La storia delle idee
anarchiche non coincide con la storia dell’anarchismo.
Fortunatamente il pensiero non si specchia nel movimento. Questo
fatto, questo pregio vorrei dire, fa si che l’anarchia
non dipenda esclusivamente dal movimento anarchico.
Oggi, contrariamente a quanto accaduto in altre fasi della storia,
la logica del movimento può costituire, in certe sue
forme di chiusura e di autoreferenzialità, addirittura
un limite alla comprensione delle idee anarchiche. Non basta
infatti diffondere delle idee ma è indispensabile farle
comprendere e ciò è paradossalmente più
efficace se si rinuncia alla logica del proselitismo. Vale a
dire se si evita la superiorità della supponenza, la
fede messianica e l’ostentazione esibizionistica della
propria presunta verità. La stessa diversità,
valore irrinunciabile, diventa violenza quando ha come presupposto
la dogmaticità del pensiero e come tale allontana le
sensibilità più sincere e profonde.
Anche la storia dell’anarchismo, così come quella
di altri movimenti storici (marxismo, liberalismo, sindacalismo)
ha vissuto una duplice tensione: da un lato la pulsione verso
la sovrapposizione alla realtà dei movimenti, dall’altro
quella verso l’annullamento della propria identità.
Alla prima specie appartiene sicuramente l’anarchismo
faista e cenetista spagnolo (soprattutto nel suo apogeo rivoluzionario
tra il 1936 e il 1939), alla seconda quello tedesco (movimento
che non è praticamente quasi mai esistito). Tra queste
due tendenze, le sfumature non si contano, ma non sono ora importanti
per il ragionamento critico che sto cercando di sviluppare.
Ciò che è importante trovare, a mio avviso, è
un equilibrio che da un lato fortifichi l’identità
e dall’altro la nutra attraverso la realtà, con
l’apertura alle istanze e alle sfide dei movimenti e delle
sperimentazioni sociali. Ma l’identità mi pare
più proficua in una comunità anarchica piuttosto
che in un movimento anarchico.
Un
sentire non esclusivamente mio
Cerchiamo di spiegarci meglio. Non giudico naturalmente, né
do consigli a chicchessia, esprimo solo un sentire che credo,
ma posso sbagliarmi, non esclusivamente mio.
Ho la convinzione che persista nel movimento anarchico organizzato
una tendenza a riproporsi secondo una logica di partito, una
tendenza figlia legittima di uno schema organizzativo più
prossimo alla struttura del partito (seppure naturalmente non
autoritario), ma che si confronta con la molteplicità
del reale attraverso modalità, sia organizzative che
di logica culturale, che sono sostanzialmente quelle di un anarchismo
che ritengo completamente ormai esautorato nella sua funzione
più profondamente vitale. Spesso assistiamo alla ri-proposizione
di forme culturali e di immaginario ideale che rischiano, magari
inconsapevolmente, di sovrapporre una struttura pre-definita
ad una presunta realtà, autocelebrandosi come avanguardia.
Il gruppo anarchico rischia di diventare talvolta la cellula
del partito anarchico, senza competizione elettorale, senza
iscrizioni, senza gerarchie codificate, ma non per questo completamente
estraneo alle logiche sostanzialmente autoritarie. Nel momento
in cui, in questi casi, si afferma la propria identità,
si codifica una forma elitaria e rischiosa di potere, nel senso
di riproporre il dualismo classico tra teoria e prassi.
Ma ciò che mi pare importante esprimere in questo contesto
storico-geografico è piuttosto la necessità, direi
quasi ineludibile, di affermare un pensiero forte, identitario
ma aperto, dopo la sbornia del pensiero debole tanto ricercato,
dopo la sterile contrapposizione tra universalismo e relativismo
culturale, dopo che abbiamo avuto, anche recentemente, sotto
gli occhi la potenza della celebrazione di un pensiero come
quello religioso che ha mosso e portato, certamente anche con
il potere mediatico, milioni di esseri umani, in ogni latitudine,
a manifestare il bisogno di risposte a problemi essenziali ad
ogni esistenza umana.
