Una storia confusa
Non è certo la confusione che manca nelle pagine di
questo romanzo breve appena uscito per i tipi dell’Einaudi
(Franco Bernini, La prima volta, Torino, 2005, 12,00
euro). L’impressione è che l’autore, affermato
regista e sceneggiatore, abbia voluto rimescolare situazioni
e personaggi difficilmente accostabili, e che quindi la carne
al fuoco sia diventata troppa. E proprio la presenza degli elementi
che avrebbero dovuto rendere più convincente la trama,
ossia gli anarchici attentatori e i moti popolari del 1898,
appare come una pretestuosa forzatura, sostanzialmente estranea
all’economia del racconto. Ma andiamo per ordine.
Siamo nel 1898. Esattamente l’8 maggio 1898, il giorno
in cui l’esercito sabaudo prende a cannonate la folla
affamata a Milano mentre a Torino, fra mattina e pomeriggio,
si disputa il primo campionato di calcio italiano. Da una parte
il popolo che, nel chiedere pane e migliori condizioni di vita,
vede centinaia dei suoi figli trucidati dalle truppe regie,
dall’altra quattro aristocratiche squadre di football,
tre torinesi e una genovese, impegnate a disputarsi il primo
scudetto con foga e spirito cavalleresco. Per legare fra loro
questi due argomenti e rendere così più interessante
il racconto, Bernini non ha trovato di meglio che ricorrere
alla curiosa invenzione di due anarchici, quello buono, il giovane
poeta e calciatore animato da nobili ideali e quello cattivo,
il maturo mestatore spinto alla vendetta dall’odio e dal
rancore. Insomma, i soliti banali stereotipi nazional-popolari
che caratterizzano la figura dell’anarchico: di qua il
generoso utopista, di là il tenebroso assetato di sangue.
Già che c’eravamo, si sarebbe potuto fare di meglio.
La storia non è particolarmente complicata, anche perchè,
come detto, si svolge nell’arco di una sola giornata.
In un velodromo torinese si affrontano il Genoa Cricket and
Athletic Club, il Football Club Torinese, l’International
F.C. e la Società Ginnastica. In campo signorotti e professionisti
inglesi, marinai genovesi, la buona borghesia torinese e qualche
nobile in vena di stravaganze. Fra questi, a duellare sul tappeto
erboso e nella vita, Jason Brandi, giovane anarchico e poeta,
e l’onorevole Teodorico Venaria, già di simpatie
socialiste ma ora, da quel politicante spregiudicato che non
nasconde di essere, passato armi e bagagli alla reazione. E
mentre le quattro formazioni si affrontano spensieratamente
sul terreno di gioco, su un altro terreno, drammaticamente,
cadono a centinaia i proletari milanesi e la dimostrazione pacifica
di un popolo spinto dalla crisi, diventa una carneficina insensata.
Nel rispetto degli ordini ricevuti, Bava Beccaris, il generale
di pessima fama che legherà il proprio nome a uno dei
periodi più bui della storia italiana, ordina alle disciplinatissime
truppe di soffocare nel sangue la protesta popolare. Come la
storia ricorda, il Bava, in segno di gratitudine per la lezione
inflitta al proletariato, vedrà appuntarsi sul petto,
per mano reale, la massima onorificenza aurea; ma quel metallo
si trasformerà in piombo, allorché Gaetano Bresci,
“l’anarchico venuto dall’America” metterà
ben altra medaglia sull’augusto petto di Umberto I.
