Alcune
schede tratte dal «Dizionario Biografico degli Anarchici
Italiani»
Lanciotti,
Umberto
Nasce a Forano Sabina (RI) il 1° aprile 1894 da Emidio
e Angela Di Mario, cameriere, autista meccanico. Nel 1897
la famiglia si trasferisce a Sassoferrato. L. frequenta le
scuole tecniche e segue con simpatia la vicenda di Augusto
Masetti. Nel 1913 L. emigra in Francia e, qualche mese più
tardi, raggiunge gli Stati Uniti, dove fa il minatore a Scranton
(Penn.) e si unisce agli anarchici antiorganizzatori, che
pubblicano la «Cronaca sovversiva» di Barre. Chiamato
alle armi nel 1914, rimane in America e viene denunciato per
renitenza alla leva. Negli usa conosce Raffaele Schiavina,
frequenta assiduamente Nicola Recchi e collabora con gli IWW
in attività agitatorie di varia natura.
Operaio a Monessen, in uno stabilimento di chiodi e lamiere,
e contabile in una banca, condanna, senza appello, il conflitto
mondiale – approvando la consegna di Galleani: “Contro
la guerra, contro la pace, per la rivoluzione sociale”
e si dà “molto da fare, insieme a Nicola Recchi”.
Accusato di diserzione, presta la sua opera nelle fabbriche
di automobili di Detroit e partecipa alle agitazioni promosse
per salvare la vita di Carlo Tresca. Nel settembre, 1920 rientra
a Genova. Ricongiuntosi ai genitori, che vivono a Loreto,
lavora alla costruzione del doppio binario della ferrovia
Loreto-Porto Civitanova fino al marzo 1921, quando viene licenziato
per aver aderito a uno sciopero, e poi fa per sette mesi,
a Zara, il magazziniere di un grossista di vino. Nel novembre
1922 affronta, ad Ancona, una banda di squadristi, uscendo
ferito dal conflitto. Temendo di essere arrestato in quanto
disertore, a fine anno si imbarca illegalmente su una nave
diretta in Olanda. Sceso a Cardiff, passa dei giorni difficili
nella città gallese, perché è privo di
risorse, ma un marinaio dell’Andrea Doria gli fornisce
il recapito londinese di un autorevole esponente anarchico:
Emidio Recchioni, che lo aiuta a procurarsi un lavoro. Qualche
settimana dopo, L. prende la parola al comizio di un ex deputato
comunista e ribadisce che “i principi anarchici non
consentono di fare causa comune con i comunisti”. Nella
capitale inglese fa il cameriere fino al 1925, quando impartisce
una severa lezione al proprietario di un circolo, che intendeva
licenziarlo, e si deve nascondere per sfuggire a una probabile
estradizione.
In seguito s’imbarca clandestinamente e, in aprile,
scende a Buenos Aires, dove conosce molti anarchici italiani
e spagnoli. Apprezzato per l’intelligenza, la prontezza
di spirito e la “sorprendente flemma” e temuto
per l’audacia e lo sprezzo del pericolo, frequenta assiduamente,
in questa fase, oltre a ritrovare Recchi, frequenta Aldo Aguzzi
e collabora con il gruppo formato da Miguel Arcángel
Roscigna, Emilio Uriondo, Pedro Boadas Rivas (un attentatore
catalano, “raccomandato” a Roscigna da Durruti)
e dai fratelli Antonio e Vicenzo Moretti, mentre ha rapporti
sporadici con Severino Di Giovanni e i fratelli Paulino e
Alejandro Scarfó. Dal 1928 al 1930, in Argentina si
scatena una stagione di attentati anarchici, dei quali è
ritenuto colpevole il gruppo di Di Giovanni. Il 23 giugno
1930 L. viene arrestato nella trattoria Vesuvio insieme a
Emilio Uriondo e a Juan López Dumpiérrez, e
condannato a due anni di carcere, che dovrà scontare
a Ushuaia, nella Terra del Fuoco.
Il 19 luglio il questore di Ancona chiede il suo inserimento
nel «Bollettino delle ricerche» come: “Anarchico
pericoloso. Colpito mandato cattura tuttora eseguibile per
diserzione”. Il 6 settembre il generale Uriburu instaura
una feroce dittatura in Argentina e il 1° febbraio 1931
Severino Di Giovanni e Paulino Scarfó vengono fucilati,
dopo un processo sommario. Roscigna e Fernando Malvicini riparano
invece in Brasile e in Uruguay, per essere consegnati –
qualche anno dopo – alla polizia argentina, che li assassinerà
brutalmente, gettandone i corpi nel Río de la Plata.
Quanto a L., rimesso in libertà il 13 luglio 1932,
viene nuovamente arrestato a Rosario e torturato selvaggiamente,
insieme a Recchi. Successivamente espulso dall’Argentina
e deportato in Italia, arriva a Napoli il 24 ottobre 1933,
“senza becco di quattrino”. Interrogato l’8
novembre 1933 nella Questura di Ancona, fa i nomi di Aldo
Aguzzi, di Orazio Vadarazco [Horacio Badaraco], direttore
del giornale «Antorcha», e del drammaturgo González
Pacheco e racconta di aver frequentato a Buenos Aires Emilio
Uriondo, Juan López Dumpiérrez e Enrique [Fernando]
Malvicini.
Nega però di aver conosciuto Di Giovanni e di aver
fatto parte di organizzazioni terroristiche. Condannato dal
Tribunale militare di Roma, il 28 dicembre, a un anno di carcere
per diserzione, viene incluso tra i sovversivi attentatori,
e il 14 febbraio 1935 – espiata la reclusione –
è assegnato al confino per cinque anni. Deportato a
Ponza, non si piega ai fascisti e il 20 agosto viene condannato
a tre mesi di arresti per contravvenzione agli obblighi del
confino. Tradotto a Tremiti il 5 luglio 1937, viene punito
quattro volte con il divieto di libera uscita e il dimezzamento
del sussidio, perché si è rifiutato di salutare
romanamente, e il 27 novembre viene incarcerato a Lucera fino
al 25 gennaio 1938. Trasferito a Bernalda il 23 marzo 1939,
dimostra “sempre”, ripetono le autorità
il 31 marzo, “persistente attaccamento alle sue idee
sovversive, e non manca di istigare i suoi simili, incitandoli
a rendersi inosservanti all’obbligo del saluto romano”.
Nei mesi seguenti L. non modifica il suo comportamento e il
3 novembre il prefetto di Foggia riferisce che “non
ha dato prova di ravvedimento ed ha conservato inalterate
le proprie idee anarchiche, frequentando la compagnia degli
elementi più pericolosi”.
Rilasciato il 5 febbraio 1940, L. non riesce a trovare un’occupazione
a Loreto e alla fine dell’anno si sposta a Milano. Nel
capoluogo lombardo viene assunto – come operaio –
in uno “stabilimento ausiliario”, ma il fatto
suscita le proteste della Prefettura meneghina, che il 10
gennaio 1942 ne chiede l’allontanamento dalla fabbrica.
