I pericolosi nemici dello zar
Non è certo un capolavoro questo esile romanzo storico,
I nihilisti in Russia. Cogli ultimi fatti avvenuti nel 1881
e la morte dell’imperatore Alessandro II, pubblicato
nel 1881 dall’editore Mangoni di Milano e scritto da tale
S. B. Valeriow, scrittore che risulta sconosciuto perfino all’onnipotente
Google. Ben altri, e più noti, sono stati i capolavori
della letteratura russa che hanno trattato il tema della rivolta
esistenziale e intellettuale che la gioventù ribelle
di quel paese intraprese nella seconda metà dell’Ottocento.
E sono pagine di altra profondità quelle che hanno consegnato
alla storia della letteratura, pur fra polemiche e chiaroscuri,
gli interpreti del processo di emancipazione individuale dalle
catene del tradizionalismo, che trovò, nel vasto movimento
populista, gli strumenti per mettere in crisi lo zarismo e creare
le premesse per la sua finale catarsi. Basti pensare, come spiega
Franco Venturi nel suo monumentale Il populismo russo
(Einaudi, 1952), che lo stesso termine “nihilista”,
creato per significare questo movimento generazionale di rivolta,
appare per la prima volta nel 1862 nel romanzo Padri e figli
di Turgenev e che anche Dostojevskij ebbe più volte a
tratteggiare, nelle sue opere, figure sicuramente riconducibili
ad esso.
Ma se ai grandi autori appena citati premeva soprattutto affrontare
gli aspetti morali e psicologici del fenomeno nihilista, per
riflettere su come il cambiamento che interessava le nuove generazioni
si riverberasse sulla struttura sociale, in questo breve romanzo
– poco più che un opuscolo – il trasparente
interesse dell’autore (sia egli davvero Valeriow o chiunque
si nasconda dietro questo nom de plume) non è
scrivere davvero un romanzo, reso ricco e interessante dal tratteggio
delle sue idee timidamente riformatrici, quanto rendere queste
più accessibili “sfruttando” il pretesto
della narrazione romanzata. E se questa intenzione è
già enunciata nella prefazione, anche la trama, inconsistente
e ingarbugliata quanto non mai, dimostra che il vero fine dell’autore
è di buttare qua e là, in ordine sparso, considerazioni
di carattere politico e sociale: trasparenti suggerimenti all’ipotetica
autorità che avesse avuto la bontà di leggerle,
su come fosse opportuno mantenere una certa dialettica con un
movimento di protesta che, se pure usava strumenti violenti
e illegali, affondava comunque le proprie radici e traeva legittima
linfa da una situazione sociale resa esplosiva dalle sue nequizie,
dal suo autoritarismo inflessibile e dalle sue crudeltà.
Per quanto fin qui detto, è facile immaginare come la
struttura del racconto sia tipica del feuilleton, con
relative riunioni notturne in tenebrosi cimiteri, padri disgraziati
e figlie devote, spie traditrici e nobili giovinetti, virginali
eroine amate da ufficiali combattuti fra la passione per la
figlia del nihilista e la fedeltà allo zar, tenebrose
cospirazioni e nobili intenti. E, alla fine, con l’improvviso
dramma che vede la morte di entrambi i protagonisti. Una morte
provvidenziale, del resto, descritta in modo talmente frettoloso
e approssimativo da sfiorare il ridicolo, ma utile per giungere
a una conclusione plausibile dell’intreccio. E tutta questa
fatica, evidentemente, nell’attesa di approfondire, con
una efficace appendice dal taglio giornalistico, il motivo reale
per il quale il libello è stato scritto: ossia le ragioni
della insofferenza per il soffocante autoritarismo zarista e
i presunti torti di una rivolta che sfociava nell’attentato
sanguinoso contro l’autocrate o il boia di turno.
