I lettori mi permetteranno,
spero, di non avere una opinione particolare sulla figura
del nuovo papa. Certo, personalmente avrei preferito che al
soglio di Pietro non fosse stato eletto il responsabile dell’ex
Santo Uffizio e dal fatto che nella prima dichiarazione pubblica
abbia voluto definirsi “un umile lavoratore nella vigna
del Signore”, o qualcosa di simile, non ho tratto molta
consolazione, perché quella espressione, nonostante
il tono tra il populista e il georgico, trae dai precedenti
biblici un significato abbastanza inquietante, visto che nei
sacri testi la funzione principale di chi in tale vigna lavora
è quella di estirparne gli sterpi ed eliminarne le
erbacce, tanto è vero che Dante la usa nel suo elogio
di san Domenico (Paradiso XII, 86 ss.), per alludere
all’Inquisizione e, specificamente, alla crociata contro
gli Albigesi, che resta uno dei più efferati massacri
noti alla storia.
Anche la scelta del nome mi ha lasciato, in un certo senso,
perplesso.
In fondo, a parte i riferimenti al santo patrono di Europa,
su cui non saprei dire, e quelli alla persona di papa Della
Chiesa, che definì, sì, la guerra una “inutile
strage”, ma in linea generale non diede grandissima
prova di sé (anche se bisogno ammettere che il compito
di risollevare la chiesa dopo i disastri del pontificato di
Pio X era da brividi), ci vuole una ben alta opinione di sé
per definirsi con un nome parlante così impegnativo
e il compito del Vicario di Cristo, ne converrete, dovrebbe
essere quello di benedire gli altri e non se stesso.
Ma queste, in definitiva, sono fisime mie. I cardinali si
scelgono il principale in base alle considerazioni che loro
considerano prioritarie e non si preoccupano certo delle speranze
e delle perplessità dei laici, soprattutto di quelli
sofistici come me.
E visto che, almeno in teoria, siamo in regime di separazione
tra lo stato e la chiesa, e che né dell’una né
dell’altro i nostri lettori si curano più di
tanto, ci si potrebbe persino azzardare a dire, con una forzatura
ottimistica, che sono affari loro.
Monaco
1943. Joseph Ratzinger, a 16 anni, chiamato a prestare servizio
nella contraerea
Un inizio poco incoraggiante
Affari nostri sono, invece, i comportamenti della società
secolare di fronte all’augusta figura. E ammetterete
che, da questo punto di vista, queste prime due settimane
di regno di Benedetto XVI non sono del tutto incoraggianti.
Non alludo tanto alle reazioni dei capi di stato e di governo,
che sono rimaste – mi sembra – nell’ambito
della cortesia istituzionale, né al giubilo ostentato
delle folle devote e ai cori da stadio che hanno accompagnato
le prime uscite del pontefice, anche quando erano dettate
da un’esigenza banale come quella di organizzare il
trasloco delle proprie masserizie private. A questo siamo
abituati, visto che, nella società dello spettacolo
e della omologazione, quella di confondersi nella massa resta,
paradossalmente, una delle poche possibilità lasciate
a chi voglia rendersi in qualche modo visibile e confondersi
in una folla osannante è più facile (e meno
pericoloso) che espugnare la Bastiglia, un’attività
cui le masse si dedicano sempre meno e d’altronde quando
ci provano poi gli si dà ampia ragione di pentirsene.
Penso piuttosto alle reazioni del mondo laico, ai commenti
degli intellettuali che a quell’area si riferiscono,
nonché al lavoro che sulla figura del nuovo papa stanno
facendo gli operatori della informazione e gli strateghi dei
media, che sono poi quelli che alle manifestazioni
di cui sopra danno notorietà e risonanza mondiali.
