nello Rosselli, colui che per spiegare una strategia
militare in consiglio dei ministri porta l’esempio di
una vecchia rapina compiuta con Durruti, trascina ora la sua
esistenza nel ricordo della grandezza passata ma anche nella
consapevolezza, pur nel dolore della sconfitta, di aver fatto
quanto doveva, di aver speso se stesso senza parsimonia e con
eroismo per trasmettere e realizzare gli ideali che ne avevano
sempre motivato l’esistenza.
Avrà commesso degli errori, però, con l’autorità
datagli dal suo incarico, portò a compimento il sogno
di distruggere gli archivi di tutti i condannati, conservati
nelle cantine del Ministero da lui diretto. E “Solidaridad
Obrera”, il giornale degli anarchici, definirà
quel giorno come il più glorioso della storia politica
spagnola.
Il suo fine, del resto, era di contribuire all’emancipazione
sociale e all’affermazione della libertà e lo vediamo
nelle parole con le quali spiega, anche se non giustifica, la
partecipazione al governo sua e dei compagni della CNT. «La
CNT e la FAI decisero per la collaborazione e la democrazia,
rinunciando al totalitarismo rivoluzionario che avrebbe condotto
allo strangolamento della rivoluzione tramite la dittatura».
Parole pesanti, che potrebbero ancora far scrivere migliaia
di pagine, ma che, come dicevamo, non sta a noi, ora, mettere
in discussione.
Figura contraddittoria
Con crescente partecipazione, stimolata dal ritrovare, ora qui
ora là, le tracce del passaggio di Oliver e del suo ritorno
in Europa (in Francia, però, non in Spagna, perché
ingenuamente “temeva che il suo ritorno potesse dar vita
a episodi di disordine violento”), così come altri
segni della rivoluzione spagnola su e-bay o nei mercatini di
Barcellona, l’appassionata ricerca si completa in una
libreria antiquaria, con la scoperta di El eco de los pasos,
l’autobiografia di García Oliver e la chiave definitiva
per conoscere i particolari della sua esistenza.
Soprattutto quella rimasta sconosciuta, fuori dai riflettori
della storia, nelle lunghe strade diritte del deserto messicano
quando, per sbarcare il lunario, fa l’agente di commercio
di coloranti per tessuti. E per ricostruire, dopo la tragica
morte in un incidente dell’unico figlio, il mesto ritorno
in Europa, con la fine definitiva delle vecchie illusioni e
l’incontro con i compagni di un tempo; molti che lo abbracciano
ma altrettanti che ancora non perdonano, a lui come agli ex
colleghi Juan Peirò e Federica Montseny, il “peccato”
della partecipazione al governo, il “tradimento”
degli ideali antiautoritari e antistatali dell’anarchismo.
Un altro romanzo non-romanzo fu dedicato, a suo tempo, ai protagonisti
della rivoluzione spagnola e a Buenaventura Durruti, l’uomo
che più di ogni altro, nella sua intensa esperienza,
ne riassunse tutti gli aspetti. Parlo, come si sarà capito,
del bellissimo La breve estate dell’anarchia,
che Hans Magnus Enzensberger pubblicò nel 1973 e che
già contribuì al “Ritratto in piedi”
comparso sul n. 276 del novembre 2001. Oggi esce il commovente
profilo di García Oliver, un lungo excursus, pieno di
affetto e curiosità per una figura tanto contraddittoria
politicamente quanto, moralmente, tutta d’un pezzo.
Manca ancora all’appello l’ultimo componente di
quel terzetto di giganti della rivoluzione, l’ultimo di
quei tre militanti operai che furono a un passo dal cambiare
i destini del loro paese: Francisco Ascaso, caduto sui viali
della capitale catalana il 19 luglio, mentre, con i suoi compagni
cenetisti, andava all’assalto dei militari felloni rinserrati
nelle caserme.
Quando anche Ascaso avrà trovato chi ne racconterà
la vita con la partecipazione che hanno meritato i suoi due
compagni, sarà nuovamente completo quel “ritratto
di famiglia” che vide insieme, fieri e solidali, i tre
straordinari “banditi” che portarono un mondo nuovo
nei loro cuori.
Massimo Ortalli
Riporto una succinta bibliografia delle opere più
recenti e ancora disponibili sulla Rivoluzione e la guerra
di Spagna:
•
AA.VV., Chi c’era racconta, Milano, Zero In
Condotta, 1995.
• Durruti 1896-1936, Milano, Zero In Condotta,
1996.
• Anonimo, La cuoca di Durruti, Milano, Deriveapprodi,
2002.
• Max Aub, Barcellona brucia, Roma, Editori
Riuniti, 1996.
• Giulia Canali, L’antifascismo italiano e
la guerra civile spagnola, Manni, 2004.
