Trovo stucchevole
e francamente inutile appassionarsi al dilemma se l’epoca
contemporanea privilegi l’economico sul politico o viceversa:
penso sostanzialmente che siano gli assi portanti, ambedue
indispensabili, perché possano dispiegarsi le logiche
e la prassi di assetti sociali che, per amore o per forza,
soggiacciono alle leggi del mercato e della democrazia rappresentativa.
Se non ci fosse uno Stato ad approntare l’apparato normativo
perché l’economia capitalistica possa congruamente
dispiegarsi non si andrebbe molto lontano, in termini di redistribuzione
delle risorse, di sicurezza nelle transazioni e di ordine
pubblico; analogamente il sistema produttivo e finanziario
dell’economia di mercato garantisce allo Stato le risorse
necessarie alla sua sopravvivenza.
Il trasferimento a istituzioni internazionali di poteri normativi
che erano sino a qualche decennio fa appannaggio dei singoli
Stati, non significa che questi ultimi abbiano perduto la
loro presa sul territorio presidiato: significa soltanto che
l’accelerazione dei processi di globalizzazione non
consente più eccessive frammentazioni negli assetti
giuridico-amministrativi delle singole aree d’influenza,
e, soprattutto, non ammette margini di flessibilità
alla liberalizzazione dei mercati dei capitali dei beni e
dei servizi.
Arriviamo, così, all’ultima stazione del Calvario:
la globalizzazione o, per meglio dire, la mondializzazione
dei problemi dell’Occidente.
Nell’articolo precedente,
apparso sul n. 308 di “A”, mi ero astenuto dal
trattare l’aspetto specificamente economico della democrazia
matura. Non era, ovviamente, un voler esorcizzare il problema:
si trattava piuttosto di voler analizzare in primo luogo la
funzione della politica e le sue (in)capacità di rispondere
concretamente alle naturali esigenze dei popoli di riacquistare
l’arbitrio dei propri destini
Adesso, però, non posso spingere oltre questa reticenza
anche perché, nel tentativo di guidare una dinamica
economica e di rapporti internazionali assai complessa come
quella posta dalla globalizzazione, la politica – quella
“alta”, quella che si interroga costantemente
sulla sua funzione – è apparsa frammentaria,
balbettante, spesso inconsapevole delle conseguenze derivanti
dalla messa un moto di una macchina tanto complicata e contraddittoria
quale è quella che pretende di regolare l’economia
mondiale.
Poche ma essenziali notizie su quelle istituzioni che, per
prime, hanno travalicato le logiche particolaristiche degli
Stati nazionali e hanno volto il loro sguardo su aree assai
più vaste.
Parliamo naturalmente della Banca mondiale (BM) e del Fondo
Monetario Internazionale (FMI), ambedue nati a Breton Wood
(USA) nel 1944 con l’obiettivo: a) di normalizzare nei
limiti del possibile la circolazione e la convertibilità
monetarie internazionali, impedendo o arginando oscillazioni
rovinose in un panorama di macerie provocate dal secondo conflitto
mondiale (che, peraltro, non si era ancora del tutto concluso);
b) di affrontare organicamente il gigantesco problema degli
aiuti ai Paesi in difficoltà, in particolare i Paesi
europei che avevano in prospettiva il grande problema della
ricostruzione.
Un rapido sguardo alla loro composizione interna e alle modalità
del loro funzionamento.
Abbiamo detto che sia la BM che il FMI sono nati ambedue nel
1944 e vi aderirono subito 44 Paesi. Ecco nel dettaglio.
Banca Mondiale
Esaurito il compito originario di finanziare la ricostruzione
europea, la Banca si assunse l’onere di finanziare progetti
di sviluppo per i popoli più poveri del pianeta. È
costituita da due strutture principali: l’IBRD (International
Bank for Reconstruction and Development) e l’IDA (International
Development Association).
Vi sono poi dei gruppi autonomi che hanno compiti specifici:
la IFC, che finanzia investimenti privati nei paesi in via
di sviluppo; l’ICSD (International Center for Settlement
of Investiment Disputes) organismo di conciliazione tra gli
investitori e i paesi beneficiari; la MIGA (Multilateral Guarantee
Agency) che garantisce gli investitori esteri dai rischi non
commerciali. L’IBRD finanzia progetti destinati a Paesi
con un Prodotto interno lordo pro capite superiore a 1.305
$ annuo con rientri previsti tra i 2 e i 5 anni.