Questo pensiero forte che io ritengo irrinunciabile è
il pensiero anarchico, non quello del partito anarchico (che
contiene solo in parte gli elementi di questo pensiero), ma
piuttosto quello che la comunità storica e aperta degli
anarchici contiene. Questo pensiero è la lettura della
storia nel suo evolversi tra autorità e libertà,
è l’insieme delle risposte antiautoritarie che
gli esseri umani hanno dato alla risoluzione dei loro problemi
rifiutando quelle soluzioni autoritarie che altri hanno perorato,
è quell’immaginario sovversivo senza il quale nessun
cambiamento profondo è possibile, è quell’etica
del mutuo appoggio che ha sistematicamente confutato il darvinismo
sociale. Queste idee sono il motore del cambiamento storico
quando si trasformano in movimento storico che rompe gli argini
del pre-stabilito e dell’imposto. Ma esse (le idee) non
possono e non devono risolversi nell’appartenenza al movimento,
hanno bisogno di sperimentarsi continuamente in ogni occasione
di incontro umano, di confrontarsi con la loro approssimativa
attuazione. Il pensiero anarchico è oggi un pensiero
forte proprio perché cerca di dare risposte identitarie
in contesti diversi, perché è metodo di ricerca,
è coerenza tra mezzi e fini. Ma soprattutto perché
è un pensiero che non trascendendo nel religioso, risponde
ai bisogni fondamentali di ogni essere umano: coniugare gli
opposti senza diventarne sintesi, ma accettandoli e sostenendoli
come necessari elementi di vitalità.
Sviluppo
dialogico
Ecco perché tutti i tentativi di portare a sintesi unica
il pensiero anarchico sono miseramente falliti, proprio perché
non vi può essere sintesi ma solo continuo sviluppo dialogico
tra rivoluzione e conservazione, tra relativismo e universalismo,
tra progressione e resistenza, tra autorità e libertà.
Occorre una comune consapevolezza di comunanza di destino (in
quanto esseri umani) che solo un pensiero aperto e dialogico
(come quello anarchico) può contemplare. Le questioni
della vita e della morte sono patrimonio fondante del pensiero
forte.
È necessario concepire pertanto lo sviluppo come sviluppo
umano liberandolo dal riduzionismo economicista, dallo schiavismo
tecnologico, dalla perfezione ideologica. Oggi siamo, per la
prima volta nella storia, di fronte alla possibilità
concreta che la tecnologia, oltre che determinare la ricerca
scientifica, si cimenti con il mutamento della natura biologica
dell’essere umano. L’uomo può uscire dalla
sua specificità biologica e naturale e trasformarsi in
qualche cosa di diverso da se stesso. Il nuovo potere diventa
dominio determinato da logiche ed esigenze extra-umane, prive
di ogni finitezza e temporalità, da ogni specificità.
Il potere della tecnologia sostituisce quello della religione
nel dare certezze future. Ma ambedue, in modo diverso ma speculare,
hanno nella loro strumentalità una logica di dominio.
Sono sempre più convinto che ogni cultura non ha un valore
in sé assoluto, perché ognuna contiene elementi
di disfunzionalità, di malfunzionalità, di tossifunzionalità,
ma piuttosto che la sua valenza stia in quanto si meticcizza
con le altre, concorrendo a delineare quegli elementi portanti
e universali senza i quali è impossibile costruire un
mondo migliore. Insomma questa complessità della cultura
anarchica, che muove dalla convinzione che tutte le culture
sono imperfette in se stesse, proprio a somiglianza dell’essere
umano, rappresenta la sua vera forza, la sua stessa ragione
d’essere e produce la convinzione, per dirla con Edgar
Morin, che non solo ogni parte si deve ritrovare nel tutto (nel
pianeta), ma anche che il tutto si debba ritrovare all’interno
della parte.
Con queste brevi premesse è dunque pensabile che solo
un movimento debole, perché variegato, aperto, contraddittorio
persino, può alimentare un pensiero forte, così
come solo un pensiero di questa portata può fondare una
comunità anarchica e contrapporsi sia al relativismo
che all’assolutismo dilaganti.
Ecco perché credo che il senso dell’anarchismo
oggi sia rintracciabile solo nel suo essere sempre identico
nella sua natura, piuttosto che nel dover essere della storia,
nel tentativo fallimentare di piegare, in modo più o
meno consapevole, la realtà alla sua interpretazione.
Il pensiero anarchico deve uscire dunque dal sogno della salvezza
terrena, fondare la sua forza sulla sua presunta (dagli altri)
debolezza: la sua utopia che già è esistita ed
esiste tra le maglie soffocanti del dominio, in storie e racconti
che si nutrono della rottura con l’immaginario dominante
e si traducono in “deboli” realtà.
Per dirla ancora con Morin, “volere un mondo migliore,
che è la nostra principale aspirazione, non significa
volere il migliore dei mondi. Per contro, rinunciare al migliore
dei mondi non significa rinunciare a un mondo migliore”.
Ciò che conta è volerlo veramente e che la necessaria
consapevolezza della limitatezza e della gradualità non
sconfigga la speranza.
Francesco Codello
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