• Hans Magnus Enzesberger, La breve estate dell’anarchia,
Milano, Feltrinelli, 1973.
• Gabriel Jackson, La repubblica spagnola e la guerra
civile, Milano, Il Saggiatore, 2003.
• Hans Kaminski, Quelli di Barcellona, Milano,
Mondadori, 1984.
• L. Mastroianni – M. Ortalli – G. Zanelli,
Spagna 1936-1939, Imola, Biblioteca Comunale, 1998.
• George Orwell, Omaggio alla Catalogna, Milano,
Mondadori, 1982.
• Abel Paz, Spagna 1936 un anarchico nella rivoluzione,
Manduria, Lacaita, 1998.
• Abel Paz, Durruti e la rivoluzione spagnola,
Pisa, Ragusa, Milano, Biblioteca F. Serantini, La Fiaccola,
Zero In Condotta, 2 voll., 1999 e 2000.
• Abel Paz, Le 30 ore di Barcellona, Carrara,
Tipolito, 2002.
• Josè Peirats, La CNT nella rivoluzione
spagnola, Milano, Antistato, 1977 1978.
• G. Sacerdoti Mariani et al., La guerra civile
spagnola tra politica e letteratura, Firenze, Shakespeare,
1995.
• Carlos Semprun Maura, Libertad! Rivoluzione e
controrivoluzione in Catalogna, Milano, Elèuthera,
1996.
• Umberto Tommasini, L’anarchico triestino,
Milano, Antistato, 1984.
Maître d’hotel barricadiero
di Fulvio Abbate
Ed eccolo finalmente lì, l’anarchico Juan García
Oliver, l’oggetto della nostra indagine, e insieme a
lui la sua storia.
Per vivere, da giovane, è stato cameriere che serve
ai tavoli, ma soprattutto militante, rivoluzionario, carcerato,
viaggiatore, esiliato, amico e compagno di lotta di Buenaventura
Durruti, il combattente libertario che a un reporter canadese,
mentre Madrid, assediata dai fascisti, crepitava, dichiarò:
«Le rovine non ci fanno paura, noi erediteremo il: mondo,
già portiamo un mondo nuovo nei nostri cuori, e questo
mondo sta crescendo in questo istante».
Parole inondate di retorica, sicuro, eppure così fluorescenti
da brillare fino agli occhi accecati dai candelotti lacrimogeni
del maggio ‘68 di Parigi, e forse anche oltre, sicuramente
trascritte più volte nei saggi a fumetti dei Situazionisti,
i teorici della rivolta contro una società dominata
da un modello politico ed economico «spettacolare».
Ha conosciuto il carcere, García Oliver, ma anche,
a dirla tutta, qualche soddisfazione: il giorno prima che
a Barcellona si innalzassero le barricate, nel 1936, era diventato
maître d’hotel, addirittura al «Ritz».
Il minimo, per uno del mestiere, per uno che, da ragazzino,
si era battuto contro la vergogna della «propina»,
ossia la mancia. Quanto invece alle prigioni, al momento opportuno,
ottenute le credenziali di ministro, se ne ricorderà,
e darà l’ordine di distruggere le schede segnaletiche
raccolte nei casellari giudiziari «politici».
Della sua esperienza di ministro della Giustizia ebbe modo
di affermare: «Ci trovammo tra le mani un ministero
in cui, praticamente, non esisteva la giustizia; in cui non
esistevano organi di giustizia. Ognuno se la faceva da sé;
tutti amministravano la loro giustizia. C’è stato
qualcuno che la chiamava «regolamento di conti».
Io dico che era la giustizia amministrata direttamente dal
Paese, dal popolo nella assoluta latitanza degli organi della
giustizia tradizionale che era stata sconfitta. E fin quando
il governo non creava i nuovi organi di giustizia, ricostituendo
i Tribunali popolari e la giurisdizione ordinaria, il popolo
fatalmente doveva assumersi questa funzione e lo faceva.
«Il ministero aveva sede a Madrid e dovemmo trasferirlo
a Valencia. Nonostante il trasloco, il ministero di Giustizia
doveva creare i suoi tribunali rispettivi in ogni provincia
Posso confermare che, sebbene fossimo entrati al governo il
5 novembre, con una situazione disastrosa, caotica della vita
giuridica del nostro Paese, un mese e mezzo dopo, il primo
gennaio 1937, esisteva già in tutta la Spagna la giustizia
popolare organizzata ed erano terminati i “regolamenti”,
e l’amministrazione della Giustizia, a livello locale,
era una realtà».
Il ministro anarchico parla anche di un primo decreto dove
si «stabilisce che ogni cittadino potrà comparire
da solo di fronte a qualsiasi tribunale della nazione. È
una cosa importante? È un diritto e un diritto è
qualcosa di più di una concessione graziosa dei re
e dei governanti, perché i cittadini che hanno un diritto
positivo possono farne uso quando ne traggono vantaggio, quando
convenga loro, senza aspettarsi la graziosa concessione dei
re e dei governanti.