L’IDA, invece, presta denaro a più lunga scadenza
(12-15 anni) e senza interessi a Paesi che hanno un PIL pro
capite inferiore. Oggi i Paesi aderenti alla BM sono oltre
180.
La IBRD si finanzia prevalentemente attraverso l’emissione
di obbligazioni garantite dai governi membri.
L’IDA è finanziata da sovvenzioni dei paesi aderenti.
In teoria, a guidare la BM sono i ministri delle finanze di
tutti i paesi membri, che si riuniscono di norma una volta
l’anno. La conduzione concreta “sul campo”
è però affidata a 24 Executive Directors che
rappresentano le differenti quote di partecipazione al capitale
complessivo.
Così Francia, Germania, Giappone, Gran Bretagna e Stati
Uniti hanno un Director Executive per ciascuno, mentre tutti
gli altri membri sono rappresentati dai rimanenti 19 Executive
Directors, ciascuno dei quali è chiamato a rispondere
del proprio operato ad un certo numero di Stati.
La sede centrale della BM è a Washington e, per tradizione,
il suo Presidente è nominato dagli Stati Uniti. George
Bush ha onorato il suo impegno designando alla carica (in
scadenza il prossimo 31 maggio) il n. 2 del Pentagono Paul
Wolfowitz, una garanzia per gli affari più o meno leciti
dell’amministrazione e delle multinazionali americane.
Fondo Monetario Internazionale
Lo scopo principale del FMI non è quello di offrire
prestiti, ma di supervisionare le politiche monetarie dei
Paesi aderenti (attualmente 183, se non vado errato) e di
far rispettare il codice di condotta stabilito dal suo Statuto,
che, in estrema sintesi, indica nella stabilità monetaria
la premessa necessaria a qualsiasi politica di sviluppo.
Il FMI si finanzia sia con la vendita di obbligazioni a governi,
banche, fondi pensioni e assicurativi, sia con le sovvenzioni
a fondo perduto dei Paesi aderenti.
Il potere di voto è proporzionale alle sovvenzioni
di ciascuno Stato, talché i dieci Paesi più
ricchi del mondo (USA, Germania, Giappone, Regno Unito, Francia,
Italia, Canada, Belgio e Paesi Bassi) possiedono oltre il
52% del potere decisionale del Fondo. L’assistenza del
FMI ai paesi che la sollecitano è accordata esclusivamente
se si accettano le filosofie dei PAS (Piani di Aggiustamento
Strutturale), nati a seguito della crisi del Messico del 1982.
In estrema sintesi, essi prevedono la drastica riduzione delle
spese sociali (sanità e istruzione), privatizzazione
delle imprese pubbliche ed eliminazione di ogni intervento
assistenziale: svalutazione della moneta locale, innalzamento
dei tassi di interesse (in modo da favorire l’afflusso
di capitali esteri), eliminazione di ogni limite alla libera
circolazione dei capitali, eliminazione di ogni ostacolo al
libero flusso di prodotti e servizi che provengano dall’estero.
Questa sorta di capitolato ha provocato effetti devastanti
nelle aree investite dal ciclone FMI, come vedremo in seguito.
La guida del FMI è affidata ad un Comitato (Interim
Commitee), che si riunisce una volta l’anno ed è
composto dai ministri delle finanze o dai governatori delle
banche centrali dei paesi membri. Come per la BM, però,
i poteri gestionali sono affidati a 24 Executive Directors,
dei quali otto rappresentano singole nazioni (Cina, Francia,
Germania, Russia, Arabia Saudita, USA, Inghilterra e Giappone).
I rimanenti 16 ED rappresentano tutti gli altri Paesi aderenti.