Rimasto a Milano fino al 1945, insieme a Recchi, L. riprende
il suo posto fra gli anarchici dopo la liberazione, sostenendo
generosamente la stampa del movimento e partecipando ai convegni
e ai congressi. Per vivere fa l’assistente edile, come
riferisce la Questura di Ancona al Ministero degli Interni
il 5 ottobre 1956. Nel 1964 si trasferisce a Follonica, dove
frequenta i compagni di fede Renato Palmizzi e Andrea Anelli,
e nel 1966 aderisce ai GIA: “io ero sempre stato vicino
alle posizioni di Galleani e di Sartin [R. Schiavina] e non
ero d’accordo con la FAI”. La morte lo coglie
a Follonica il 9 giugno 1974. (F. Bucci – G. Ciao Pointer
– M. Lenzerini).
Fonti: ACS, CPC, ad nomen; AB, Testimonianze
di U. Lanciotti, 4 mag. 1970 e 10 ott. 1973; F. [Bucci],
Umberto Lanciotti, «UN», 22 giu. 1974.
Bibliografia: O. Bayer, Severino di Giovanni, l’idealista
della violenza, Pistoia 1973; M.B. Montani, L’attività
dell’anarchico Aldo Aguzzi durante l’esilio in
Argentina (1923–1936), Tesi di laurea, Università
di Pisa, aa. 1976-1977; D. Abad de Santillán, Memorias,
1897–1936, Barcelona 1977; Dal Pont 1, ad indicem;
ACPC, ad nomen; O. Bayer, Gli anarchici espropriatori
e altri saggi sulla storia dell’anarchismo in Argentina,
Cecina 1996, pp. 26, 35, 44, 47, 57; C. Bini, Baires scopre
l’amore di un anarchico italiano, «La Nazione»,
1° ago. 1999.
Favignana,
15 dicembre 1926 - Antonio Malara, primo seduto da destra,
assieme a un gruppo di confinati
Malara,
Antonio
Nasce a Reggio Calabria il 2 luglio 1898 da Francesco e Grazia
Calveri, ferroviere. Comunemente conosciuto con il nome di
“Nino”, è un attivo propagandista tra i
ferrovieri negli anni del primo dopoguerra, e soprattutto
nel Biennio rosso ed è uno dei principali organizzatori
in Calabria dello sciopero nazionale di categoria svoltosi
dal 21 al 29 gennaio del 1920. Per la sua responsabilità
negli scioperi degli anni 1921-22 viene licenziato subito
dopo la presa del potere del fascismo.
Nel 1924 insieme a Bruno Misefari e altri compagni continua
l’attività politica fondando il foglio «L’Amico
del popolo». Nel 1925 si trasferisce a Cosenza, dove
si impiega come operaio avventizio nelle Ferrovie calabro-lucane.
Nel capoluogo del cosentino si mantiene in rapporto anche
con diversi militanti comunisti e il 20 settembre venne denunciato
dalla Questura e arrestato per “complotto contro i poteri
dello stato” insieme al noto Fausto Gullo e ad altri
comunisti. Rimesso in libertà per insufficienza di
indizi, nel 1925 con foglio di via obbligatorio viene rimpatriato
a Reggio Calabria. In seguito ritorna di nuovo a Cosenza e
riesce a trovare un’occupazione come tornitore nello
stabilimento Industrie Cosentine.
Il ritorno di M. a Cosenza rinvigorisce l’incisività
sociale del locale gruppo anarchico, il cui nucleo più
forte si colloca in contrada Surdo, nel comune di Rende, periferia
nord della città, dove operano altri militanti dell’anarchismo
calabrese come Vincenzo e Sandro Turco, che ogni mattina al
mercato di Cosenza, con la vendita di verdura e frutta incartata
con giornali “sovversivi”, permettono la diffusione
di notizie e di informazioni antifasciste.
M. continua intanto ad avere rapporti con gli ambienti sindacali
e soprattutto col sindacato ferrovieri, insieme a un’altra
figura che costituisce un importante punto di riferimento
per la categoria: Andrea Croccia, che, dopo i primi approcci
con il socialismo, aderisce alla fine del 1923 al gruppo anarchico
di Cosenza.
La presenza di alcuni militanti nei paesi della pre-Sila e
in quelli albanesi come San Demetrio Corone e nella zona del
castrovillarese garantiscono al gruppo anarchico un radicamento
sul territorio che costituisce un punto di riferimento importante
anche per alcuni militanti di altre formazioni politiche della
sinistra. Nel 1926 M. viene arrestato e condannato a cinque
anni di confino.
Rimesso in libertà nel 1932, ritorna a Cosenza e riprende
i contatti con i vecchi compagni e in particolare con Croccia,
che, pur avendo aderito al PCDI, continua a professare idee
libertarie. Negli anni successivi M. si distingue per un’opera
di reclutamento di volontari antifascisti che partono dalla
Calabria per andare a combattere in Spagna. In occasione della
visita di Mussolini a Cosenza il 27 marzo 1939 M. viene nuovamente
arrestato per motivi cautelari e successivamente rilasciato.
Scoppiata la guerra cura l’organizzazione con Croccia
di un gruppo di propaganda antifascista che agisce sui treni
della linea Paola-Cosenza e Cosenza-Sibari-Taranto.
Contemporaneamente stringe accordi con esponenti delle altre
forze politiche antifasciste e nell’ottobre del 1942
è tra i promotori a Cosenza della nascita di un organismo
unitario antifascista, il Fronte unico per la libertà.
Gli anarchici svolgono una parte importante nel fronte, a
cui aderiscono con il nome di gruppo “Unità proletaria”.
Negli anni successivi M. è una delle figure centrali
della ripresa del movimento anarchico nel meridione. Dal 15
al 19 settembre 1945 partecipa a Carrara al Congresso di fondazione
della fai come rappresentante del gruppo libertario di Cinquefrondi
insieme a Giacomo Bottino e Luigi Sofrà. Negli anni
successivi è presente ai Congressi e Convegni nazionali
della fai di Bologna (16-20 mar. 1947), Rimini (3 ago. 1947),
Canosa (22-24 feb. 1948) sempre come rappresentante della
Federazione calabrese. In seguito, trasferitosi a Roma, svolge
attività nel sindacato nazionale ferrovieri fino alla
fine degli anni Cinquanta, per poi tornare a Cosenza.
Nel 1965 – nello scontro tra “organizzatori”
e “antiorganizzatori” all’interno della
fai, con la conseguente nascita dei gia per opera dell’ala
“antiorganizzatrice” – M., che ha sempre
manifestato la propria adesione alla concezione malatestiana
dell’anarchismo federalista e l’impegno nel mondo
del lavoro, decide di mantenere l’adesione alla fai.
Nel 1968 M. riprende la sua attività militando nel
gruppo “Bakunin” di Cosenza – uno dei gruppi
anarchici calabresi più vivaci, composto non solo da
studenti ma anche da appartenenti alle fasce più deboli
del proletariato cittadino –, che è attivo nel
movimento studentesco e nelle lotte sociali. M. insieme agli
altri compagni del “Bakunin” resistono all’ondata
repressiva seguita alla strage di piazza Fontana e decidono
di modificare il nome del circolo in gruppo “Errico
Malatesta”; nel 1973 M. e il gruppo “Malatesta”
insieme a tante altre realtà anarchiche calabresi proliferate
dopo i fatti di Reggio Calabria del 1970, danno vita all’Organizzazione
anarchica calabrese, composta prevalentemente da gruppi e
individualità del cosentino e del reggino che per tutta
la prima metà degli anni Settanta si fa portatrice
di una campagna di informazione contro la strategia della
tensione e di diffusione delle idee libertarie. M. muore a
Roma il 17 marzo 1975. (D. Liguori)
Fonti: ACS, CPC, ad nomen.