È la cosa più logica e naturale che in un Paese
come il nostro, con una bassa reputazione giuridica, in cui
il popolo non ha mai creduto nella giustizia, nei suoi rappresentanti
e nei suoi avvocati difensori, gli si debba concedere perlomeno
il diritto di difendersi da solo, bene o male, e possa rinunciare
volontariamente a questa difesa, e non debba subire suo malgrado
la difesa obbligatoria di un avvocato che non è di
sua fiducia. Prima, infatti, si pensava e si diceva sempre
che gli avvocati si vendevano alla controparte, se la controparte
pagava loro più denaro di quanto potesse fare colui
che aveva necessità del loro servizio. Con questo decreto
viene messa in salvo tanto la dignità dell’avvocato
quanto il diritto del cittadino».
“Vincemmo”
di Fulvio Abbate
Adesso García Oliver, il nostro uomo, tira il fiato,
solleva il pugno per dare forza a ciò che sta per affermare:
«Non mi vergogno a dire, anzi, confesso con fierezza,
che fummo i re della pistola operaia di Barcellona, vivevamo
e agivamo dispersi. Abbiamo scelto i migliori terroristi della
classe operaia, capaci di rendere colpo su colpo, portando
così alla vittoria il proletariato. Non ci separammo
dal resto dei nostri compagni, restammo uniti; formammo un
gruppo anarchico, un gruppo d’azione per lottare contro
i pistoleros, contro i padroni e contro il governo.
Raggiungemmo il nostro scopo. Vincemmo. I colpi che abbiamo
sferrato sono stati più duri di quelli che abbiamo
ricevuto. Così quando siamo usciti di prigione dopo
l’avvento della Repubblica abbiamo ricostituito il gruppo
decidendo di chiamarci “Nosotros”, quelli che
non hanno nome, che non hanno orgoglio, quelli che sono un
unico blocco, quelli che pagano di persona, l’un per
l’altro.
I Nosotros continuarono a pagare, a compiere il loro dovere,
Durruti l’ha compiuto e quelli che restano dei Nosotros
continueranno a compierlo. La morte non è niente. Le
nostre vite individuali non sono niente. Ed è per questo
che siamo i Nosotros. Finché uno di noi vivrà,
Nosotros vivrà!»
Brani tratti da: Fulvio Abbate, Il ministro anarchico,
Baldini Castoldi Dalai editore, Milano, 2004.
“Voi soli, avete battuto i fascisti”
di Hans Magnus Enzensberger
Entrammo, armati fino ai denti, con fucili, pistole e mitragliatori.
Non portavamo camicia, avevamo i volti anneriti dal fumo della
polvere.
“Siamo i rappresentanti della CNT e della FAI,”
dicemmo al capo di gabinetto, “e questa è la
nostra guardia del corpo, che viene con noi. Companys ci vuole
parlare.”
Il presidente ci accolse in piedi. Era visibilmente commosso.
Ci strinse la mano; quasi quasi ci abbracciava. Lo spettacolo
fu breve. Ci sedemmo. Ciascuno di noi aveva un fucile fra
le ginocchia. Companys ci tenne il seguente discorsetto:
“Per primissima cosa devo dir Loro questo: la CNT e
la FAI non sono state fino ad oggi trattate mai in modo rispondente
alla loro importanza. Siete stati sempre perseguitati nel
modo più duro, ed io, che un tempo mi trovavo dalla
vostra parte, con dolore mi sono visto costretto, per esigenze
politiche, a combattervi ed a perseguitarvi.
Oggi siete i padroni della città e di tutta la Catalogna,
perché voi, voi soli, avete battuto i fascisti. Spero
che non ve la prendiate a male se, tuttavia, ricordo che uomini
del mio partito, della mia guardia e della mia amministrazione,
siano stati pochi o molti, negli ultimi giorni non vi hanno
rifiutato il loro appoggio.”. Rifletté un attimo
e poi continuò:
“Ma la verità è semplicemente questa:
perseguitati ancora l’altro ieri, oggi avete battuto
i militaristi e i fascisti. Io so chi siete e che cosa siete,
e perciò devo parlarvi in tutta sincerità. Avete
vinto.
Tutto è nelle vostre mani. Se non avete più
bisogno di me come presidente della Catalogna, o se non mi
volete più, ditelo subito.
Mi batterò contro i fascisti come semplice soldato.