L’insorgere di un’ulteriore crisi messicana nel
1993 indusse l’amministrazione Clinton ad intervenire
per salvaguardare gli interessi degli investitori esteri (in
prevalenza americani), che infatti furono rimborsati delle
perdite senza che tali perdite andassero ad aggravare l’emergenza
del Paese in difficoltà, anzi consentendo un’accelerazione
dei flussi commerciali che favorirono la ripresa. Il rischio
di destabilizzazione dell’area connesso alla crisi messicana,
convinse Clinton che si dovesse procedere ad un accordo che
regolasse i flussi di capitali, merci e servizi del continente
nordamericano. Nacque così il NAFTA, un accordo sottoscritto
dagli USA, dal Messico e dal Canada. I benefici (veri o presunti)
di questo accordo, convinsero le maggiori istituzioni internazionali
(principalmente FMI/Tesoro degli Stati Uniti e Banca mondiale)
ad istituire un organismo che si occupasse di regolare il
commercio internazionale.
Prende corpo, così il
World Trade Organizzation (WTO)
(Organizzazione mondiale del commercio)
In realtà, più che il NAFTA, il WTO ha come
antenato il GATT (General Agreement on Tariffs and Trade),
sorto nel 1947 per la regolamentazione delle tariffe e del
commercio internazionale. Gli accordi che i paesi aderenti
sottoscrivono riguardano lo scambio di merci, servizi e proprietà
intellettuali, fissano principi generali di liberalizzazione
dei mercati e di eliminazioni di barriere doganali e di altri
ostacoli agli scambi.
Al suo interno operano uffici che presiedono alla composizione
di conflitti tra gli operatori e a dirimere dispute legali.
Il WTO si articola in una Conferenza Ministeriale, che deve
riunirsi almeno due volte l’anno; un Consiglio Generale,
che delega importanti funzioni a tre distinti organi: il Consiglio
per il Commercio dei beni, il Consiglio per il Commercio nel
settore dei servizi e il Consiglio per le proprietà
intellettuali. La sede principale è a Ginevra.
Anche se si è sintetizzato al massimo sui tre principali
organismi preposti alla globalizzazione, appare chiaro come,
soprattutto la BM e il FMI, siano strumenti in mano alla minoranza
più ricca e progredita del Pianeta.
La loro funzione è quella di veicolare ed imporre le
parole d’ordine del capitalismo maturo, anche se, per
non apparire impresentabili, si travestono da soccorritori
dei derelitti. Nella realtà dei fatti, le loro finalità
si possono riassumere nel tentativo di “esportare”
il modello di sviluppo capitalistico o, meglio – come
abbiamo già detto – di mondializzare dinamiche
economiche che sono proprie del capitalismo a stelle e strisce.
Un disegno miope, che, nell’istanza egoistica di far
pagare al resto del mondo il prezzo del benessere americano
(in primo luogo, ma del modello economico nel suo complesso)
non ha tenuto conto del fatto che le crisi innescate in aree
anche lontane da interventi improvvidi, che corrodono tessuti
sociali ed economie locali, con vocazioni di sviluppo diverse
da quelle imposte dai presunti soccorritori di turno (BM o
FMI), finiranno inevitabilmente per ritorcersi sull’intero
contesto globalizzato. La crisi americana della fine degli
anni Novanta fu la conseguenza diretta della bolla speculativa
che desertificò il Sud Est asiatico.
Proverò ad esemplificare i motivi di insuccesso di
alcune dinamiche, di matrice spiccatamente ideologica, innescate
dalla BM e dal FMI quando si propongono come soccorritori
di Paesi in via di sviluppo che versano in difficoltà.
Liberalizzazione del mercato dei
capitali
I Paesi emergenti, quelli che tra mille difficoltà
tentano di ridurre il gap che li penalizza rispetto alle economie
forti, sono alla ricerca costante di capitali che possano
finanziarne lo sviluppo.
Ma i capitali vanno remunerati, talché è necessario
attuare politiche dei tassi che siano vantaggiose per gli
investitori. Non sempre è possibile, per i governi
locali, bilanciare la crescita dei tassi con misure che non
alterino gli equilibri economici complessivi.
Con l’apertura delle frontiere ai capitali esteri, senza
il necessario controllo sulla loro qualità, di solito
affluiscono nell’area masse di denaro che solo in minima
parte possono essere impiegate per alimentare la crescita
reale, con interventi, cioè, in attività produttive,
in infrastrutture e così via: la parte più consistente
e distruttiva è costituita da capitali vaganti, speculativi,
che inquinano il contesto e, sollecitando euforie ingiustificate,
inducono a comportamenti e a scommesse sul futuro del tutto
ingiustificati.