Bibliografia: Scritti di M.: Antifascismo anarchico 1919-1945,
A quelli che rimasero, Roma 1995. Scritti su M.:
FAI Congressi; L. Candela, Breve storia del movimento
anarchico in Calabria dal 1944 al 1953, Ragusa 1987;
F. Cuzzola, Cinque anarchici del sud. Una storia negata,
Reggio Calabria 2001.
Michele
Angiolillo
Maraviglia,
Osvaldo
Nasce a Caldarola (MC) il 7 giugno 1894 da Teofilo e Eusebia
Ravaglioli, operaio. Emigra negli USA a 17 anni e raggiunge
i due fratelli maggiori a Newark (New Jersey), dove trova
lavoro nell’industria dell’abbigliamento maschile;
partecipa alle lotte della categoria di quegli anni (in cui
nacque la locale associazione sindacale Amalgamated clothing
workers union, Locale 24).
Partito dall’Italia con idee socialiste, aderisce ben
presto, con entusiasmo e sete di giustizia, all’idea
anarchica; diventa poi diffusore di «Cronaca sovversiva»
e di «Era nuova». Durante la Prima Guerra mondiale,
nonostante le persecuzioni, è un attivo propagandista
antimilitarista e rivoluzionario. Nel 1916 la sua corrispondenza
con la famiglia d’origine inizia ad essere controllata
dalla censura militare, perché vi si riscontrano brani
di spiccato tenore sovversivo e antimilitarista.
Dopo la guerra è tra i primi ad adoperarsi per far
risorgere la stampa anarchica dopo il lungo periodo di silenzio.
È tra i promotori de «L’Adunata dei refrattari»,
che inizia le sue pubblicazioni nell’aprile del 1922,
e da quel momento tutta la sua vita si intreccerà con
quella del giornale. M. ne diventa amministratore e per lunghi
periodi è anche redattore, correttore, cura corrispondenze,
si occupa di qualsiasi questione del giornale.
La sua preparazione scolastica è limitata agli studi
elementari, ma è con le sue capacità, la sua
intelligenza, la sua energia che ben presto riesce a disbrigare
qualsiasi funzione. La sua giornata inizia alle cinque di
mattina e termina alle dieci di sera, dividendosi in tre occupazioni:
la famiglia, la fabbrica e il giornale. Non mancano dei periodi
in cui quest’ultimo occupa completamente il suo tempo.
Probabilmente tra i fattori di longevità de «L’Adunata
dei refrattari», il suo sopravvivere per lunghi anni
a insidie e crisi, bisogna contare anche l’opera svolta
da M. Con la cura del giornale, M. inizia a tessere un’immensa
rete di relazioni con i compagni americani e di tutto il mondo.
I suoi contatti e la sua attività sono noti e apprezzati
ovunque; egli manda e riceve notizie sulla vita del movimento,
ma accompagna sempre tutto con parole fraterne di sostegno
ed aiuto. Si occupa anche di coordinare la solidarietà
economica nei confronti delle vittime della repressione: è
M. che raccoglie fondi e provvede a inviare somme. Presso
il cpc sono dettagliatamente documentate le somme e gli assegni
che M., definito “zio d’America”, inviava
dagli Stati Uniti (ma talvolta veniva utilizzato anche il
nome di sua moglie, Maria Caruso, compagna anche d’ideali).
Destinatari tra gli altri: E. Malatesta prima, poi la sua
compagna E. Melli, C. Berneri, G. De Luisi, L. Tollini in
Mastrodicasa, A. Franzini, G. Cola (vedova Stagnetti), F.
De Rubeis, F. Ippoliti, C. Frigerio, V. Capuana. Nel periodo
fascista la solidarietà non si limita ai versamenti
ai compagni e alle famiglie bisognose, ma vengono sostenute
anche le attività antifasciste e cospirative (somme
inviate a M. Schirru, ecc.) e ciò attira particolare
attenzione da parte degli apparati di polizia italiani operanti
negli Stati Uniti. M. è attivo propagandista e anche
attento polemista nei confronti di quegli esponenti antifascisti
che talvolta esprimono giudizi semplicistici sul movimento
anarchico.
Durante la rivoluzione spagnola, è promotore di iniziative
a sostegno dei combattenti. Tra il 1936 e il 1939 si reca
in Francia per una visita ai compagni là operanti.
Alla caduta del fascismo riprende le relazioni con i compagni
italiani, cui fornisce consigli, materiale di propaganda e
sostegni finanziari. Non manca, nella sua attività
di collettore e distributore di somme, di ricevere insinuazioni
e critiche.
Nel 1954, a causa di una grave malattia al cuore, lascia Newark
per trasferirsi a San Francisco, abbandona quindi l’amministrazione
del giornale, pur rimanendone collaboratore e consigliere.
Anche le circostanze della morte testimoniano il suo impegno
politico. Il 22 ottobre 1966 si tiene a San Francisco una
manifestazione organizzata da un gruppuscolo razzista e nazifascista:
alcune migliaia di persone intervengono per contrastare l’iniziativa,
scoppiano tafferugli e si registrano scontri con la polizia.
Nonostante la malattia, M., che è un assiduo partecipante
di iniziative antifasciste e antirazziste, si reca alla manifestazione,
ma è colpito da malore e muore. (F. Sora)
Fonti: ACS, CPC, ad nomen; [Necrologio], «ADR»,
29 ott. e 12 nov. 1966; Quelli che ci lasciano, «UN»,
5 nov. 1966, [Necrologio], «L’Internazionale»,
1 dic.1966.
Bibliografia: Berneri 1 e 2, ad indicem; Malatesta,
ad indicem.
Errico
Malatesta
Melacci,
Bernardo
Nasce a Foiano della Chiana (AR) il 19 gennaio 1893 da Ferruccio
e Stella Tanganelli. In famiglia si coltivano simpatie per
gli ideali socialisti. Primo di quattro fratelli, frequenta
le scuole elementari e quindi inizia a lavorare con il padre
come meccanico in un’officina.
A 17 anni, con altri suoi compaesani, abbandona il paese per
recarsi a lavorare come meccanico all’Ansaldo di Genova.
Qui, a contatto con il proletariato industriale e con la propaganda
sovversiva, affina la sua preparazione rivoluzionaria, partecipando
a diverse agitazioni.
Richiamato in marina (“nella compagnia del capitano
Giuseppe Giulietti, quello che riportò dall’esilio
l’anarchico Malatesta”), passa gli anni della
guerra imbarcato su unità dislocate nei porti libici.
In questo arco di tempo M. matura le sue idee anarchiche dopo
che ha avuto modo di conoscere personalmente lo stesso Malatesta
nel corso di un viaggio in nave. Tornato dalla guerra trova,
come tutti i reduci, disoccupazione fame e miseria. Il gruppo
anarchico foianese, ufficialmente costituito nel dopoguerra,
ha una decina di aderenti. Una delle principali attività
di propaganda consiste nella diffusione di «Umanità
nova». Ma già dal 1914 a Foiano si legge «Il
Libertario».
Fra gli altri esponenti di spicco del gruppo: Sante Scapecchi
(“Ficocco”), Luigi Giaccherini (“Baiocco”),
Carlo Scapecchi, Guido Marcelli (“Buco”), Vittorio
Ugolini (“Dazio”), Lanciotto Gailli, Piero Senesi
e Giulio Bigozzi. Molti di loro, coetanei, hanno vissuto insieme
l’esperienza del servizio militare in marina.
