Ogni
tanto anche il politico si accorge dell’importanza della
semantica. Peccato che non disponga di alcuna teoria del significato,
finendo così per arrampicarsi sugli specchi.
Dopo gli attentati di Londra, la British Broadcasting Corporation
decide di cambiare politica semantica, diciamo così,
e che d’ora in avanti “terrorista” (“terrorist”)
verrà sostituito da “bombista” (“bombist”).
In un paese come il nostro – dove il “presidente
del consiglio” è diventato “premier”
(tanto per fare un solo penoso esempio fra i tanti a disposizione)
– c’è chi se ne preoccupa. Primo, si chiede
il preoccupato, è legittimo manipolare il linguaggio?
Secondo, sotto sotto non c’è forse quella vecchia
e illusa fiducia – tipica della cultura filosofica anglosassone,
aggiungo io – che il linguaggio possa essere neutro, asettico
e “scientifico”? Che non sia zeppo di termini valutativi
o che, addirittura – direi io –, valutativo lo sia
sempre e comunque? Manipolare il linguaggio, poi, non sarà
un preliminare per occultare realtà sgradevoli? E giù
citazioni: il preoccupato cita Linneo – “se non
hai un nome non percepisci nemmeno la cosa” –, ma
potremmo tutti aggiungerci Orwell ed i suoi ragionamenti sulla
Neolingua nella buia dittatura del Grande Fratello in quel “1984”
che, come anno, è passato da un pezzo, ma che come tesi
su “come siamo finiti o come finiremo” è
più che mai di attualità.
A portare Orwell sul problema del rapporto tra lingua e politica
era stata la moda giornalistica del “cablese” –
una sorta di stenografia – e l’invenzione del Basic
English da parte di C. K. Ogden, fondatore di un Istituto di
Ortologia nel 1929 e autore, con l’estetologo I. A. Richards,
di uno dei libri più vani che abbia mai letto, Il
significato del significato. Visto e considerato che
Ogden – in nome dell’Ordine – sosteneva l’eliminazione
dei verbi dal nostro dizionario nonché tesi palesemente
assurde come quella che la riduzione dei termini più
complessi in termini più semplici avrebbe comportato
l’approdo a concetti “indefiniti e veri”,
Orwell ne dovette rimanere costernato. E terrorizzato. Fa l’esempio
del “Comintern” che i giornali inglesi avevano imparato
a usare al posto di “Internazionale Comunista” e
sostiene che “abbreviando il nome, si restringeva e si
alterava con sottigliezza il suo significato” –
e immagina una triste società dai significati sempre
più ristretti e alterati dalle esigenze del potere.
Neo-orwelliano, allora, il preoccupato odierno dubita che per
il solo fatto di non nominare più il “terrorismo”
sparisca la realtà che il termine designerebbe e invoca
i numi che alla parola sia fatta salva la vita. Lasciandolo,
ovviamente, con il problema di definirla – problema che
è di tutte le parole e non solo della parola “terrorista”.
Si rende conto, allora, che il “discorso” rimane
da “approfondire”, ma nel frattempo, si accorge
anche che la parola avrebbe “una sua evidentissima trasparenza
semantica” in grazia della quale tutti ne sapremmo il
significato senza soverchie possibilità di equivocare.
Con il che, in pratica, il problema si rivanifica – come
se il politico ad una propria ignoranza di fondo tenga molto.
Se se ne vuole venire a capo, ovviamente, il problema non va
affrontato in questo modo. Il linguaggio non designa realtà
– non è dotato di questo magico potere –,
ma designa le più modeste nostre operazioni mentali.
Soltanto allorché le eseguiamo uguali (quando? qualche
volta? mai?) possiamo dire di condividere i significati. In
caso contrario passiamo alla faticosa negoziazione e, implicitamente,
chiediamo al nostro interlocutore che il risultato di questa
negoziazione rimanga valido almeno per l’intera durata
dell’interlocuzione (cosa che non sempre accade). Ferma
restando questa consapevolezza possiamo guardare con relativa
serenità a chi si dà gran pena di trafficare con
la semantica nella speranza di far cambiare le nostre opinioni
politiche.
Felice Accame
Note
Il preoccupato di turno è Giovanni Sartori. Cfr. Illusionisti
pericolosi, in “Corriere della Sera”, 24
luglio 2005. Che, di passaggio, nel vano tentativo di conferire
solidità alla propria argomentazione, dice che “gli
animali non hanno un linguaggio valutativo” mentre “gli
esseri umani sì”. Dopo l’intelligenza, il
linguaggio, il pianto, il riso, la capacità di produrre
strumenti e mille altre “differenze” poi regolarmente
falsificate, ecco anche il valutativo. Chi ha un cane sa già
benissimo che abbaia in modo diverso a seconda di chi incontra.
Da che dipende se non da valutazioni?
Una riflessione analoga a quella di Orwell è quella dello
scrittore russo Zamjatin (cfr. Noi, Feltrinelli,
Milano 1984). Per una corretta esposizione di queste vicende,
cfr. C. Marrone, Le lingue utopiche, Melusina,
Roma 1995, pagg. 239-244 e pagg. 250-258.
Di passaggio: una nuova differenza fra umano e animale: quest’ultimo
non avrebbe un linguaggio valutativo.
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