Ad un momento dato, per l’impossibilità del sistema
interno di sostenere a lungo una crescita drogata o, assai
più spesso, per incontrollabili spinte emotive (la
sensazione che lo Stato non sia in grado di garantire gli
investimenti effettuati), improvvisamente come sono affluiti,
tali capitali se ne ritornano nei paradisi fiscali dai quali
in prevalenza sono partiti.
Lo scenario che si lasciano alle spalle è desolante:
una molteplicità di imprese falliscono non avendo potuto
completare, per l’improvviso rarefarsi delle risorse,
il ciclo del loro consolidamento; si inaridisce il circuito
creditizio, si verifica una drastica riduzione dei consumi,
si ha una crescita esponenziale del debito pubblico e crollano
i valori della Borsa. È a questo punto, di norma, che
interviene il FMI, il quale condiziona il suo aiuto all’attuazione
della sua ricetta: una politica fiscale restrittiva, tagli
alle spese sociali, e, soprattutto, privatizzazioni, che consistono
nella svendita del patrimonio pubblico e nell’apertura
dei canali attraverso i quali le multinazionali si impossessano
dei settori strategici per la crescita del Paese.
Liberalizzazione dei mercati di
beni e servizi
Questo della liberalizzazione del mercato di beni e servizi
è di fatto il tracciato attraverso il quale si realizza
una nuova forma di colonizzazione. La parola d’ordine
iniziale è “esportare”, in modo che si
possano recuperare risorse per garantire gli investimenti.
Ma, quasi sempre, l’apparato produttivo locale è
debole, sia per tecnologie antiquate sia per il livello di
professionalità degli addetti. C’è poi
la concorrenza nei mercati esteri che non è tenera.
Si punta tutto allora sul costo del lavoro e sulla riduzione
delle garanzie dei lavoratori, i quali sono obbligati a lavorare
di più per salari di fame, senza peraltro poter contare
su servizi sociali efficienti, ridotti o addirittura annullati
dall’esigenza, imposta, di dover ridurre le spese. Ma
il fattore che mina la stessa indipendenza e sovranità
del Paese soccorso è la liberalizzazione del mercato
dei servizi, che include i servizi finanziari e lo sfruttamento
delle risorse autoctone. Attraverso questa magica parola:
“liberalizzazione” si apre la strada all’intervento
predatorio delle multinazionali. Si comincia con i servizi
finanziari.
Le banche d’affari, attratte dalla possibilità
di conquistare nuove aree operative, tendono ad assorbire
le banche locali per controllare l’esercizio del credito
a loro beneficio. È così che l’area viene
privata di quelle risorse di cui un paese in via di sviluppo
ha bisogno, cioè di un credito mirato ad allargare
la base produttiva indigena che ha caratteristiche e dimensioni
proprie e che, quindi, deve poter contare su un credito elargito
tenendo conto delle specificità delle imprese da beneficiare.
Le multinazionali del credito hanno obbiettivi completamente
diversi e finiscono con il privilegiare i clienti ricchi (altre
multinazionali), che garantiscono ritorni sicuri e maggiori
possibilità di controllo del territorio.
Ma il settore del credito non è il solo ad essere colonizzato.
Per lo stesso canale della liberalizzazione e delle privatizzazioni
transitano le grandi imprese (quasi sempre americane) che
mirano allo sfruttamento delle risorse locali (miniere, giacimenti
petroliferi e altre fonti energetiche eventualmente presenti
nel territorio).
Essendo questi settori vitali per la crescita, è inevitabile
che l’intera vita politica e sociale della nazione “soccorsa”
ne resti condizionata.
Infine il problema della moneta. L’imposizione di una
svalutazione della moneta, necessaria per favorire le esportazioni
e l’applicazione di alti tassi di interesse per remunerare
adeguatamente i capitali che affluiscono, finiscono con innescare
processi inflattivi che gravano come nuove tasse sulle spalle
dei cittadini i quali vedono le loro condizioni di vita peggiorare.
Alcuni esempi dei “salvifici” interventi del FMI
e della BM.
Riduzione di PIL e salari
Il Costa d’Avorio ha iniziato il proprio rapporto con
il FMI nel 1989, rapporto che si è articolato in più
interventi sino al 1994. In questo periodo, la ricetta del
FMI, da accogliere per ottenere gli aiuti, ha ottenuto questi
risultati: il PIL è sceso del 15%; la popolazione che
viveva con 1$ al giorno (o meno), che era il 17,8% del totale,
raggiunse il 36,8%.