Prima della fondazione del PCDI –ricordano i compagni
– a Foiano esistevano il gruppo anarchico, e il psi.
All’indomani di una riuscita manifestazione e corteo
organizzati insieme ai socialisti in occasione del 1°
maggio 1920 – oratori il deputato Ferruccio Bernardini
e M. – inaugura il suo “nero vessillo” il
Gruppo anarchico “Pietro Gori”. Ma già
qualche mese prima il gruppo, in fase di costituzione, aveva
promosso con successo uno spettacolo teatrale a sfondo antimilitarista
e di beneficenza a favore dei bambini austriaci orfani di
guerra. Agli inizi dell’anno successivo si organizza
ancora una serata pro-vittime politiche al teatro del paese.
“Il gruppo anarchico non aveva una sede e faceva le
riunioni in casa di M.; non vi era un segretario, ma siccome
era stato Bernardo a portare l’ideale anarchico noi
lo consideravamo il responsabile […]. Ricordo che in
quel periodo che va dal 1918 al 1921 vi furono delle grosse
battaglie sindacali e politiche in Foiano e nella vallata
e la spinta promotrice ed organizzativa veniva sempre dagli
anarchici [...] Per i contatti fra gruppi anarchici posso
dire che noi eravamo in contatto con tutte le zone limitrofe:
Lucignano, Monte Sansavino e con quelli del Valdarno (Sassi
Attilio); [Alfredo] Melani, [Ruggero] Turchini, che erano
operai del Fabbricone, ad Arezzo; a San Giovanni c’era
l’Unione Sindacale che era diretta dagli anarchici.
Ricordo che ci arrivava anche il giornale anarchico ed ogni
tanto noi gli si mandava qualche cosa (denari)”.
Gli anarchici della Val di Chiana contribuiscono ad arginare
le aggressioni fasciste. Il 12 aprile 1921, a bordo di due
camion giungono a Foiano squadre fasciste aretine, del Valdarno
e di Firenze equipaggiate di elmetti militari e moschetti,
trovano il paese deserto e distruggono le sedi del psi, della
cdl, della cooperativa di consumo e della Lega colonica, senza
che i carabinieri presenti intervengano. La domenica seguente,
il 17, una ventina di squadristi tornano a Foiano e quando
sono sulla via del ritorno verso Arezzo, a due chilometri
dal paese, in contrada Renzino, vengono “assaliti da
una turba di contadini, che erano in agguato dietro le siepi
armati di fucili, pistole, scuri e forconi”. Caddero
uccisi tre fascisti, “sui cui corpi gli aggressori,
fra i quali una donna, si accanirono facendone scempio.
Altri furono gravemente feriti [...] Avvertiti telefonicamente
dai superstiti accorsero, su automobili e camion, fascisti
da Siena, Perugia, Città di Castello e Firenze, questi
altresì con elmetti e armati di moschetto e di una
mitragliatrice. L’azione vendicativa fu oltremodo violenta,
vennero incendiati fienili e case coloniche e furono uccisi
quattro comunisti”. Tra le vittime di Foiano c’è
anche un giovane calzolaio anarchico di Arezzo, Gino Gherardi.
È l’ultimo ucciso della strage. Alla spedizione
punitiva segue l’azione delle autorità. M. viene
arrestato a Genova nel giugno 1921. Tradotto “in gran
segreto” ad Arezzo trova ad attenderlo in questo scalo
ferroviario quaranta fascisti. Qualcuno tenta di accoltellarlo
ma ferisce per errore un altro detenuto. Istigatore della
mancata azione vendicatrice è un superstite della spedizione
del 17 aprile desideroso di saldare i conti rimasti in sospeso.
È da questo momento che si cercherà di cucire
addosso all’anarchico foianese l’immagine mostruosa
dell’assassino truculento. Perciò si arriva a
produrre, quale prova di colpevolezza, persino una fotografia
che lo ritrae mentre brandisce uno spadino nel corso delle
prove per una vecchia recita di teatro amatoriale.
M., interrogato, ammette di praticare spesso la caccia per
motivi di sussistenza, pur non essendo munito di regolare
porto d’armi, poi inizia il suo racconto partendo dalla
giornata del 12, ricordando l’umiliazione patita per
le violenze dei fascisti ai suoi familiari. Conferma le sue
idee anarchiche ma nega di aver preso parte all’imboscata
del 17.
Messo in difficoltà dalla mole enorme delle testimonianze,
si trova costretto ad alcune ammissioni; però sostiene
di non aver distribuito nessun’arma come si dice, di
non conoscere i suoi accusatori. Respinge infine con veemenza
l’accusa di aver rubato il portafoglio ai fascisti.
Racconta della sua fuga, dei primi pernottamenti nelle capanne
della Val di Chiana, del rifugio a Genova.
A quella che l’agiografia fascista chiamerà “l’imboscata
comunista” hanno partecipato anche gli anarchici foianesi.
I capi d’accusa per i 35 imputati si confermano gravissimi.
In 33 devono rispondere, in correità fra loro, dei
tre omicidi volontari premeditati e di tredici mancati omicidi.
Inoltre su M. gravano le imputazioni di furto qualificato
ai danni dei fascisti a cui sarebbero stati sottratti rivoltelle
e valori. Ancora il M. deve rispondere, in concorso con altri,
dell’abbattimento dei tre pali della luce e del tentativo
di interrompere le comunicazioni telefoniche.
A questi si aggiungono tutti i reati connessi al porto abusivo
e alla detenzione di armi da fuoco. Intanto si imbastisce
il processo che si svolge nel 1924, dopo tre anni di carcere
preventivo, alla Corte d’assise di Arezzo. Il primo
imputato a essere interrogato è M. Ammessa la sua fede
politica, oltre che di essere pregiudicato, inizia provocatoriamente
riproponendo il medesimo schema di racconto degli interrogatori,
ripercorre le angherie subite dalla mamma e dalla sorella
nella duplice irruzione in casa perpetrata dai fascisti visibilmente
ubriachi e minacciosi, dei furti subiti.
Per quanto riguarda l’imboscata del 17, M. rimane fermo
ancora sulla sua versione e rivendica il suo diritto a difendersi
scatenando un putiferio. Il Tribunale commina oltre tre secoli
di carcere. M. ha la massima pena di anni 30 che sconterà
fino al 1935 passando da Arezzo alle carceri di Pesaro; e
poi ai penitenziari di Imperia, Portolongone, Parma e Pianosa.
Vive il suo stato di detenzione con moltissime limitazioni,
i contatti con l’esterno gli sono proibiti, la corrispondenza
con i familiari è censurata in maniera sistematica
e consentita solo dietro autorizzazioni preventive. Il fratello
Eugenio dall’America e le strutture di soccorso del
movimento anarchico sopperiscono come possono alle necessità
del detenuto, con Temistocle Monticelli da Roma, responsabile
del Comitato di difesa libertaria. M. – e sono passate
solo due settimane dalla fine del processo – scrive
una prima lettera alla mamma e alla sorella mentre è
appena giunto al carcere di Pesaro nel giorno di Natale. Lo
stato d’animo di una persona appena condannata a trent’anni
si può facilmente immaginare, dallo scritto però
emergono anche elementi che contrastano in modo aperto con
lo stereotipo che gli è stato cucito addosso. Il suo
animo è gentile e sensibile, le parole che scrive alla
famiglia rivelano tormento e sofferenza interiori.