Ma se invece pensate che da questo posto, che in caso di un
trionfo del fascismo non avrei abbandonato vivo, io possa
essere utile alla lotta che prosegue in tutta la Spagna e
della quale non sappiamo quando e come finirà: allora
potete contare su di me, sul mio partito, sul mio nome e sul
mio prestigio. Potete fidarvi della mia lealtà come
della lealtà di un uomo, e di un uomo politico, convinto
che con oggi è crollato tutto un passato, e tutta la
sua vergogna, e che desidera sinceramente che la Catalogna
si ponga alla testa dei paesi socialmente più avanzati.”
Juan García Oliver 1
Tratto da: Hans Magnus Enzensberger, La breve estate
dell’anarchia, Feltrinelli, Milano, 1973.
Il momento sembrava arrivato
di Abel Paz
Agli inizi di dicembre del 1932, dopo circa tre mesi di detenzione
governativa, senza che riuscisse mai a capire a che cosa si
doveva questa misura, Durruti venne liberato.
Di nuovo fuori e di nuovo i soliti problemi. Non ebbe alcuna
difficoltà a farsi riassumere al suo vecchio posto
di meccanico, nella fabbrica tessile dove aveva lavorato dal
maggio del 1931, ossia il suo primo impiego da quando era
tornato dall’esilio.
La prima cosa che si domandò Mimì fu fino a
quando sarebbe durata la libertà, allorché Durruti
le comunicò, tre giorni dopo essere stato liberato,
che quella sera si riuniva tutto il gruppo per studiare la
posizione che la CNT doveva prendere riguardo al recente potere
autonomo della Generalitat de Catalunya.
La riunione si tenne in casa di García Oliver, nel
quartiere di Sants. All’ora convenuta, erano presenti
Antonio Ortiz e Gregorio Jover, Francisco Ascaso e suo fratello
Domingo (che, anche se non apparteneva al gruppo, godeva della
fiducia di tutti), Aurelio Fernández e la sua compagna
María Luisa Tejedor, anche lei del gruppo; Durruti,
Ricardo Sanz e García Vivancos, che erano arrivati
assieme, seguiti, poco dopo, da Pepita Not e Julia López
Maimar.
Oggetto della riunione? García Oliver era stato incaricato
dal Comitato Regionale della CNT (e questo secondo una mozione
del pleno regionale) della elaborazione di un piano insurrezionale
da mettere in pratica nel momento che si riteneva opportuno.
E quel momento sembrava arrivato.
Guerra o rivoluzione
di Abel Paz
Stalin inviava un alto funzionario a Madrid e un rivoluzionario
a Barcellona. Perché questa differenza? I due avevano
compiti differenti. Antonov Ovssenko veniva a Barcellona,
capitale dell’anarcosindacalismo spagnolo e centro europeo
di una ideologia rivoluzionaria ostile al marxismo. Non si
era mai avuto un movimento socialista catalano di una certa
forza.
Il Partido Socialista Obrero Espanol era sempre stato un’organizzazione
minuscola, senza alcun peso. L’Unió Socialista
de Catalunya aveva sicuramente dirigenti di prestigio ma senza
la sua alleanza elettorale con la Esquerra non avrebbe avuto
mai un deputato né un consigliere municipale. Il Partido
Comunista filo-moscovita era, di fatto, inesistente e il Bloc
Obrer i Camperol era un raggruppamento giovane e dinamico,
ma senza alcuna influenza sulle masse operaie del paese.
Le due grandi forze popolari erano la CNT, di radice anarcosindacalista
e la Esquerra Republicana, di orientamento catalanista. La
missione del console generale sovietico era certamente difficile,
più pericolosa ancora dell’assalto al Palazzo
d’Inverno: doveva attirare, neutralizzare o distruggere
quelle due forze.
Pochi giorni dopo il suo arrivo a Barcellona, e probabilmente
indirizzato da un conoscitore della scena politica catalana,
Antonov Ovssenko entrò in relazione personale con me,
della Esquerra, e con García Oliver, uno dei rappresentanti
più autentici dell’anarcosindacalismo catalano.
All’inizio, il console sovietico prese alloggio all’Hotel
Majestic del Paseo de Gracia. E in due o tre occasioni ci
invitò, García Oliver e me, a pranzare con lui
da soli, semplicemente per “parlare della situazione”.
Il suo obiettivo era duplice: capire chi eravamo e come la
pensavamo e studiare se c’era la possibilità
di attirarci dalla sua parte.
Allora la discussione era centrata sull’alternativa:
guerra o rivoluzione. Gli anarchici sostenevano la tesi rivoluzionaria.
Una volta trasformato il colpo di Stato del 19 luglio 1936
in guerra civile – diceva García Oliver –,
la vittoria delle forze repubblicane non può essere
che il risultato dell’azione militante della classe
operaia. E quindi è necessario fare una “guerra
rivoluzionaria”, espressione fisica, sociale ed economica
del proletariato rivoluzionario.
Brani tratti da: Abel Paz, Durruti e la rivoluzione spagnola,
BFS, La Fiaccola, Zero in condotta, 1999.
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