Nel 1991 lo Zimbawe ottenne un finanziamento di 484 milioni
di dollari. Ebbene, le condizioni imposte di liberalizzazione
dei settori produttivi e la contrazione della spesa pubblica
e di quella sociale portarono ad una riduzione del 5,8 % del
PIL, e la contrazione dell’occupazione nel manifatturiero
del 9%, con una riduzione media dei salari del 26 %.
Ma gli effetti più disastrosi la politica congiunta
del FMI e della BM li provocarono nell’intervenire pesantemente
nella crisi dell’Est asiatico del 1997/98. Iniziò
l’Indonesia, alla quale si imposero, tra le altre, misure
drastiche di contenimento della spesa sociale. Si dovettero
così tagliare i fondi di sussistenza destinati ai poveri.
Nel maggio del ‘97 scoppiò la rivolta e da allora
il paese vive periodi di gravi difficoltà perché
le condizioni poste dal FMI, lungi dall’incentivare
afflussi di capitali, ne provocarono il deflusso con effetti
disastrosi per tutta l’economia (il 75% delle imprese
fallirono). Analogamente in Thailandia, in Malaysia, nella
Corea del Sud gli interventi del FMI e della BM provocarono
quella crisi, rimasta proverbiale come crisi del Sud Est asiatico,
le cui conseguenze ebbero ripercussioni pesanti e non soltanto
nell’area direttamente interessata.
Un capitolo a parte meriterebbe la situazione in America Latina,
ma non si può in questa sede allargare il discorso.
Concludiamo questo cahier des doléances con una considerazione
di Joseph E. Stiglitz, premio Nobel per l’economia,
già chief economist della Banca Mondiale ai tempi dell’amministrazione
Clinton:
La perdurante
crisi della finanza internazionale ci fa capire in modo sempre
più chiaro che c’è qualcosa di sbagliato
nel sistema... La ragione, forse, era ovvia: pur non funzionando
in modo ottimale per i mercati emergenti, il sistema serviva
bene gli interessi degli Stati Uniti e, in particolare, delle
loro società finanziarie, e una delle colpe più
gravi dell’amministrazione Clinton è aver fatto
poco o niente per risolvere il problema. (J. E. Stiglitz,
I ruggenti anni Novanta, G. Einaudi Editore, Torino,
2004, pag. 216).
Parole sacrosante ma insufficienti a spiegare un trend che
in quasi cinquant’anni di attività del FMI e
della BM lascia dietro di sé le macerie di 1,2 miliardi
di persone che vivono con meno di 1$ al giorno, 3 miliardi
con al massimo 3$, quasi 3 milioni di bambini che muoiono
all’anno nei paesi in via di sviluppo, 1,5 miliardi
di persone che non accedono all’acqua potabile; per
non parlare della sostanziale indifferenza, non solo delle
istituzioni internazionali, ma dell’intero Occidente
opulento, nei riguardi del flagello dell’AIDS.
No, credo che ridurre il problema a ciò che avrebbe
potuto fare Clinton e non ha fatto o alla sostanziale impotenza
dell’ONU, significa non voler vedere ciò che
è sotto gli occhi di tutti: è il mito del mercato,
costantemente riproposto come equo mediatore tra i bisogni
e le risorse per soddisfarli, a mostrare tutti i suoi limiti.
Intanto la ripartizione della ricchezza è tanto sbilanciata
a vantaggio di una parte esigua di popolazioni (circa 800
milioni di anime contro i rimanenti 5 miliardi che costituiscono
i così detti paesi in via di sviluppo) da impedire
che possa esservi un’economia di mercato globalizzata.
Poi il mercato ha dimostrato di essere, nell’Occidente
industrializzato, un moltiplicatore di grandi aggregazioni
monopolistiche, con la conseguente rarefazione delle piccole
e medie imprese che non riescono a reggere la concorrenza.
È un fenomeno perfettamente percepibile nelle nostre
città, dove la distribuzione dei beni è in mano,
nella gran parte, a multinazionali, le quali, per evitare
la concorrenza e controllare i prezzi, evitano di pestarsi
i piedi tra loro e ricorrono ad accordi che ne moltiplicano
le dimensioni e ne aumentano la capacità di controllo
del territorio.