Perfino i toni lirici usati in certi passaggi sono una conferma
della sua grande capacità di comunicare e, nonostante
tutto, anche della voglia di vivere. Poi lo scritto volge
su quegli ultimi giorni angosciosi trascorsi fra la cella
delle prigioni aretine e la gabbia degli imputati in Corte
d’Assise.
M. ha la convinzione di aver agito bene sul piano della sua
morale anarchica. Ha rifiutato qualsiasi compromesso ed ora
si appresta a pagare le conseguenze del suo gesto. Qualche
tempo più tardi, meno in vena di divagazioni poetiche,
invierà una più circostanziata richiesta (un
po’ di cibo e di soldi) a un compagno di Arezzo (forse
Alfredo Melani). Dimesso dal carcere in seguito ad amnistia
ritorna alla sua casa, ma solo per tre giorni, in quanto i
gerarchi locali non possono tollerare la sua presenza nonostante
le autorità di polizia non abbiano niente da obiettare.
Così gli vengono inflitti tre anni di confino. Inviato
alle Tremiti nell’anno 1937 si dedica alla propaganda
delle idee anarchiche fra i numerosi giovani confinati facendosi
iniziatore, con Stefano Vatteroni e Alfonso Failla, di una
rivolta contro l’imposizione del saluto romano. M.,
nonostante gli anni di galera, è lo stesso ribelle
dei primi anni, il primo a scagliarsi contro le guardie che
maltrattano i confinati. Viene arrestato insieme ad altri
cento e imputato di essere stato il promotore della protesta.
L’ultimo periodo di carcerazione dà il colpo
di grazia alla sua salute già minata dai lunghi anni
di reclusione. Condannato ad altri cinque anni, nel 1938 viene
ricoverato in manicomio. La guerra lo sorprende ancora in
carcere. Le privazioni e l’eccezionale regime carcerario
lo conducono dopo un periodo passato in ospedale, alla tomba.
Il 7 dicembre 1943 muore a Nocera Inferiore. I compagni sapranno
molto tardi della sua fine.
E solo cinque anni dopo a Foiano della Chiana, presente Pier
Carlo Masini, potranno ricordare M. “come uno dei migliori
militanti perduti”. Carolina Melacci Burri in una sua
testimonianza – nel ricordare le vicissitudini patite
dal fratello, e la sua figura gentile e delicata di compositore
di poesie – ha avanzato seri dubbi sulle circostanze
della sua morte: “condannarono Bernardo per le sue idee
anarchiche e Bernardo è morto con l’ideale anarchico
[...].
Quando venne da Pesaro per il processo subì il primo
attentato nel tratto che va dalla stazione al carcere di Arezzo
[…]. Altro attentato gli fu fatto nel carcere di Arezzo,
durante il colloquio che io avevo con Bernardo: nella stanza
dei colloqui c’erano i finestrini e gli spararono un
colpo di rivoltella verso la finestrina, proprio dove si parlava
noi. Un altro attentato glielo fecero a Terontola, poi non
so se avranno provato ancora; so solo che Bernardo non si
sa come sia morto [...] Quando le sue spoglie furono riportate
al paese, una grande manifestazione popolare gli testimoniò
tutta la riconoscenza della cittadinanza”. (G. Sacchetti)
Fonti: ACS, CPC, Melacci Eugenio; ivi, Melacci Carolina; ivi,
PS, Conf. pol., busta n.13; ivi, MI, PS, 1921, b. 92; ASAR,
CA, Sentenze 1916-1936, nn. 15-16; ivi, CA 1923, buste nn.
147 e 148, Processo c/ Melacci Bernardo e altri; E. Raspanti
(a c. di), Intervista a Carolina Melacci, Foiano
della Chiana 13 luglio 1994, inedita; Archivio Storico fotografico
del Comune di Foiano della Chiana, Furio Del Furia, 1921;
Archivio Comune Foiano della Chiana, VII, 1932; Archivio ANPI,
sezione “L. Nencetti”, Foiano della Chiana; [P.C.
Masini], Ricordo di Bernardo Melacci, «UN»,
23 ott. 1949.
Bibliografia: «La Falce», Arezzo, 8 mag. 1920;
«UN», Milano, 23 giu. 1920; «La Vita del
Popolo», Arezzo, 23 apr. 1921; «La Nazione»
19 e 20 apr. 1921; «Il Nuovo giornale», ott. 1924,
passim; «Giovinezza», Arezzo, 18 ott.
1924, Profili psicosomatici. Presso il gabbione degli
imputati di Renzino; «La Nazione», nov. 1924,
passim; «La Nazione», 12 dic. 1924; PNF,
Federazione dei Fasci di Combattimento di Arezzo, I martiri
del Fascismo aretino, Arezzo 1931; U. Fedeli, Archivio
del dolore, «UN», 8 mar. 1959; Id., Nella
clandestinità, «AdR», New York, nn.
dal 22 lug. al 19 ago. 1961; A. Failla, Ricordi di confino,
«Almanacco socialista 1962», Milano 1962; R. Cantagalli,
Storia del fascismo fiorentino 1919/1925, Firenze 1972; F.
Nibbi (a c. di), Antifascisti raccontano come nacque il
fascismo ad Arezzo, Arezzo 1974; L. Tomassini, Foiano
della Chiana. Un paese toscano fra età giolittiana
e fascismo, in Foiano 1912/1932. Contadini, vita
di paese, lotte sociali e politiche in un centro della Valdichiana
dalle foto di Furio Del Furia, Firenze 1979; I. Camerini,
G. Gabrielli, Il PCI Cortonese (1921-1946), Cortona
1982; Dal Pont 1, ad indicem; E. Raspanti, E. Gradassi,
“Una la pensa il gatto e una il topo”. Galliano
Gervasi da Renzino al Parlamento, Cortona 1990; G. Verni
(a c. di), Foiano e dintorni tra memoria e storia,
Foiano della Chiana 1991, passim; G. Sacchetti, Presenze
anarchiche nell’Aretino dal XIX al XX secolo, Pescara
1999; Id., L’imboscata. Foiano della Chiana, 1921:
un episodio di guerriglia sociale, Cortona 2000.
Luigi Bertoni
Augusto Castrucci
Minguzzi,
Maria Luisa
Nasce il 21 giugno 1852 a Ravenna da Michele e Chiara Raddi,
sarta, soprannome “Gigia”. T. Monticelli la descrive
come “donna di splendida bellezza, alta, robusta, formosa,
dal temperamento franco e aperto, dalla parola pronta e schietta,
[che] esercitava un fascino su tutti coloro che l’avvicinavano”.
Moglie e compagna inseparabile di Francesco Pezzi, ha un ruolo
essenziale nella nascita del movimento femminile in Italia
e gran parte in quella che la polizia considera “l’attività
dei coniugi Pezzi”; non per nulla i più importanti
appuntamenti degli internazionalisti a Firenze si svolgono
“nelle stanze della Gigia”.
Ed è merito della “sora Gigia” se l’appartamento
dei Pezzi non è solo il “Vaticano” dell’élite
anarchica, ma la casa, il rifugio, e spesso anche la sede
per i lavoratori e le lavoratrici del popolare quartiere fiorentino
di San Frediano, che all’epoca ospita la più
alta concentrazione degli artigiani fiorentini e la gran parte
delle quasi due mila operaie della manifattura dei tabacchi.