Comunque sia, le drammatiche notizie che giungono da Milano,
pur gettando lo sconcerto fra i giocatori, non riusciranno a
fermare il gioco (guai fin da allora a mettere in discussione
la funzione “conciliatrice” e metapolitica della
passione sportiva!) e le squadre continuano così la loro
signorile sfida di fronte alle poche decine di persone che assistono
allo spettacolo. Fra questi, tre poliziotti giunti per sorvegliare
quegli strani signori che si affrontano in mutandoni (e il delegato
intuisce che la vita dell’onorevole è in pericolo),
alcune giovani signore e signorine attratte dal nuovo sport,
una famigliola capitata non si sa come. E poi il cattivo di
cui si parlava prima, l’anarchico Elias, disinteressato
al football e lì solo per istigare il suggestionabile
David Jason a sparare all’odiato deputato in nome dei
morti milanesi. Va da sé che il vigliacco cercherà
in tutti i modi, usando il suo ascendente sul giovane, di armarne
la mano senza farsi coinvolgere nel criminoso progetto. Però,
per una serie di fortuite circostanze, l’attentato non
si compie, anzi, dei due è il giovane idealista che ha
la peggio quando subisce a freddo un brutto, scorrettissimo
fallo ad opera di Venaria. Si vendicherà, però,
facendo innamorare la figlia del padrone delle ferriere di turno
e sottraendola alle voglie del deputato, mentre una baronessina
resa incinta da quel malvagio, dopo un provvidenziale aborto
spontaneo, troverà l’amore nel referee,
un distinto e galante notaio. E, perché ci sia giustizia,
i cattivi avranno quello che meritano. Venaria morirà,
di lì a poco, in un incidente automobilistico, mentre
Elias, dopo aver tentato di sottrarsi all’arresto colpendo
alcuni poliziotti, sconterà qualche anno di galera, anche
se poi questo “incidente del mestiere” gli procurerà
quell’agognata aureola di martirio, che gli “permetterà
di fare carriera in mezzo ai suoi sodali”.
Sceneggiatura per fiction TV
Come dicevamo, la confusione non è poca. E l’attenzione
e la competenza con le quali sono descritte le varie fasi della
partita fanno pensare che tutto il resto non sia che un contorno
pretestuoso e superficiale. Ma, se proviamo a immaginare che
La prima volta non volesse essere un romanzo quanto
la traccia della sceneggiatura di una fiction televisiva, allora
la prospettiva del giudizio cambierà radicalmente.
Vediamo, infatti, che le insipide storie d’amore si prestano
“televisivamente” a ricchi colpi di scena e che
il tratteggio di una “questione sociale” inopinatamente
scaraventata nel testo come un sacco di patate, potrebbe rendere
più interessanti e diversificate le varie puntate, alleggerendo
una narrazione che rischierebbe, se si parlasse solo di calcio,
di annoiare il telespettatore. Così allora si può
capire meglio la leggerezza e la superficialità con le
quali si affrontano temi altrimenti interessanti come i moti
sociali di fine ottocento o la fase “regicida” dell’anarchismo.
E perché tale superficialità si trasforma, anche
se forse involontariamente, in aperta denigrazione laddove tratteggia
la figura di un anarchico uso a strumentalizzare i compagni
soggiogati dal rapporto di sudditanza imposto dalla sua autorevolezza.
In pratica, il classico fellone: pronto a lanciare il sasso
della rivolta sociale ma a nascondere la mano di fronte alla
repressione.
Nella mia più che trentennale frequentazione del movimento
anarchico, credo di non avere mai incontrato un compagno dedito
a nascondersi, dopo averli istigati, dietro gli atti altrui,
o ad approfittare di una pretesa autorità nei confronti
di compagni disposti a riconoscerla. Avremo mille difetti, ma
non di accettare passivamente l’autorità, massime
quando ad esercitarla vorrebbe essere uno di noi. Del resto,
come è noto, gli attentatori ottocenteschi ai quali si
richiama Bernini agirono di propria iniziativa e furono sempre
disposti a pagare, anche duramente, di persona. Credo che, al
di là di una qualsiasi valutazione dei loro gesti, vadano
loro riconosciuti coraggio e dedizione. E anche i gruppi e i
movimenti che lottarono per la libertà contrastando la
reazione, crispina o giolittiana che fosse, lo fecero a viso
aperto e nelle piazze e non strumentalizzando l’idealismo
di giovani adepti generosi e inconsapevoli. Ma qui c’era
la necessità di introdurre la figura di un cattivo, perché
uno sceneggiato (mi scusi Bernini, ma non riesco a togliermi
questa fissazione) senza un cattivo non avrà mai successo.
Secondo me, di personaggi negativi ce ne era già uno,
il deputato-calciatore, e bastava, ma a quanto pare, per poter
dare un colpo al cerchio (la reazione e le cannonate) e uno
alla botte (gli anarchici vendicatori), di cattivi l’autore
doveva crearne due. E così ha fatto!