Attraverso la stessa logica, oggi il controllo delle fonti
energetiche, e dei principali servizi indispensabili per ogni
comunità (prodotti farmaceutici, energia elettrica,
mezzi di trasporto e di comunicazione) sono in mano a multinazionali
che, lungi dal diffondere benessere, aumentano i prezzi dei
prodotti, rendendoli sempre meno raggiungibili da fasce sempre
più consistenti di cittadini; incrementano la povertà
e la disoccupazione; riducono le nostre città a formicai
attraversate da moltitudini disperate che cercano di accedere
comunque a quei consumi di massa che la televisione reclamizza
come alla portata di tutti.
Se questi sono i guasti provocati dal mito del mercato già
all’interno delle comunità ricche, figuriamoci
i danni che provoca in quelle popolazioni derelitte che ai
ricchi si rivolgono per ottenerne l’aiuto. Qui da noi,
in Sicilia, ogni anno vengono distrutte, perché non
trovano mercato, tonnellate e tonnellate di agrumi che sarebbero
il toccasana per i popoli africani più poveri, afflitti
da carenze vitaminiche gravi. Ebbene, le leggi del mercato
impongono la distruzione del prodotto piuttosto che la sua
distribuzione gratuita o il suo trasferimento tra i diseredati
della terra.
Allora un’autocritica, come quella di J.E. Stiglitz
è benvenuta a condizione che non si fermi a metà
del percorso. Il dramma non è in nessun modo riconducibile
all’inadeguatezza dei protagonisti, si chiamino essi
Clinton o Bush padre e figlio, ma alla logica stessa del capitalismo
che, nel suo percorso e nella sua vocazione espansionistica,
infesta popoli e continenti. Come in simile contesto possa
innestarsi un discorso sull’attualità e sull’attuabilità
di percorsi democratici – ammesso e niente affatto concesso
che si tratti di percorsi in qualche modo virtuosi –
è difficile da ipotizzare. L’eguaglianza tra
uomini con differenze così marcate di condizioni di
vita, così lontani nelle capacità decisionali,
così sideralmente distanti nelle possibilità
di realizzare le proprie aspirazioni e di essere arbitri della
propria esistenza, questa eguaglianza proclamata e mai attuata
di una democrazia appena credibile, può essere solo
argomento di una farsa teatrale di infimo ordine.
Allora?
Verso una società libera di eguali
Una risposta al “che fare” non è facile
e, più che una ricetta pronta da attuare, penso si
debbano immaginare percorsi che non contraddicano gli obiettivi
di una società libera di eguali, quale è quella
che noi anarchici auspichiamo.
In questa direzione, io credo, il Movimento libertario deve
rimeditare in profondità le modalità del suo
intervento e ammettere che tra le grandi idealità che
propugna e i percorsi cosparsi di ostacoli che offre la quotidianità,
esiste uno scarto che non va esorcizzato ma neppure demonizzato.
Bisogna prendere coscienza che, se è vero che una rivoluzione
non è tale se non è la rivolta di tutti gli
uomini, non è altrettanto vero che la nostra capacità
di intervento sia solo di tipo educazionista o, peggio, che
ci si possa promuovere come migliori gestori delle strutture
esistenti e prevalenti.
Dobbiamo dire con chiarezza che noi non soltanto non crediamo
alla democrazia rappresentativa, ma che non intendiamo ereditarne
gli strumenti. Così come non vogliamo uno Stato “diverso”,
ne ripudiamo al contempo tutte le logiche aggregative, nessuna
esclusa.
Dobbiamo proporre una visione nuova del territorio e del suo
autogoverno; dobbiamo progettare forme nuove di tutela di
tutti gli uomini, a prescindere dai ruoli che lo Stato e il
capitale assegnano loro, in una fase della storia in cui sono
scomparsi dalla scena i veri o presunti antagonisti del capitale
(la classe, il movimento dei lavoratori, il sindacato, il
partito rivoluzionario e via dicendo).
Se ci poniamo in quest’ottica e ci organizziamo adeguatamente
per perseguirla, forse siamo ancora in tempo a correggere
una deriva che minaccia di farci approdare in lidi inospitali.
Antonio Cardella