In effetti quella di “addolcire” gli aspetti più
estremistici della ribellione antizarista doveva essere un’esigenza
sentita nei circoli politici e intellettuali più aperti
alle idee provenienti dall’Europa ed era altresì
normale che la francofona società russa, che nelle discussioni
preferiva il francese alla madre lingua, cercasse di intervenire
sulle strutture sociali del paese. La situazione, infatti, nonostante
il decreto che nel 1881 aveva eliminato la servitù della
gleba e le anime morte di Gogol, era quanto mai esplosiva:
una società chiusa, le libertà individuali pressoché
inesistenti, una polizia onnipotente, la divisione delle ricchezze,
in una società poco più che feudale, iniqua quanto
in nessuna altra parte d’Europa. E altrettanto normale
fu che questa necessità di cambiamento trovasse la sua
espressione più forte ed incisiva nel movimento nihilista,
capace di aggregare con la parola d’ordine di “morte
all’autoritarismo” la più aperta e generosa
gioventù russa. Quella stessa descritta nei libri di
Turgenev, drammaticamente esposta alla contraddizione fra aprire
la società alle idee liberali e rivoluzionarie d’Europa,
esprimendo la propria individualità senza limiti e costrizioni
moralistiche, e al tempo stesso preservare, nel suo “andare
al popolo” oppresso, la profondità dell’anima
e del sentire slavo.
Una definizione mai accettata
Come si diceva, il movimento nihilista, grazie al romanzo di
Turgenev, si ritrovò cucito addosso, obtorto collo,
questo nome ma, come spiega Franco Venturi in uno dei passi
riportati, i presunti nihilisti mai accettarono tale definizione,
essendo consapevoli che l’accesa affermazione della loro
individualità non significava affatto, come suggeriva
lo scrittore, un processo di autoesclusione dalla società
ma, al contrario, l’espressione di un profondo afflato
umanitario e di un sentimento di sincera condivisione delle
sofferenze del popolo. Nulla a che spartire, quindi, con l’individualismo
che, a cavallo del secolo, avrebbe trovato nel pensiero di Nietzsche
la sua affermazione, e che avrebbe contagiato, con il suo individualismo
superomistico e orgogliosamente “distaccato” dal
mondo, tanta parte di una gioventù altrimenti sensibile
e altruista. Al contrario, la presunta ed esasperata affermazione
di sé, altro non era che un bisogno di offrirsi fino
all’estremo sacrificio, e il sacrificio, infatti, li colpì
in massa, con la galera, le deportazioni in Siberia, l’esilio
e le impiccagioni con le quali lo zar cercava di togliersi di
torno quei pericolosi nemici.
Profonde sono le affinità di questo movimento con il
nascente anarchismo, e spesso si è fatta confusione fra
queste anime della rivolta russa. Il rifiuto dell’autocrazia
zarista diventava, nelle sue conseguenze, il rifiuto del principio
stesso di autorità; il desiderio di una società
di liberi portava necessariamente a quello di una società
di uguali; l’uso di strumenti di lotta indisponibili al
recupero da parte del riformismo generava la consapevolezza
della ineluttabilità della sovversione rivoluzionaria.
E come furono forti le affinità ideologiche, così
lo furono quelle esistenziali, con tracce biografiche spesso
coincidenti se non, addirittura, sovrapponibili. Valga per tutti
l’esempio dei giovani cospiratori capeggiati dal famoso
Necaev, l’angelo vendicatore sospeso fra nihilismo e anarchismo,
e che forse, alla luce delle più recenti ricognizioni
storiche, fu la vittima sacrificale della leggenda nera creata
dal potere attorno alla sua intransigente durezza rivoluzionaria.
Sia come sia, fu evidente in certa borghesia e nei circoli progressisti
del paese la convinzione che, se la società fosse rimasta
ferma e immutabile nel tempo, come la voleva una mummificata
classe dirigente, non avrebbe potuto esserci altro sviluppo
se non la estrema radicalizzazione del conflitto, e fu per questo
che si cercò di innescare un processo riformatore che
recuperasse le istanze espresse dai “nihilisti”.