Ah, dimenticavo. Il primo scudetto andò alla squadra
genovese del poeta che batté in finale, per 2 a 1, quella
torinese dell’onorevole.
Massimo Ortalli
Meglio stupido che sanguinario
di Paolo Valera
Se dicendo che voi vi siete inebriato della polvere delle vostre
armi da fuoco e che la montura che avete appeso fra i ricordi
militari nella vostra villa di Monforte, in Fossano, è
inzuppata del sangue di cento e più morti e di migliaia
e migliaia di feriti sorpresi e massacrati per il gusto di massacrare,
vi calunniamo, trascinateci al tribunale dell’opinione
pubblica come mentitori, se sapete maneggiare la penna, o al
tribunale giudiziario, volete farci espiare la colpa, di aver
fatto di voi un uomo infame. Fatelo generale: fatelo, se volete
tramandare ai vostri figli un nome che non faccia rabbrividire
le generazioni come quelli di Hainau e di Radetzky. Dal primo
o dal secondo uscirete, generale, tutto in frantumi, perché
noi vi inseguiremo con un’artiglieria, più formidabile
della vostra del ‘98. Ma la vostra coscienza potrà
essere alleggerita dai delitti dei vostri complici e la storia
potrà mitigarne il giudizio. Documenterete che è
in voi un zinzino di coraggio civico. Sissignore, per un uomo
che rinsavisce deve essere una consolazione confessare i proprii
delitti: e quegli degli altri. È una espiazione che non
umilia che i pusilli e i pitocchi di cuore. Su, purgatevi, mondatevi,
sbrattatevi del sangue di cui siete tutto incrostato. Voi avete
delle scuse. Il soldato ha l’occhio nella schiena e non
conosce che la disciplina. Borioso, furioso, altezzoso non avete
ascoltato che il sentimento omicidiario. La vostra conoscenza
della capitale lombarda si riduceva alla miseria topografica.
Siete venuto fra noi come uno straniero che ha tutto da imparare.
Gli avvenimenti non ve ne hanno dato il tempo. Incalzato dai
telegrammi ministeriali, circondato dai fanatici della moderateria
milanese, capitanata dai Negri e dai Vigoni, avete bevuto alla
sorgente del loro livore e avete creduto a una preparazione
insurrezionale, ad una esplosione popolare. Dichiarate davanti
ai giudici che l’atmosfera infuocata vi ha dato il capogiro,
che la perturbazione degli altri vi ha messo sotto sopra, che
la paura di tutti vi ha fatto carnefice. Accusate, accusate
anche voi, generale. Confessate che durante il terrore non c’erano
giornali che vi informassero, che vi illuminassero, che vi facessero
da lanterna lungo le vie delle stragi. Dite che non c’era
che una stampa canagliesca che applaudiva il gaglioffo che l’aveva
incatenata, una stampaccia che si compiaceva del bavaglio che
le avevate inflitto, una stampa delittuosa che aveva rinnegata
la tradizione della solidarietà professionale, una stampa
iniqua, cortigiana, vile, idrofoba che vi aizzava e vi indemoniava
a traverso i guazzi del sangue che avevate fatto spargere e
forse farete breccia nell’animo di coloro che vi devono
giudicare e forse placherete l’opinione pubblica che vi
vorrebbe appeso al gancio del linciaggio e vi lascerà
passare nella storia come imbecille. State seduto, generale,
non impermalitevi. Meglio essere stupido che sanguinario: i
primi sono compassionati e dimenticati: i secondi sono esecrati
e inchiodati alle muraglie della vergogna eterna. Coraggio,
rivelate tutto come se foste arrivato alla fine dei vostri giorni.
Brano tratto da: Paolo Valera, Le terribili
giornate del Maggio ’98, La Folla, Milano, s.d.
Milano, maggio 1898. Bersaglieri
all'attacco in Largo La Foppa. Sulla destra si intravede il
Caffè Aurora sul cui sito si trova, attualmente, la libreria
Utopia
Più crudeli degli anarchici
di Leone Tolstoj
L’uccisione di un re, quella di Umberto per esempio,
non è tuttavia un atto di crudeltà particolarmente
ripugnante. Molte misure ordinate dai re e dagli imperatori
– nel passato la strage di S. Bartolomeo, i massacri per
ragioni religiose, la repressione dei contadini ribelli, le
uccisioni di Versailles; oggi ancora i supplizi, l’imprigionamento,
l’impiccagione, le fucilate, le guerre sanguinose –
sono incomparabilmente più crudeli degli omicidi commessi
dagli anarchici. Non si può dire che questi omicidi siano
particolarmente orribili perchè non sono giustificati.