In questo ambiente già nel 1872 sorge la prima sezione
femminile dell’Internazionale con un centinaio di aderenti
molte delle quali saranno da lì a due anni tra le promotrici
del primo grande sciopero delle sigaraie.
M. appena stabilitasi a Firenze prende contatto con la sezione:
il 16 ottobre 1876 «La Plebe” di Milano ospita
un manifesto, stilato appunto da M. insieme ad Assunta Pedoni
e ad Amalia Migliorini, che è considerato l’inizio
del movimento femminile in Italia. In dicembre M. si trasferisce
a Napoli con il suo compagno e, malgrado il coinvolgimento
di questi nell’affare Schettini, partecipa attivamente
all’organizzazione del moto del Matese. Guillame ravvisa
in lei la dama che accompagna Cafiero e gli altri quando a
San Lupo si spacciano per signori inglesi; notizia comunque
tutt’altro che certa. Certo è, invece, il ritorno
di M. a Firenze, dopo qualche mese trascorso a Lugano, all’indomani
dell’amnistia del 19 gennaio 1878.
In febbraio, appena rientrata, organizza, con Migliorini,
Pedoni, la sarta Ildebranda Dell’Innocenti, (moglie
di G. Gomez), Santina Papini, (moglie di Arturo Feroci noto
fondatore di gruppi e comitati), l’infaticabile Teresa
Fabbrini (moglie di Olimpio Ballerini), le sigaraie Annunziata
e Serafina Frittelli, Caterina Serafini e Annunziata Gufoni
(animatrici, quest’ultime del grande sciopero del 1885)
e un’altra quarantina di compagne, il Circolo di propaganda
socialista tra operaie.
Il Circolo sostituisce in pratica la sezione femminile dell’ail
disciolta dal governo a seguito del Matese e ha sede nella
casa di M., che è al momento anche quella dei coniugi
Gomez. Il 1° ottobre anche M. viene arrestata nella retata
che colpisce tutti i maggiori esponenti dell’Internazionale
convenuti a Firenze. In carcere preventivo rimane, come gli
altri, per quindici mesi cercando di stare vicina ad A. Kuliscioff,
spaesata e colpita dalla pleurite. Quando finalmente gli imputati
vengono assolti il 7 gennaio 1880, la situazione dell’Internazionale
in Italia è tutt’altro che semplice: alla “svolta”
di Costa segue la malattia di Cafiero e l’esilio di
Malatesta.
M. e Francesco contribuiscono non poco a che il movimento
fiorentino fronteggi meglio di altri quel momento, ma è
il ritorno di Malatesta a Firenze che ne risolleva le sorti.
Dall’autunno del 1883 M. e Francesco sono tra i più
vicini all’amico napoletano sostenendone tutte le iniziative;
nell’autunno del 1884 lo seguono a Napoli per soccorrere
la popolazione colpita dal colera e a fine anno sono con lui
nella fuga oltreoceano, in Argentina. M. rientra con Francesco
a Firenze nel 1890. Nella città toscana il movimento
anarchico ha ripreso nuovo vigore a partire dal 1887 dopo
che l’amnistia ha permesso alla fine del 1884 ai molti
espatriati di tornare.
Nel gennaio 1891 M., insieme al giovane meccanico Guerrando
Barsanti, rappresenta appunto i numerosi gruppi di espatriati
al Congresso di Capolago, dove si costituisce il psar. Appena
rientrata, si impegna per organizzare le manifestazioni del
1° maggio che devono dare risonanza e operatività
al nuovo “partito”. Quelle manifestazioni vengono
però duramente represse ovunque e in particolare a
Roma e Firenze; M. e Santina Papini se la cavano con una condanna
a quindici giorni di reclusione ma altri hanno pene pesanti.
All’indomani di quel 1° maggio 1891 M., assieme
a Francesco e ad A. Feroci, svolge una notevole attività
a sostegno dei condannati non solo a Firenze ma in tutta Italia,
a cominciare da A. Cipriani e G. Palla.
In quel clima di frustrazione e rabbia per le continue repressioni
che impediscono una qualsiasi attività organizzativa
e di propaganda, le notizie che arrivano dalla Francia sulle
violente azioni degli individualisti, il cosiddetto ravacholismo,
vengono accolte con diffusa simpatia. Nella primavera del
1892, con una lunga lettera da Londra, Malatesta, avvertendo
che “delle altre cose” scriverà a Pezzi,
anticipa a M. i motivi della sua netta opposizione al “ravacholismo”
e il proposito di combatterlo pubblicamente: “Voi”,
scrive alla “carissima Gigia” il 29 aprile, “saprete
interpretare per il loro verso queste idee buttate giù
così confusamente ed in fretta. Io del resto le svilupperò
completamente in un lavoretto che darò alle stampe
al più presto”. Intanto, con il consueto garbo,
la invita a far filtrare quelle sue idee anche in Italia tra
i compagni più assennati.
Due anni dopo M. e Francesco vengono coinvolti proprio in
un fallito attentato, quello contro Crispi di P. Lega che,
come tanti altri, era stato ospitato a casa loro. Arrestati
il 3 luglio 1894 vengono prosciolti dal Tribunale di Roma
solo nell’agosto dell’anno dopo e solo per essere
inviati al domicilio coatto. M. è tradotta a Orbetello,
zona altamente paludosa, dove rimane per un anno.
Questo soggiorno risulterà fatale per la sua salute,
le cui condizioni saranno aggravate da una progressiva cecità.
Tornata a Firenze, dedica il suo ultimo sostanziale impegno,
insieme a Francesco, al cpvp di Scarlatti dal 1904 al 1906.
Come ricorda Monticelli “Dopo il coatto Luisa non ha
perso la fede ma l’entusiasmo e le forze sì e
si mette in disparte”. M. muore a Firenze il 13 marzo
1911. (L. Di Lembo)
Fonti: ASFI, Questura, CP, p. 25; TP, Processi risolti con
sentenza 1880, p.437; ASRM, Gab., b. 58 (1894) f. 240 (P.
Lega); [Necrologio], «LIB» La Spezia
16 mar. 1911; [Necrologio], «AA», 19
mar. 1911; T. Monticelli, Pagine di Storia Socialista:
Luisa Pezzi, «Avanti!», 23 mar. 1911.
Bibliografia: E. Ciacchi, Da Piazza Savonarola alle Murate.
La verità sul 1° maggio a Firenze, Firenze
1891; G. Scarlatti, L’Internazionale dei Lavoratori
e l’agitatore Carlo Cafiero, reminiscenze del contadino
G. Scarlatti ex galeotto politico, Firenze 1909; J. Guillame,
L’Internationale: documents et souvenirs, Paris
1905-1910, vol. IV; L. Rafanelli, Ricordando una donna,
«UN», 14 mar. 1920; F. Pezzi, Lettere ad Andrea
Costa ed Anna Kuliscioff, a c. di G. Bosio, «MOS»,
apr.-mag. 1950; E. Conti, Le origini del socialismo a
Firenze (1860-1880), Roma 1950; P.C. Masini, Gli
internazionalisti.