Un comprensibile e, a suo modo, intelligente tentativo di neutralizzarne
la carica propulsiva e di esorcizzare quella voglia di rivolta
non solo individuale ma anche e soprattutto collettiva, che,
come un fiume carsico, avrebbe incessantemente scavato nella
società, emergendo confusamente nel 1905 ma riuscendo,
poi, prodigiosamente vincitrice nell’ottobre del 1917.
Come ho detto all’inizio, il valore letterario di questo
I Nihilisti è poca cosa rispetto ad altri e
più importanti lavori sulla gioventù rivoluzionaria
russa, e non è certo in esso che sta l’interesse
che mi ha spinto a parlarne. Piuttosto è significativa
l’ingenuità con la quale l’autore, evidentemente
esponente della classe illuminata di cui si diceva, ha tentato
di tratteggiare la complessità di un processo di trasformazione
sociale del quale, in buona sostanza, gli sfuggivano i contorni.
Ma in questa confusa rappresentazione emergono i tratti di una
generazione di rivoluzionari spesso incompresi e sempre osteggiati
da quelle stesse ortodossie ideologiche che, negli anni a seguire,
avrebbero preso il loro posto. Ma personalmente sono convinto
che senza i primi non ci sarebbero state le seconde, con le
loro grandezze e le loro miserie; ed è questo il motivo
per cui ho voluto ricordare, anche se succintamente, la loro
avventura.
Massimo Ortalli
Nihilismo
di S.B. Valeriow
Pochi anni sono una parola strana ferì gli orecchi dell’Europa
– quella parola era: nihilismo.
(…). Perché colà accadevano scene di sangue,
colpi audaci, lotte sorde ed accanite, assassinii, deportazioni
in Siberia, erezioni di patiboli, ecc.
Allora si domandarono:
“Che cosa è il nihilismo? Che cosa vuole? Chi sono
quegli uomini che si fanno chiamare con tal nome?”.
Certo Bakum (probabilmente si trattava di Bakunin, N.d.R.),
dalla clemenza dello Czar salvato dai ghiacci della Siberia,
sorse prontamente per rispondere a tali domande e disse:
“Nihilismo vuol dire riforma di tutto e di tutti, e dovesse
la Russia ed i suoi abitatori restar sepolti sotto le ruine
della distruzione, è necessario ch’essa si compia.”.
Fatto sta che sulla sua organizzazione, quanto sui capi che
compongono l’associazione, regna grande mistero.
Ciò che si sa però si è, che la libertà
non la si ottiene mediante assassinii, e quantunque regnasse
del malcontento in causa di alcune leggi che dovrebbero essere
riformate, fa mestieri indicarlo con mezzi legali onde coloro
che siedono al potere abbiano a porvi rimedio, senza ricorrere
a quelle inique vendette che lordano il partito, e lo rendono
spregevole in faccia al mondo tutto.
Così la pensiamo noi – tuttavolta – non vogliamo
imporre le nostre idee a nessuno.
Condizioni mitissime
di S.B. Valeriow
“Godo” prese a dire il generale “di trovarmi
alla presenza di uomini che hanno il coraggio civile di spiegare
le loro opinioni in faccia ad altr’uomo che dovrebbero
riguardare con paura, perché loro nemico. D’altronde
io non vi conosco, o signori, e vi posso egualmente giurare
che nulla tenterò per sapere chi voi siate, quand’anche
le vostre pretese non si accordassero colle leggi dell’impero.
Io qui venni solamente colla speranza di por termine a questo
stato di cose terribile e tenebroso, di poter portare nell’impero
quella pace e quella concordia che tutti desiderano. Ora vi
ascolto, o signori.”.
Il nobile contegno del generale soddisfece alquanto tutti gli
astanti.