Se Alessandro II e Umberto non meritavano la morte, le migliaia
e migliaia di Russi uccisi sotto Plewna (episodio della
guerra russo-turca del 1877-78. N.d.R.) e gli Italiani
caduti in Abissinia la meritavano molto meno ancora. Gli attentati
contro i sovrani sono orribili, è vero; ma non tanto
per la loro crudeltà e per mancanza di motivi, quanto
per la follia dei loro autori.
Brano tratto da: Leone Tolstoj, Per l’uccisione di
re Umberto, Casa Editrice Abruzzese, Rocca S. Giovanni,
1913.
Giornali monarchici e stupidità
umana
di Amilcare Cipriani
I giornali monarchici e la stupidità umana ripetono
che la morte di Umberto ha dolorosamente colpito al cuore tutti
gli italiani.
Non è vero; eccone la prova.
Il giorno dopo la morte di re Umberto i due deputati eletti
in Italia furono dei socialisti. I loro avversari elettorali
dimostrarono invano che la idea della trasformazione economica,
propugnata dai collettivisti, i comunisti e gli anarchici, aveva
convinto Bresci dell’urgenza del regicidio. Il popolo
votò pei rappresentanti i principi rivoluzionari a costo
di dare ancora ragione a dei fanatici di abbattere idoli umani.
Come i martiri cristiani rischiavano la morte nel circo, per
rovesciare i falsi dei, così i ribelli contemporanei
rischiano la morte del patibolo o quella generata dalle malattie
nei reclusori per precipitare i re nell’abisso della morte:
i due atti sono identici.
In seguito, ciò che fu sintomatico fu quanto si produsse
in Roma durante i funerali di re Umberto: i principi che seguivano
il feretro del re, spaventati, ad un dato momento, sguainarono
le spade per proteggere il loro sovrano.
Da ciò non si può concludere che una rivoluzione
che cambi il regime politico della penisola, sia imminente pel
fatto che, contrariamente a ciò che si è detto,
la morte del re non ha incontrato l’universale riprovazione
e perché il regime attuale è ridotto a repressioni
violente: in questo – sia detto fra parentesi –
il governo non fa che seguire una tradizione che esiste di già
nel paese.
Perciò bisogna stare in guardia da profetizzare qualche
cosa di importante da questi incidenti. Tuttavia si può
fare osservare che un cambiamento di regime nell’Italia
contemporanea non sarebbe cosa nuova: vi sono dei precedenti.
Brano tratto da: Amilcare Cipriani, Il regicidio,
Libreria Sociologica, Buenos Aires, 1901.
Due amici che parlano di football
di Franco Bernini
David Jason, più sobrio, tracanna una limonata e, gustando
il piacere di quel fresco, chiude gli occhi mentre offre il
volto al sole che cuoce. Immagina godendo il gioco che lo aspetta.
Quando riapre le palpebre, vede poco più in là
un trentenne bruno, snello, naso grifagno, occhi accesi, aria
energica, vestito coi colori di moda, vinaccia e noisette, che
scavalca disinvolto la corda tesa tra il pubblico e il buffet
e gli sorride aprendo le braccia mentre viene verso di lui.
– Ciao, David Jason.
– Elias... ciao.
Un abbraccio.
– Sei stato bravo.
– Mi hai visto segnare?
– No, sono arrivato da poco.
Parole innocenti, che si muovono però in una strana,
sospesa tensione.
Elias afferra un panino imbottito. – Posso?
– Credo che sia riservato ai footballers, ma ormai l’hai
preso...
Un morso dato di gusto, un sorriso soddisfatto, come se Elias
fosse orgoglioso del suo gesto da discolo che comunque, nel
grande viavai, nessuno ha notato.
– Quanto avete di pausa?
– Pochi minuti ancora.
– Non ho capito bene qualche aspetto del gioco, puoi chiarirmelo?
– con gli occhi, di colpo seri, Elias indica il campo,
in quel momento deserto.