La Banda del Matese (1876-78), Milano-Roma 1958;
La Federazione Italiana dell’Associazione Internazionale
dei Lavoratori. Atti Ufficiali (1871-1880), a c. di P.C.Masini,
Roma-Milano 1964; N. Capitini Maccabruni, La Camera del
Lavoro nella vita politica e amministrativa fiorentina (dalle
origini al 1900), Firenze 1965; L. Rafanelli, Gli
ultimi Internazionalisti, «UN» 24 dic. 1966;
Lettere inedite di anarchici e socialisti ad Andrea Costa
1880, a c. di P.C. Masini, «MOS», gen.-mar.
1967; Masini 1, ad indicem; F. Pieroni Bortolotti,
Socialismo e questione femminile in Italia 1892-1922,
Milano 1972; Masini 2, ad indicem; Id., Cafiero,
Milano 1974, ad indicem; P. Feri, Il movimento
anarchico in Italia dopo la svolta di Andrea Costa, «Trimestre»
1978-1979; MOIDB, ad nomen; G. Sacchetti, Sovversivi
in Toscana (1900-1919), Todi 1983; Malatesta, ad
indicem; R. Zangheri 1, ad indicem.
Emma
Neri (a destra) con Augusto Masetti e Maria Rossi
Neri,
Emma
Nasce a Cesena (FC) il 5 settembre 1897 da Eligio e Elvira
Della Bella, insegnante elementare. Il padre è un ragioniere
socialista e le condizioni economiche della famiglia le consentono
di conseguire il diploma di maestra elementare. In seguito
frequenta un corso presso l’Università di Bologna
e ottiene l’abilitazione come direttrice didattica,
ma preferirà sempre insegnare come maestra per essere
a contatto diretto con gli alunni. Fin da giovanissima aderisce
agli ideali socialisti del padre. Dopo le prime brevi esperienze
di lavoro nelle scuole di alcune località del cesenate
e della provincia di Forlì, nel 1921 ottiene un posto
di insegnante nella scuola elementare di Castel Bolognese
(RA).
Qui conosce il giovane anarchico Nello Garavini, di cui diverrà
l’inseparabile compagna per tutta la vita, condividendone
da ora in poi tutte le vicende. A contatto con Garavini e
con gli altri libertari castellani, particolarmente numerosi
e attivi, N. approfondisce le proprie convinzioni politiche
e aderisce all’anarchismo. L’unione della giovane
coppia viene formalizzata con il matrimonio civile il 4 giugno
1923. Nel 1924, dopo il delitto Matteotti, si trasferisce
a Milano con il marito che si è esposto nella lotta
contro il fascismo e che per questo è stato già
aggredito due volte. Il 19 ottobre 1924 nasce Giordana, l’unica
figlia della coppia, destinata a proseguire l’opera
dei genitori nell’ambito dell’anarchismo castellano.
Per due anni i Garavini frequentano l’ambiente dei libertari
milanesi e stringono un’intima amicizia in particolare
con Carlo Molaschi e con la sua compagna Maria Rossi.
Nel 1926, per sfuggire dalle persecuzioni e per continuare
a svolgere attività antifascista, emigrano in Brasile,
stabilendosi a Rio de Janeiro. Inizia un esilio che durerà
più di 20 anni e che perlomeno nei primi tempi sarà
caratterizzato da difficoltà economiche e da disagi
di vario genere. Nei primi anni i due coniugi devono adattarsi
a svolgere i più disparati lavori, fino a conseguire
una relativa agiatezza economica. Nonostante i pericoli –
il Brasile in quegli anni è quasi ininterrottamente
governato da feroci dittature – i Garavini continuano
la loro attività politica, rivolta soprattutto alla
lotta contro il fascismo italiano.
Frequentano gli ambienti antifascisti, conoscono anarchici
di tutto il mondo e mantengono i contatti con alcuni compagni
italiani esuli in altri paesi. Partecipano alle attività
della Liga anticlerical, fondata da José Oiticica,
esponente di rilievo dell’anarchismo brasiliano. Una
amicizia particolarmente stretta li lega a Luigi Fabbri fino
alla sua morte a Montevideo nel 1935 e a sua figlia Luce.
Un’altra amicizia profonda è quella con Libero
Battistelli, avvocato bolognese repubblicano aderente a GL,
e con sua moglie Enrichetta, esuli anch’essi in Brasile.
Nel 1931, in occasione della trasvolata atlantica di Italo
Balbo e la sua squadriglia, N. ed Enrichetta Battistelli diffondono
migliaia di volantini antifascisti nelle principali vie di
Rio, accusando Balbo e i suoi squadristi per l’assassinio
di don Minzoni avvenuto nel 1923. Poco dopo questo episodio,
N. perde l’incarico di insegnante alla scuola italiana
gestita dalla Società Dante Alighieri, ormai definitivamente
fascistizzata. Dal 1933 al 1942 i Garavini gestiscono una
libreria (la Minha Livraria) che diventa un luogo di ritrovo
e di discussione per tutto l’ambiente di sinistra e
antifascista di Rio.
Numerose sono, nel corso degli anni, le perquisizioni e le
limitazioni da parte della polizia politica. Per qualche tempo
alla libreria si affianca anche una piccola attività
editoriale, con la pubblicazione di libri di cultura politica,
sociale e letteraria. Nel 1947 i Garavini rientrano definitivamente
in Italia, a Castel Bolognese. Riallacciano i rapporti con
i vecchi compagni sopravvissuti e riprendono la loro attività
all’interno del gruppo anarchico locale, ricostituito
subito dopo la fine della guerra.
Aderiscono subito alla FAI, a cui resteranno poi sempre legati,
partecipando a numerosi congressi e convegni fino agli anni
Settanta. Prendono parte anche al Congresso della ifa tenutosi
a Carrara nell’estate del 1968. Con la rinascita libertaria
seguita agli avvenimenti del 1968 la loro casa si riempie
di giovani, molti dei quali rimangono affascinati dalla personalità
di N., dalla sua sensibilità e dalla rara capacità
comunicativa. Muore a Imola, presso il cui ospedale è
da tempo ricoverata, il 2 febbraio 1978. (G. Landi)
Fonti: ACS, CPC, Garavini Nello; ivi, Neri Eligio;
BLAB, Fondo Emma Neri Garavini; ivi, Nello Garavini; [G. Landi],
Biografia di Emma, «La Questione sociale»
(Forlì), mar. 1978; Gruppo anarchico di Castel Bolognese,
Emma Garavini Neri, «UN», 2 apr. 1978.
Bibliografia: Scritti di N.: Prefazione a C. Molaschi,
Pietro Gori, Milano 1959. Scritti su N.: A. Taracchini,
L’associazionismo anarchico a Castelbolognese,
in Associazioni e personaggi nella storia di Castelbolognese,
Imola 1980; Castelbolognese; L. Fabbri, Luigi Fabbri.
Storia di un uomo libero, Pisa 1996, ad indicem;
G. Landi, Emma Neri Garavini, gennaio 1999.
Giuseppe
Pinelli
Pinelli,
Giuseppe
Nasce a Milano il 21 ottobre 1928 da Alfredo e Rosa Malacarne,
ferroviere. Trascorre la prima parte della sua vita nel natio
quartiere popolare di Porta Ticinese. Finite le scuole elementari
deve andare a lavorare, prima come garzone, poi come magazziniere.
Continua a leggere, un’abitudine che lo accompagna per
tutto il resto della vita. Nel 1944, sedicenne, partecipa
alla Resistenza antifascista come staffetta della BGT “Franco”,
collaborando con un gruppo di partigiani anarchici, che costituiscono
il suo primo tramite con il pensiero libertario.