Uno di essi allora si avanzò verso il generale e dopo
un rispettoso saluto disse:
“Abbiamo fiducia nelle vostre parole, o generale, e vi
ringraziamo in nome della patria tutta, se potrete ottenere
dall’imperatore quanto osiamo di chiedere pel bene comune.”
“Formulaste le proposte?”.
“Sì, generale, eccole:
1. Inviolabilità della persona e del domicilio da parte
della polizia.
2. Riconoscimento della nazionalità nella vita privata
e pubblica.
3. Libertà e diritto uguale per tutte le religioni.
4. Libertà della stampa, d’istruzione, di riunione
e d’associazioni.
5. Autonomia dei comuni, dei circondarii e delle provincie.
6. Diete provinciali cogli impiegati responsabili.
7. Esame e revisione della posizione del popolo in riguardo
sociale ed economico.
8. Amnistia completa per tutti i colpevoli politici.
Voi comprenderete, generale” continuò quell’incognito
personaggio che aveva letto le pretese “che queste condizioni
sono mitissime e che la nazione ha diritto di averle per non
essere trascinata verso una bancarotta materiale e morale.”.
Il generale pose in tasca il foglio consegnatogli e:
“Sta bene” rispose il generale inchinandosi “presenterò
le proposte alla commissione appositamente incaricata di rivederle,
e spero che l’imperatore sarà per ratificarle.
Tuttavolta se non avessi a riescire non potremo incolparci vicendevolmente.
Ognuno ha fatto il proprio dovere.”.
“… perché sono una
donna?”
di S.B. Valeriow
Non si faccia meraviglia il nostro lettore se fra gli adepti
di quelle società segrete trovavansi delle donne. Esse
mostravansi anzi più ardenti e più intrepide degli
uomini, e sapevano spiegare la logica delle idee fino alle sue
ultime conseguenze.
Elena adunque, poiché sappiamo il suo nome, rivolgendosi
agli astanti, disse loro:
“Signori, io fui spinta nell’agitazione socialista
dal sentimento della giustizia, e dalla pietà per gli
oppressi; sento in me la forza d’agire e la fede nel successo;
ma qui vedo che ci perdiamo in parole e null’altro. Che
avete deciso riguardo il rigetto delle nostre proposte da parte
del Consiglio Supremo?”.
“Le ripeteremo nuovamente” rispose un grave personaggio
che sembrava fosse presidente dell’adunanza, non tanto
per la sua età quanto per l’autorità della
sua parola. “E se esse verranno ancora respinte, allora…”.
“Allora?…” replicò Elena.
“Ci intenderemo cogli altri circoli sul da fare”
continuò quel personaggio.
“Io sarei del parere” obiettò uno degli astanti
“di agire senza perder tempo.”.
“Questa è pure la mia idea” rispose Elena.
“Compatisco la vostra esaltazione, mia cara Taifremow”
ripigliò quel grave personaggio “ma io non giungerò
mai alle vie di fatto senza aver prima esaurite tutte quelle
formali e consentite dal codice.
“Come!” esclamò Elena sdegnata “cotesto
è il giudizio che fate di me, perché sono una
donna? Oh! ma se le mie carni sono più molli di quelle
dell’uomo, hanno però la stessa indole morale.
Se i miei muscoli sono meno forti, sono però più
resistenti e capaci di sforzi continui. Or bene, sì,
come donna sarò sostenuta da un’esaltazione cerebrale,
ma sarò sempre più forte di voi altri uomini.
L'impiccagione di Sofia Perovskaja
e dei suoi compagni dopo l'attentato allo zar Alesandro II
I volontari del nihilismo
di S. B. Valeriow
A proposito dei volontari nihilisti, narrano quanto segue:
“L’associazione rivoluzionaria russa non è,
come spesso si è stampato, una specie di carbonarismo
con assemblee generali e convocazioni periodiche Essa si compone
di giovani decisi di morire, e si è visto in che modo
muoiano. Essi si presentano ad un seggio sociale e si fanno
inscrivere per un dato scopo, per tale o tal altra operazione
determinata.