I due si muovono.
– Vincerete la partita, David Jason?
– Pensavo che avessimo buone possibilità, però
è tutto ancora da dire.
Due amici che parlano di football. Così appaiono all’agente
Fernando Nisticò che, fermo vicino al palo di una porta,
li scruta mentre gli sfilano davanti.
– Adesso possiamo parlare, siamo lontani abbastanza da
tutti.
Sono arrivati undici passi più in là, la distanza
di un rigore
Elias dà le spalle a Nisticò, lo indica con un
piccolo movimento della testa a David Jason.
– Continua a guardarci?
– Chi?
– Quello accanto al palo. È uno sbirro. Ce n’è
un altro fisso all’ingresso. E forse altri ancora.
– No, ora è girato. Nessuno ci guarda.
Elias annuisce, inspira.
– Non abbiamo molto tempo, sono arrivato stanotte da Milano,
– espira in un fiato.
– Eri lì?
Elias chiude gli occhi, per un lungo istante. Li riapre, fissa
David Jason. Racconta.
L’altruismo sostituirà
l’egoismo
di Franco Bernini
Uguaglianza e libertà, questa è l’anarchia
per il ragazzo. Un mondo di fratelli che ha già sperimentato:
il calcio è per lui l’anarchia felice e concreta.
Ognuno corre per il suo piacere, ma collabora con gli altri
per un fine comune. Non contano le differenze di classe ma soltanto
la bravura, ed anche chi è meno capace un posto lo trova.
Regole e sanzioni sono condivise da tutti. Nessuno comanda.
Crede che questo possa funzionare per l’intera società,
che gli uomini abbiano nell’animo lo stesso rispetto per
gli altri che prova lui.
Il lavoro è una gioia e nessuno vorrà privarsene.
L’altruismo sostituirà l’egoismo. Si arriverà
alla libertà per mezzo della libertà.
Questo crede.
– David Jason, spareremo a Venaria.
Il respiro si ferma.
– Cosa?
– Lo uccideremo, noi due. Ho con me le rivoltelle.
Io, uccidere? Uccidere? Questo no, mai, pensa David Jason.
Glielo dico.
– Cosa c’entra Venaria con Milano? –
dice invece.
– È un deputato del Regno, un simbolo.
– Un simbolo? Lui? È un mercenario. Adesso è
di destra, ma prima era di sinistra, e domani chissà...
– Fa parte del governo.
– È soltanto un sottosegretario.
– Al ministero della Guerra, e la guerra la stanno facendo
a noi! È un cocco del re! Che lo ha fatto pure cavaliere!
– Ne abbiamo parlato tante volte... la violenza soltanto
per difesa e...
– Non ti basta quello che è successo?
– Elias...
– Hai paura, farò da solo. Peccato, perché
mi prenderanno, mentre se agissimo in due...
Paura? Sì, ce l’ho.
Quel bambino ridotto ad un grumo di sangue. Quanti ne ammazzeranno
oggi?
– In due, cosa cambia?
– Uno di noi spara, l’altro gli copre la fuga. Li
prendiamo di sorpresa, prima che reagiscano siamo lontani. Basta
che usciamo e andiamo verso la stazione, è il tragitto
che hai fatto per arrivare qui... Te lo ricordi il cavalcavia
che passa sopra i binari?
– Il cavalcavia? Sì.
– Lì vicino c’è una casa sicura, c’è
una carrozza che ci aspetta per portarci fuori dalla città.
– Non so...
– In carrozza da qui a Marsiglia, e poi in nave fino agli
Stati Uniti, dove ci sono molti compagni che… Tra l’altro
tu parli inglese, saresti come un pesce nell’acqua…
Gli Stati Uniti. Ma sparare su un uomo indifeso…
– Non possiamo sfidarlo a duello?
– Un duello?
Elias, in un altro momento, riderebbe.
– Un duello, sì. Armi pari.
– Cosa siamo? Damerini?
– Io, così a sangue freddo. Non me la sento.
– Va bene. Io però lo faccio.
Lo prendono, lo ammazzano di botte. Peggio per lui, io cosa
c’entro?
– Ti aiuto, – si sente dire.
– Davvero, David Jason?
– Sì.