Perché oggi, se si prescinde dalle metafore canine
impiegate da pochi commentatori spiritosi ma irriverenti,
è in corso una grande attività pubblicistica
di rettifica dell’immagine papale. Il cardinale Ratzinger
era il cardinale Ratzinger e lo si poteva definire senza danno
un arcigno difensore dell’ortodossia, come a dire un
discreto reazionario e un nemico dichiarato della modernità,
come ben si addiceva d’altronde al suo incarico e a
chi glielo aveva conferito. Di Benedetto XVI, chissà
perché, non si può dire niente di simile. Ci
stupirà tutti, assicurano. Mica vero che sia sempre
stato quel reazionario che dicono: al Concilio era tra i più
progressisti e non è colpa sua se, in seguito, gli
studenti contestatori lo hanno fatto incazzare a Tubinga.
E poi è timido, accarezza i bambini, suona il pianoforte,
gli piacciono i gatti, sorride sempre, alla Hitlerjugend lo
hanno iscritto di ufficio e non poteva farci niente, vedrete
che novità ha in serbo, sui rapporti interreligiosi
e sull’ammissione dei divorziati ai sacramenti ha idee
straordinarie, è modesto, lo ha detto lui che a farsi
eleggere non ci pensava neppure e, insomma, che cosa si può
volere di più? E queste sono, per così dire,
voces populi e pettegolezzi giornalistici, ma basta
dare un’occhiata ai saggi contenuti nel quaderno speciale
di Limes dedicato alla “Agenda di papa Ratzinger”,
per trovare più o meno le stesse argomentazioni in
dimensione ostensibilmente scientifica.
Illazioni e aria fritta
Ora, su quanto riserba il futuro, notoriamente, non si può
mai scommettere, ma è abbastanza ovvio che, a parte
le notazioni sulla Hitlerjugend, in sé ineccepibili,
e quelle sulla timidezza, che non contano molto perché
la storia conosce parecchi casi di timidi che, per reazione,
ne hanno fatte di ogni, si tratta di considerazioni, come
dire, senza un fondamento rigoroso. Sono tutte illazioni tratte
su elementi deboli, un misto di speranze personali, elementi
di colore e petizioni di principio. Aria fritta, in sostanza.
Belle parole che non tengono conto né delle tendenze
dimostrate dall’uomo (che è stato prefetto della
sua Congregazione dal 1981 e ha avuto, quindi, quasi un quarto
di secolo per far conoscere le sue idee) né dei motivi
che, in tutta evidenza, ne hanno determinato l’elezione.
Ed è strano, perché se la chiesa, a modo suo,
ha avuto del coraggio e in una situazione difficile (perché,
Wojtyla o non Wojtyla, la situazione del divino nel mondo
moderno è obiettivamente difficile) ha deciso di affidarsi
a una figura ben caratterizzata, affidandole l’ovvio
mandato di tirare avanti senza compromessi sulla sua strada,
la maggior parte dei laici di questa caratterizzazione sembra
non volerne proprio sapere. Meglio, molto meglio, attaccarsi
a ogni costo alla figura del papa buono, del conciliatore,
di quello che farà contenti tutti, che annullerà
nel suo abbraccio ogni futile contrapposizione tra progressisti
e conservatori, che curerà le relazioni pubbliche e
darà agio ai bravi giornalisti di scrivere tanti begli
articoli e di pubblicare tanti bei libri sulla sua umanità
e il suo zelo paterno. In undici giorni, di fatto, di agiografie
del genere in edicola ne sono già apparse quattro o
cinque.
Tutto questo, vi dicevo, non fa presagire niente di buono.
Non tanto per la chiesa, che con i tipi come lui se l’è
sempre cavata benissimo, quanto per un mondo laico cui , a
quanto pare, non dispiacerebbe restare tale, ma preferisce
farlo con la benedizione del papa e, di conseguenza, non perde
occasione per dimostrarsi incerto sui propri valori, nonché
pericolosamente incline a dimenticare che gli sterpi estirpati
dagli umili lavoranti nella vigna del Signore in genere finiscono
in un allegro falò. E speriamo che questa volta sia
solo metaforico.