Per l’attentato di Mosca, in cui trattavasi di far saltare
le rotaie ed il treno imperiale, erano quindici.
Per l’esplosione del Palazzo d’Inverno erano in
diciotto.
Per l’assassinio di Mezenkoff erano tre. Questa volta
il comitato rivoluzionario non decise la morte di Alessandro
II se non quando vide presentarsi più braccia che non
ne abbisognavano per passare ad altri tentativi, qualora il
primo fallisse.
Nei primi tempi della fondazione della società nihilista
gli uomini incaricati d’una esecuzione erano designati
dalla sorte. Il numero sempre crescente dei volontari della
morte, ha permesso di sopprimere questa coscrizione.
Quando l’attentato fu assolutamente deciso, e non restava
che fissarne la data, si scelsero i giovani atti alla fabbricazione
delle bombe, e le donne abbastanza capaci per la pericolosa
manipolazione della nitroglicerina.
Quasi tutti i congiurati si offersero per lanciare le bombe.
Ne furono scelti cinque, ma sarebbero stati trenta se il comitato
non avesse temuto che la presenza sul passaggio dell’imperatore
di tanta gioventù, la maggior parte sospetta, non destasse
delle diffidenze.”.
Brani tratti da: S. B. Valeriow, I nihilisti in Russia,
R. Mangoni Editore, Milano, 1881.
Parola mal scelta
di Franco Venturi
Pisarev troverà un nome a questa corrente, accettando
come un elogio quella definizione di “nihilisti”
che Turgenev aveva adoperato – con intento polemico –
nel suo romanzo Padri e figli.
La parola non era nuova. Era stata impiegata nel Settecento
da F. Jacobi, da Jean-Paul Richter e da Sébastien Mercier.
Nel 1829 il critico romantico Nadezhdin l’aveva adoperata
in Russia – sia pure in un senso puramente negativo –
per indicare coloro che nulla sanno e nulla capiscono. Katkov
le aveva attribuito un significato già diverso, intendendo
per nihilista colui che non crede a nulla: “Se si guarda
al cosmo, posti di fronte a due atteggiamenti estremi, è
più facile diventar mistico che nihilista: siamo circondati
ovunque da miracoli”.
L’uso che della parola “nihilismo” si fece
nella sinistra hegeliana, da Bruno Bauer e da Stirner, finì
per caricarla d’un senso filosofico e polemico. E già
nel 1861 Katkov la riprese come uno strumento polemico contro
gli scrittori del “Contemporaneo”. Ma fu Turgenev
a renderla popolare, a sintetizzare in essa l’atteggiamento
morale e le idee della giovane generazione degli anni ’60
(del XIX secolo, N.d.R.).
Non fu difficile scoprire subito che la parola era mal scelta.
Se c’era della gente che credeva ciecamente, violentemente
nelle proprie idee, eran proprio i “nihilisti”.
La loro fede positivistica e materialistica poteva esser accusata
di fanatismo, di giovanile mancanza di spirito critico, non
certo di indifferentismo. Aveva ragione Saltykov-Scedrin quando
scriveva che quello era un “vocabolo privo di senso, capace
meno di qualsiasi altro di caratterizzare la giovane generazione,
nella quale si poteva discernere ogni genere di “ismi”,
ma non certo il nihilismo”.
Sarebbe facile citare un lungo elenco di proteste e di rettifiche
fatte dai populisti delle diverse correnti e delle varie epoche
per spiegare quanto poco si attagliasse loro la parola lanciata
da Turgenev. Antonovic si credette in dovere di scrivere sul
“Sovremennik” una lunga recensione di Padri
e figli, che suonava – come fu giustamente notato
– una vera e propria condanna dell’autore, giuridicamente
ragionata, per aver falsificato la realtà. Anche negli
anni seguenti i rivoluzionari russi restarono stupiti e insieme
scandalizzati sentendosi chiamare “nihilisti”.
