Qualcosa
che prima è un seme, poi è una pianta. Anche il
tronco di questa pianta, in quanto legno, può diventare
un cucchiaio, o una sedia, o un tavolo. Il girino diventa rana.
Qualcosa del genere avviene nella storia delle parole: dalla
radice “sp”, c’è chi sostiene che sia
venuto fuori l’ispettore, l’episcopale, lo scettico,
il scetticheggiante e lo scetticheggiare, e anche la spia –
sembra che la radice designasse un “guardare due volte”,
un “guardare e riguardare”, da cui tutta la varietà
dei significati che ancora noi, oggi, attribuiamo a queste parole.
Per distinguere l’essere umano in crescita, poi, abbiamo
a disposizione una ricca famiglia di termini: feto, neonato,
poppante, infante, bambino, fanciullo, ragazzo, uomo, adulto,
vecchio, senescente, etc. Più o meno, quando usiamo questi
termini, ci si capisce; se parliamo di neonato in rapporto al
ragazzo, ovviamente, non c’è problema, ma se il
neonato lo opponiamo al poppante qualche problema, ovviamente,
sorge. Come distinguerli con chiarezza? O come far sì
che tutti ma proprio tutti parlino di fanciullo distinguendolo
sempre e comunque dal ragazzo? Sull’uso di certe parole
occorre mettersi d’accordo. Più è il loro
contenuto categoriale, si potrebbe provare a dire, più
è opportuno provare a mettersi d’accordo. Racconto
di aver inciampato all’inizio delle scale, ma se non specifico
da dove sono partito, il mio interlocutore non saprà
mai se ho inciampato su o giù. “Inizio” –
come “fine”, “parte”, “tutto”,
“prima”, “dopo”, etc. – designa
un operare mentale, un modo di vedere, non qualcosa dal significato
empirico condiviso.
La premessa è necessaria – e l’esempio dell’“inizio”
non è scelto a caso – per capire in che dannato
guaio si dibattano cattolici o presunti tali e laici o presunti
tali a proposito dell’embrione e dei suoi destini. Sui
quali, mesi fa, il filosofo Emanuele Severino si è deciso
a sciorinare il suo argomento “decisivo”, “mai
stato preso in considerazione”, indicato da lui “per
la prima volta” nella speranza di farsi capire. Per sostenere
che l’embrione “non è” un essere umano,
comincia spiegando cos’è la capacità
– senza il “senso” della quale non avremmo
tutte quelle meraviglie che l’uomo ha saputo compiere
in ogni campo: “politico, religioso, economico, artistico,
giuridico, scientifico, culturale” – e, passando
per l’inevitabile Aristotele, afferma che “la capacità
esiste anche prima di essere esplicata o messa in pratica”.
È la ben nota potenza e “che l’embrione
prodotto dal seme dell’uomo e dall’ovulo della donna
sia essere umano in potenza” sembrerebbe un principio,
a suo modo di vedere, accettato da tutti. Ma, come dice lo stagirita,
“ciò che è in potenza è in potenza
gli opposti” e, in ragione di ciò, ne conseguirebbe
che “se l’embrione può diventare
un uomo in atto, allora, proprio perché ‘lo
può’ (…), proprio per questo può
anche diventare non-uomo”.
Andiamo avanti. Se “l’embrione è in potenza
un-esser-già-uomo” – è saltato
fuori anche un “già” per metterla giù
più dura –, “è in potenza anche
un esser-già-non-uomo”. E “se l’embrione
è, in potenza, quell’esser già uomo che
è necessariamente unito all’esser già non
uomo, ne viene che l’embrione non è già
un uomo – non è cioè quell’esser autenticamente
uomo che rifiuta di unirsi all’esser non-uomo”.
“Questo autentico esser uomo” – stiamo volgendo
al termine – “non è pertanto ’contenuto’
nell’unità potenziale dell’esser uomo e del
non esser uomo: così come lo scapolo (…) non è
contenuto nell’ammogliato”. Da ciò apparirebbe
chiarissimo che “non si può quindi dire che sopprimendo
l’embrione si uccide l’uomo”. Così
come – riprendendo il suo esempio – non si può
certo dire, che uccidendo l’ammogliato, si uccide lo scapolo
ch’era stato in lui. No, quello, anzi, se la gode. In
potenza, aggiungerebbe un Aristotele ridacchiante.
Ferve, allora, il dibattito. Nel bailamme, tempo dopo a Severino
risponde Giovanni Reale, altro filosofo e la sua risposta va
segnalata per un solo motivo: a dimostrazione di cosa sia la
filosofia – di quale “plasticità”,
di quale duttilità possa godere –, la tesi di Reale
si basa sui medesimi argomenti di Aristotele ricavandone però,
e qui sta il bello, la tesi diametralmente opposta: L’embrione
va difeso, è vita. Lo ha spiegato anche Aristotele.
Se la vedano loro, vien da dire. Se non che.
Da biologo, strafregandosene di Aristotele, interviene nel dibattito
Edoardo Boncinelli e spiega che “per gli embrioni non
esiste l’ora x”. Allora. La fecondazione in altro
non consiste che nella “congiunzione di un gamete maschile,
lo spermatozoo, e uno femminile, la cellula-uovo o ovocita maturo”.
Questo processo si svolge in diverse ore e, condizione necessaria
perché si possa parlare di un “nuovo organismo”
è la combinazione dei dna dei due genomi. Così
si ha una singola cellula che, in quattro e quattr’otto,
prende a duplicarsi – fino ad un momento in cui, smettendola,
assume sembianze tali per cui, guardandole attentamente e confrontandole
con l’apposito album delle figurine, qualcuno potrà
parlarne come di un cane, di una giraffa o di Brigitte Bardot.
Ma, allorché Boncinelli conclude la sua chiara lezione
di biologia, si pone una domanda: “Quando è che
un embrione diventa persona e come tale gode dei diritti scritti
e non scritti spettanti ad una persona?”. E si dà
la risposta: “Questa è una domanda che esula dalla
biologia e della scienza in generale e qui mi fermo”.
E, qui, fa male a fermarsi. Perché è l’argomento
che, di solito, fornisce preti e stregoni vari di lasciapassare
per entrare da protagonisti nei dibattiti scientifici. Si dà
per scontato che la definizione delle parole e delle categorie
che queste parole designano – per esempio in parole come
“persona” – non sia questione di scienza.
Non di biologia, d’accordo, ma di qualche altra scienza
sì. Per esempio di una semantica che possa avvalersi
di un modello dell’attività mentale che, sempre
e comunque, le parole designano. Se ciò si esclude di
principio, giocoforza a decidere il significato delle parole
sarà sempre chi comanda – a tutto scapito di chi
obbedisce.
Felice Accame
P.s.: gli articoli di Severino, Reale e Boncinelli sono stati
pubblicati sul “Corriere della Sera”, rispettivamente
il 1 dicembre 2004, il 6 gennaio 2005 e il 26 gennaio 2005.
P.p.s.: pare incredibile, ma, a volte, non dico “ritornano”,
ma “sono sempre qui”. Per l’esorcismo: a)
ricordarsi che “potenza” e “atto” sono
schemi categoriali. Allorché la sanatura, per esempio,
viene costituita come contemporanea al termine di confronto
si ha la “potenza” (cfr. S. Ceccato, La mente
vista da un cibernetico, Eri, Torino 1972, pag. 93) e b)
capire come ha fatto Aristotele a cacciarsi nei guai del rapporto
tra dynamis ed energheia (cfr. G. Vaccarino,
La nascita della filosofia, Società Stampa Sportiva,
Roma 1996, pp. 232-244).
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