Il mattino del 2
giugno mi è capitato di fare zapping e, passando da
un programma all’altro, di dare un’occhiata alla
parata per la festa della Repubblica.
Colpivano alcune evidenti caratteristiche sia della parata
sia del commento:
- lo stile vigoroso, moderno, efficiente. Il soldato
marmittone, icona della prima repubblica, sembra andato in
pensione, sostituito da militari, uomini e donne, di professione,
temprati dalle missioni all’estero, ben retribuiti,
prestanti;
- la presenza delle donne nell’esercito. Da questo
punto di vista, la discriminazione di genere sembra superata.
Una donna, purché mostri le virtù virili –
e molte sono ansiose di farlo, è a suo agio nell’esercito
nuovo modello. Non posso fare a meno di pensare a Demi Moore
in Soldato Jane, l’emancipazione come adattamento
allo stile dominante;
- l’insistenza sulle missioni “di pace”
all’estero. È perfettamente evidente che l’esercito
nuovo modello è stato costruito mediante l’utilizzo
di corpi di élite sui vari fronti e che il nuovo mito
positivo dell’esercito repubblicano si basa sulla valorizzazione
di queste missioni.
Se si riflette a questo rito, è evidente che vi è
un recupero di una funzione tradizionale dell’esercito
come comunità armata che simboleggia quella nazionale
e, come è tipico dell’Italia, come espressione
di un nazionalismo subalterno.
Fra i corpi che sfilavano mi ha colpito, ad un certo punto,
la Brigata Sassari la cui banda cantava con grande entusiasmo
l’inno tradizionale del corpo,
Dimonios. In particolare,
tre strofe, mi sembravano notevoli:
Semus istiga
de cudda antiga zente
ch’a s’inimigu
frimmaiat su coro.
Boh! Boh!
Es nostra oe s’insigna
pro s’onore de s’Italia
e de Sardigna…
Ruiu su coro
e s’animu che lizzu
cussos colores
adorant s’istendarde.
Boh! Boh!
E fortes che nuraghe
a s’attenta pro mantennere
sa paghe.
Sa fide nostra
no la pagat dinari.
Aioh! Dimonios!
Avanti forza paris. (1)
Innovazione tecnologica, servizio militare femminile, linguaggio
moderno di colpo s’intrecciavano con la rivendicazione
di una tradizione di tipo comunitario. Lo stesso utilizzo
del sardo, in luogo di comportare una presa di posizione localistica,
è perfettamente funzionale al nazionalismo italiano
così come i reggimenti scozzesi con i loro gonnellini
e cornamuse lo erano all’impero inglese.
Ritorno al patriottismo
Quando, poi, sono passati i lagunari, il presentatore ha
ricordato i fanti de mar della Repubblica Veneta e la storia
del corpo soprassedendo sul fatto che, a rigore, durante la
seconda guerra mondiale, la “San Marco” ha combattuto
sia nell’esercito del sud che in quello della RSI.
Siamo, in questo caso, di fronte ad un esempio di memoria
unificata che tiene assieme fascisti ed antifascisti. L’inno,
più noto di quello della brigata Sassari, termina con
la famosa strofa:
San Marco San Marco
cosa importa se si muor (e se si muor)
alto il grido del valore il lagunare eterno va (e vincerà).
Ciò che ritengo importante è il fatto che questo
recupero delle tradizioni militari funzioni nel senso che
è in grado di suscitare passioni, identità,
consenso.
D’altro canto, se andiamo a vedere cosa avviene in un
settore della società diverso, la squadra di calcio
nazionale canta ormai da anni l’inno e, cosa ancora
più rilevante, è accompagnata dal pubblico.
Di norma, questo ritorno al patriottismo, tanto più
singolare quanto più il governo italiano non ha una
politica nazionale, è spiegato con la pressione del
presidente della Repubblica che avrebbe svolta una sorta di
evangelizzazione in questa direzione. Senza negare che sia
possibile un’influenza negativa del buon Carlo Azelio
Ciampi, è evidente che quanto sta avvenendo non può
che avere ragioni più complesse.
Da un punto di vista contingente, è chiaro che la necessità
di inviare truppe in giro per il mondo ha reso necessario
un discorso volto a giustificare questa scelta. Saremmo, insomma,
di fronte ad una campagna pubblicitaria ben riuscita.
Ma, paradossalmente, proprio le missioni di “pace”
non godono di ampio consenso mentre l’esercito suscita
simpatie.
Credo che sia evidente che siamo di fronte ad un’esigenza,
abilmente manipolata ma non di meno reale, di appartenenza
ad una comunità capace di dare identità senso,
sicurezze in una fase storico sociale che vede un indebolimento
del legame sociale e delle garanzie bene o male conquistate
nei passati decenni.
Non si tratta, necessariamente, di una sola comunità
né l’una esclude sempre l’altra. La ripresa
di appeal della chiesa cattolica fra i giovani non
contraddice necessariamente la ripresa del patriottismo, basta
ricordare che esistono i “soldati cristiani”.
Come affermava un prete, cattolico e statunitense, della base
di Aviano, non sono i preti a garantire la libertà
di religione ma i soldati. Per quanto prete, uno statunitense
tende ad una certa brutalità linguistica che, di norma,
manca ai cattolici nostrani, ma il concetto è chiaro
ed anche i preti italiani sono in grado di articolarlo.
I fenomeni ai quali ho, assai poveramente, fatto cenno rimandano
ad un’esigenza con la quale una proposta libertaria
ritengo debba misurarsi e cioè quella di forme di legame
sociale che garantiscano all’individuo relazioni, capacità
di comunicazione, sicurezze, prospettive.
Tenere alta la tensione
critica
La società capitalistica e mercantile, è inutile
insistere su questo punto, distrugge le forme tradizionali
di legame sociale o ne comporta una dissoluzione, le burocrazie
statali sostituiscono alle comunità precapitalistiche
massicci apparati di controllo ed inquadramento che sono in
crisi a causa, in primo luogo, della loro insostenibilità
dal punto di vista dell’economia di mercato.
Nel vuoto che si determina, trovano spazio correnti populiste
a destra e neosocialdemocratiche a sinistra.
A livello di grande astrazione, si potrebbe affermare che
lo scontro fra le classi opponendo i dominati ai dominanti
disegna comunità umane antagonistiche abbastanza nette.
L’esperienza storica ci dimostra, però, che questo
mito ha uno scarso fondamento nei fatti e, comunque, il dominio
capitalistico si è basato anche sulla straordinaria
capacità di assorbire i movimenti antisistemici e di
rendere compatibili con il proprio sviluppo esigenze apparentemente
radicali. Basta, a questo proposito, pensare al movimento
delle donne, a quello omosessuale, alle minoranze etniche,
ai movimenti ecologisti, ecc.
In qualche misura, ogni pressione sociale dal basso sembra
produrre un’offerta di mercato ed un quadro legislativo
atto a soddisfarli almeno se restiamo nell’area centrale
dell’economia mondo.
Si pone, allora, il problema di un immaginario libertario
capace di tenere alta la tensione critica verso ogni forma
di comunitarismo gerarchico ed autoritario ma capace anche
e nel contempo di una riflessione su forme di legame sociale
basate contemporaneamente su di una dimensione conflittuale
nei confronti del padronato e dello stato e su di un’elaborazione
culturale che sappia tenere dentro memoria storica e capacità
di pensare il cambiamento.
Naturalmente ritengo che, su questo terreno, già i
compagni e le compagne facciano molto. Ma varrebbe forse la
pena di provare a pensare a quest’ordine di questioni
in maniera unitaria.