Eppure il nome rimase e si diffuse, soprattutto in Occidente,
dove la parola piacque e servì a esprimere quel senso
di mistero da cui erano circondati populisti e terroristi russi.
Basta aprire i giornali francesi, inglesi, italiani, ecc. degli
anni ’70 per ritrovare continuamente questa parola. A
vedersela capitare così spesso sotto gli occhi, nasce
spontaneo il sospetto che essa fosse tornata alla sua accezione
primitiva, che non ricoprisse ormai più altro che l’ignoranza
dei giornalisti e dei polemisti che scrivevano dei movimenti
russi senza conoscerne i problemi e senza penetrarne lo spirito.
Bakunin, Lavrov, Necaev
di Franco Venturi
Parlando di Necaev, abbiamo visto come Bakunin tentasse un
momento di servirsi del “giovane fanatico” per influenzare
e magari per dirigere da lontano il movimento rivoluzionario
russo. Fallito questo tentativo, Bakunin non rinuncerà
all’idea di organizzare la gioventù russa e di
diffondere la sua Alleanza anche in Russia.
Ma i suoi sforzi in tal senso non furono mai molto fortunati.
Gli riuscì a più riprese di suscitare tra gli
emigrati dei nuclei bakunisti, ma essi gli saranno sempre scarsamente
fedeli.
Una prima sezione russa dell’Internazionale, da lui creata,
passerà presto in maggioranza alla corrente avversa,
“statalista” e marxista. Un altro gruppo di anarchici
russi finirà per staccarsi da lui e per agire per proprio
conto, mantenendo fede all’anarchia ma non alla sua persona.
L’unico autentico successo l’ottenne il giorno in
cui gli riuscì d’influenzare una parte notevole
della colonia studentesca formatasi a Zurigo agli inizi degli
anni ’70.
Per loro tramite le sue idee passeranno in Russia contribuendo
non poco a creare l’atmosfera da cui nascerà l’“andata
nel popolo” e la seconda Zemlja i volja. Ma anche là
gli elementi propriamente bakunisti resteranno scarsi e dispersi.
Non un’organizzazione, ma una mentalità rivoluzionaria
egli riuscirà a suscitare.
Le ragioni di tutto ciò sono molteplici. Innanzitutto,
non era facile dirigere dall’emigrazione un movimento
che aveva ormai una sua tradizione e che trovava le sue radici
nei problemi dell’intelligencija e dello stato
russo. Il suo avversario Lavrov si scontrerà nelle medesime
difficoltà. In genere il populismo sarà guidato
dall’emigrazione assai meno di quanto generalmente si
pensi. Anche quando Bakunin giunse allo zenit della sua influenza
in Russia – nella seconda metà degli anni ’70,
– i populisti non mancheranno di cogliere tutte le occasioni
per sottolineare il proprio carattere specifico e per proclamarsi
autonomi sia dal punto di vista ideologico che politico. Questo
stato d’animo si rifletteva anche sulla “giovane
emigrazione” e non le consentiva di farsi guidare integralmente
da Bakunin.
Del resto, gli elementi emigrati furono sempre pochi e, non
foss’altro per questo, sempre tentati di dedicarsi interamente
al lavoro organizzativo-propagandistico delle sezioni dell’Internazionale
là dove si trovavano, in Italia, in Svizzera, in Francia.
I loro sforzi per mantenere i contatti con la Russia saranno
continui e ripetuti, ma scarsamente coronati da successo. Tutto
ciò rese Bakunin piuttosto scettico sull’emigrazione
russa, specialmente dopo la scottatura di Necaev, e fece volgere
la sua attenzione soprattutto verso la Francia, l’Italia
e la Spagna.
Brani tratti da: Franco Venturi, Il populismo russo,
tomo 2°, Einaudi, Torino, 1972.
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