Inizi di febbraio.
Il papa è malato e la prima notizia del telegiornale
riguarda il suo stato di salute. Il conduttore dell’edizione
di mezza sera – siamo su RAI 3, ma potrebbe essere qualsiasi
altro canale – ci guarda con aria compunta e ci comunica
che la crisi è stata superata. “E adesso”
aggiunge con un guizzo di allegria “ vi passo il nostro
… – il nome e il cognome francamente non li ricordo
– che se ne sta al buio e al gelo fuori dal Policlinico
Gemelli”. E in diretta dal marciapiede antistante l’ospedale
appare sullo schermo il solito giornalista ben pettinato,
con il suo bravo giaccone tecno dal bavero rialzato, che,
sbuffando nuvolette di vapore a prova di quanto freddo faccia
davvero laggiù – ci conferma che il papa, grazie
al cielo, sta meglio.
Perché quel poveretto (il giornalista, dico, non il
papa) debba sottoporsi a tanto disagio non è, a dire
il vero, chiarissimo. Il Gemelli, con tutti i pezzi grossi
che è uso ospitare, è indubbiamente provvisto
di una sala stampa ben riscaldata. Se quell’inviato
se ne sta fuori al buio e al gelo, è perché
ha deciso, lui o chi per lui, che è meglio così.
Suppongo che si tratti di una scelta dimostrativa, nel senso
che serve a testimoniare come nessun ostacolo e nessun disagio
possa impedire ai nostri intrepidi colleghi di fare il loro
dovere.
Già, ma di che dovere esattamente si tratta? Di quello
di dare notizie, certo, ma la notizia importante, quella che
il papa sta meglio, ce l’ha già data il conduttore
da studio e di altro, in termini informativi, non abbiamo
bisogno. Per quanto il meschino resti a barbellare al buio,
non potrebbe aggiungervi nulla di significativo. Il papa sta
meglio e se, Dio non voglia, sopravvenisse una crisi, i medici
certo non si precipiterebbero in strada a comunicarlo in diretta
(almeno si spera). Eppure, in questo preciso momento, sui
televisori di tutto il mondo, una quantità di giornalisti
di entrambi i sessi, variamente agghindati e debitamente compunti,
stanno annunciando in diretta da analoghe postazioni all’aperto
che non è successo niente.
Gara tra i network
Per l’occasione, i colossi del ramo hanno fatto uno
sforzo speciale. La CNN, a quanto riferisce “Repubblica”,
ha mandato da Londra venti persone in rinforzo della redazione
romana. La BBC ne ha in loco trentacinque. È giunta
una squadra dalla Grecia e una dal Borneo. Ap.com, che per
prima, sembra, ha dato in diretta la notizia del ricovero,
ha schierato dodici elementi aggiuntivi e, del resto, non
è un mistero che tutte le televisioni hanno affittato
da anni ogni tetto e terrazza con vista sul Vaticano (il presidio
RAI è a Borgo Angelico, a due passi da San Pietro).
“E si dice che i principali network americani abbiano
affittato da tempo immemorabile l’accesso al satellite
per i primi dieci minuti di ogni ora, per poter essere in
grado di trasmettere subito.”
Siccome anche i giornalisti, ogni tanto, provano un po’
di vergogna, né l’articolista di “Repubblica”
né altri giornali specificano che cosa debba fare tutta
questa brava gente. L’unico commentatore che ha azzardato
un’ipotesi in merito è stato, che io sappia,
Filippo Gentiloni sul “Manifesto”, che notoriamente
non conta. Ma, tanto, che cosa stanno facendo lo sappiamo
tutti: stanno aspettando che l’augusto paziente, se
non oggi domani, e se non domani qualche altro giorno, tolga
definitivamente il disturbo. La gara tra i network, quella
che giustifica affittanze di terrazzi e prelazioni di satelliti,
è a chi sarà il primo ad annunciare al mondo
che il papa è morto. E anche se la crisi, per ora,
è passata è poco ma sicuro che da lì,
finché il pontefice sarà ricoverato al Gemelli,
non li schioda nessuno.
Fa un po’ impressione – anche in questi tempi
duri – l’idea di tutta questa gente in trepida
attesa della morte di un vecchio malato, come gli avvoltoi
nelle vignette o gli eredi cattivi in un feuilleton
ottocentesco. E visto che morto un papa se ne fa notoriamente
un altro, pensate quante altre persone stanno aspettando con
altrettanta ansia, quali preoccupazioni circolino ai vertici
della Chiesa, che trame si stiano tessendo, quali alleanze
si stringano, che promesse vengano scambiate: in Vaticano,
si sa, la campagna elettorale è in corso da anni. Ma
in Vaticano, in fondo, fanno il loro mestiere e gli interessi
dei vari prelati si possono considerare legittimi. Su quanto
sia legittimo l’interesse della stampa e dei mezzi di
comunicazione, sul fatto che anche loro stiano facendo soltanto
il proprio mestiere, forse sarebbe giusto avere qualche riserva
in più. Il diritto alla privacy spetta a tutti,
anche al papa, e per quanto concerne il pubblico, la grande
comunità dei fedeli, chi si interessa comunque alle
cose di chiesa, poco dovrebbe importare che riceva la notizia
in diretta da un abbaino con vista sui palazzi apostolici
o più canonicamente attraverso un comunicato dell’ufficio
stampa del Vaticano, che certo non tarderebbe più di
qualche minuto.
La logica della informazione spettacolo, ancora una volta,
ha travolto quella della informazione. Da quel punto di vista,
l’inviato al freddo sul marciapiede e i suoi colleghi
appostati sui tetti sono protagonisti allo stesso titolo dell’uomo
che giace malato all’ultimo piano. Una occorrenza luttuosa
quanto si vuole, ma naturale e, ahimé, affatto prevedibile
ha assunto un valore mediatico assoluto, a prescindere da
ogni considerazione di opportunità, coerenza o necessità
informativa. L’obiettivo (non dichiarato) è ancora
una volta quello di spacciare l’inevitabile per imprevisto,
l’ovvio per sensazionale, a costo di passare sul cadavere
del diretto interessato. La “vera” notizia, quando
sarà data, non sarà quella della morte del papa,
ma quella di chi ha dato la notizia della morte del papa,
che rappresenta, diciamolo pure, un bel caso di autoreferenzialità
e di disinteresse (per non dire disprezzo) per i propri compiti
istituzionali.
In pasto alle folle
Quanto al papa, bisogna dire che un po’ se l’è
cercata. Nella grande scommessa ideologica della sua carriera,
ha giocato fin dall’inizio la carta della immagine pubblica.
Si è dato coscientemente in pasto alle folle, con i
suoi viaggi e i suoi messaggi, i suoi interventi e le sue
sofferenze, ha identificato così strettamente la funzione
pontificale con la persona (e il personaggio) di Karol Wojtyla
da non lasciare nessun possibile spazio alla discrezione.
È il prezzo che oggi deve pagare chiunque aspiri a
una posizione di preminenza: lo fanno tutti, dall’ultima
delle veline al presidente degli Stati Uniti. Ma la bagarre
di questi giorni ci mostra come da quella posizione sia fin
troppo facile precipitare, riducendosi da soggetto a oggetto,
da protagonista a comparsa, da potente a vittima. Anche quello
dell’informazione è un mercato e, come tutti
i mercati, è indicibilmente crudele.