Digli di no, sei ancora in tempo.
– Non mi ero sbagliato su di te.
Diglielo!
– Io però, Elias… ti copro mentre spari.
– No, devi pensare tu a Venaria. Sei un atleta, di te
non sospettano, io avrei problemi ad avvicinarmi.
Ma come? Sei arrivato al buffet e nessuno ti ha detto nulla.
– David Jason, mi ascolti?
– Sì…
– Hai capito? Devi essere tu a colpire.
– Non ho mai sparato.
– È facile. Ti do la pistola carica. Basta premere
il grilletto. Avvicinati il più possibile e mira alla
pancia.
– Ma quando?
– Trovalo tu il momento adatto.
Il ragazzo lo guarda. E prende su di sé colpe non sue,
il dolore degli altri. Se solo potesse fare finta di non sentirlo.
Ma non può.
– Va bene. Però sparerò quando sarà
solo. Non voglio colpire chi non c’entra. Noi non siamo
come loro
– D’accordo. Ora vai, David Jason, i tuoi compagni
di squadra ti stanno cercando. Nasconderò la tua pistola
in un posto sicuro. Alla fine della partita ti dirò dove.
Un bel congegno
di Franco Bernini
Elias ha passato la trentina, la rivoluzione è la sua
donna, lo ha fatto innamorare ma non gli si concede, almeno
non come lui vorrebbe. Ha carisma, lo seguono in molti, ma non
quanti sperava. Gli è mancata un’occasione per
mettersi bene in luce, per affascinare.
E se l’occasione non capita, bisogna crearla.
Lui è certo, da ex studente di fisica, che la rivoluzione
sia non soltanto inarrestabile ma anche alle porte, questione
di mesi, al massimo di anni, non più di un lustro in
ogni caso. Il 1903, non oltre.
Ha studiato a lungo, con pazienza, i fenomeni della vita sociale,
inclusi i problemi economici, politici e morali, le mozioni
e le passioni delle masse. Tutto si riduce a dinamiche limpide,
perfettamente analizzabili.
Meccanica. Cinetica. Null’altro.
Questione di rapporti di forza.
Una leva può sollevare il mondo.
Per questo ha pensato a Venaria. E a David Jason. L’attentato
avrà eco in tutta Europa e nelle Americhe. Sarà
d’esempio.
E lui, Elias, ne coglierà i frutti stando al sicuro in
Svizzera, dove conta di essere tra qualche ora. Da li spargerà
la voce che lui c’era, ha pensato ed eseguito quel gesto
risoluto con la complicità del poeta; dirà che
purtroppo il ragazzo non ce l’ha fatta a fuggire, mentre
lui si è sottratto per puro caso alla cattura.
Comunque vada, ne trarrà fama. Se il deputato morrà,
per ogni ribelle a giustiziarlo sarà stato anche lui.
Se non morrà, avrà comunque il merito di aver
tentato.
Se anche lo dovessero arrestare prima che raggiunga il confine
(ma ci crede poco), non ci sarebbero prove a sufficienza contro
di lui. Rimarrebbe il sospetto, altro motivo di fama. E dal
processo non ricaverebbe che ulteriore notorietà. Ha
ideato un bel congegno.
David Jason, forse, lo prenderanno vivo. Parlerà di lui?
Per come lo conosce, pensa di no. E se anche fosse, il ragazzo
farebbe la figura del traditore. Elias potrebbe smentirlo, in
tribunale. O altrimenti accusarlo di essere un Giuda, dalla
Svizzera. In ogni caso non ne avrebbe danno.
E poi David Jason quasi certamente lo uccideranno, per fermarlo
o per rabbia nei momenti convulsi del dopo. Ad Elias dispiace
per lui, gli dispiace davvero, lo ha in simpatia. Non lo manderebbe
così allo sbaraglio se l’occasione non lo meritasse.
Ma di ragazzi generosi e avventati come il poeta ne verranno
tanti, magari proprio perché attratti da quell’atto
di giustizia che si sta per compiere. Di capi come lui invece
ce ne sono pochi. Sono sacrifici necessari, soprattutto se a
farli sono altri. Proprio un bel congegno. Meccanico. Cinetico.
Brani tratti da: Franco Bernini, La prima volta, Einaudi,
Torino, 2005.
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