Nel 1954 entra nelle ferrovie come manovratore. Nel 1955 si
sposa con Licia Rognini, conosciuta a un corso serale di esperanto:
presto verranno due figlie, Silvia e Claudia. Nei primi anni
’60 si costituisce a Milano un gruppo di giovani anarchici
(Gioventù libertaria) poco più che ventenni,
tra i quali Amedeo Bertolo, che nel 1962 aveva avuto l’onore
della cronaca quale componente di un gruppo che aveva rapito
il viceconsole spagnolo a Milano per ottenere (come ottenne)
la trasformazione in pena detentiva di una condanna a morte
di un anarchico nella Spagna franchista. P. – “Pino”
per i compagni e gli amici – con i suoi 35 anni è
il più vecchio di loro, ma questo non è un problema:
il suo carattere gioviale ed espansivo ne fa un “compagnone”.
E quando nel 1965, dopo una decina di anni senza sede, se
ne apre una in viale Murillo, P. è tra i fondatori
del circolo “Sacco e Vanzetti”.
Qui si tiene nel dicembre 1966 anche un incontro della gioventù
libertaria europea. In seguito a uno sfratto, gli anarchici
milanesi cambiano sede e il 1° maggio 1968 viene inaugurato
il Circolo anarchico “Ponte della Ghisolfa”, sito
in piazzale Lugano, nel periferico quartiere operaio della
Bovisa. Prende il nome dall’attiguo sovrappasso stradale,
dal quale si vedono i binari della stazione ferroviaria di
Porta Garibaldi, dove Pinelli lavora.
Siamo nel ’68, appunto, e il vento della contestazione
che soffia dalla Francia arriva anche a Milano. P. è
attivo su molti fronti: come anarchico, è tra quelli
che tengono aperta la sede, organizza un’efficace servizio-libreria,
è tra gli organizzatori di intensi cicli di conferenze
serali. Approfittando della possibilità di viaggiare
(in quanto ferroviere) gratis in treno, tiene i contatti diretti
con i compagni “di fuori”, tra i quali Luciano
Farinelli ad Ancona, Aurelio Chessa a Pistoia, Umberto Marzocchi
a Savona. Intensi anche i rapporti con Alfonso Failla, a Marina
di Carrara, dove si reca anche in vacanza con la famiglia.
Operaio, P. si impegna anche in campo sindacale, in particolare
per la riattivazione dell’USI, di cui viene aperta una
sezione presso il Circolo. Anche il CUB dei lavoratori dell’Azienda
trasporti milanese elegge il Circolo a propria sede e la lascerà
solo dopo l’attentato del 12 dicembre 1969: la repressione
anti-anarchica suggerirà questo trasloco. L’ambiente
anarchico milanese è in pieno fermento, in molte scuole
superiori nascono nuclei libertari, anche nelle fabbriche
ci sono operai anarchici e frequenti sono i volantinaggi di
primo mattino. Escono libri, opuscoli, i vecchi giornali riprendono
fiato.
Gli anarchici milanesi sentono la necessità di una
seconda sede, questa volta nella zona Sud di Milano. Tra i
più impegnati nella sistemazione e nell’apertura
del Circolo di via Scaldasole (nel quartiere Ticinese) c’è
P. Il 25 aprile 1969 due attentati colpiscono la Stazione
centrale e la Fiera. Le indagini si indirizzano verso ambienti
libertari e alcuni anarchici vengono arrestati: è l’inizio
di una campagna di criminalizzazione, che trova nuova linfa
in agosto, quando alcuni attentati ai treni vengono ancora
attribuiti ad anarchici. Viene fatta circolare anche la voce
di una possibile implicazione di P., anarchico e ferroviere.
P. e il suo gruppo “Bandiera nera” insorgono,
denunciano la manovra, danno vita – sull’esempio
della “Black Cross” inglese di quei mesi e della
“Croce nera” russa degli anni ’20 –
alla Crocenera anarchica, specificatamente dedita alla solidarietà
concreta con i compagni detenuti, ma anche alla pubblicazione
di un bollettino di controinformazione. P. è l’anarchico
più “in vista” tra quelli milanesi e frequentemente
è in questura per richieste di autorizzazione, convocazioni,
ecc.. Il suo interlocutore è perlopiù un giovane
commissario di polizia, informale nei modi, elegante, ammiccante:
Luigi Calabresi. Così, quando nel tardo pomeriggio
del 12 dicembre 1969, subito dopo l’attentato di piazza
Fontana, Calabresi si presenta al Circolo di via Scaldasole
e invita P. a recarsi in questura, questi acconsente senza
problemi, inforca il motorino e segue l’auto della polizia.
In questura P. incontra, in un grosso salone, gran parte degli
anarchici milanesi, fermati come lui per chiarire il proprio
alibi. Entro 48 ore, limite massimo concesso dalla legge di
allora per il “fermo di polizia”, i fermati vengono
rilasciati, alcuni vengono spostati nel carcere di San Vittore.
P. viene invece trattenuto in Questura aldilà del limite
legale. Viene interrogato. Poi, intorno alla mezzanotte tra
il 15 e il 16 dicembre, il suo corpo vola da una stanza dell’Ufficio
politico al quarto piano e si sfracella a terra. Le prime
contrastanti versioni della polizia lasciano intendere che
la verità non può essere quella ufficiale del
“suicidio”. Muore a Milano all’Ospedale
Fatebenefratelli nella notte tra il 15 e il 16 dicembre 1969.
La vicenda politico-giudiziaria del suo assassinio, intrecciata
con l’intera storia della strage di piazza Fontana,
in particolare con il “caso Valpreda”, diventerà
negli anni un vero e proprio boomerang per il Potere. I maldestri
tentativi di mettere a tacere il tutto, culminati nella tesi
del “malore attivo” proposta da una sentenza del
giudice Gerardo D’Ambrosio, non faranno che evidenziare
quella verità che non ha ancora trovato spazio nelle
carte ufficiali. Decine saranno i libri, i filmati, le opere
teatrali, le installazioni artistiche, le canzoni dedicate
a P. e al suo assassinio, non solo in Italia. Ne citiamo qui
solo due: la Morte accidentale di un anarchico del
premio Nobel Dario Fo, e la gigantesca opera I funerali
dell’anarchico Pinelli di Enrico Baj. (P. Finzi)
Fonti: CSLAP.
Bibliografia: Le bombe di Milano. Testimonianze di
G. Pansa [et al.], Parma 1970; Crocenera anarchica, Le
bombe dei padroni, Catania 1970 (1989, 2a ed.); La
strage di Stato. Controinchiesta, Roma 1970; C. Cederna,
Pinelli. Una finestra sulla strage, Milano, 1971;
V. Nardella, Noi accusiamo! Contro requisitoria per la
strage di stato, Milano 1971; M. Sassano, Pinelli:
un suicidio di Stato, Padova 1971; Id., La politica
della strage, Padova 1972; M. Del Bosco, Da Pinelli
a Valpreda, Roma 1972; L. Rognini, Una storia quasi
soltanto mia, a c. di P. Scaramucci, Milano 1982; G.
Boatti, Piazza Fontana. 12 dicembre 1969: il giorno dell’innocenza
perduta, Milano 1993, ad indicem; Il malore
attivo dell’anarchico Pinelli, Palermo 1996; L.
Lanza, Bombe e segreti. Piazza Fontana 1969, Milano
1997.