Questa
è una conversazione avvenuta tra Moésio
Reboucas, dell’Agenzia di Notizie Anarchiche (ANA)
del Brasile, e Daniel Barret, anarchico di Montevideo,
Uruguay. |
Dato che qui in Brasile sono in pochi a conoscerti,
ti chiedo di parlarmi un po’ di te, del tuo percorso
anarchico, di cosa stai facendo in questo momento…
Prima di tutto è necessario chiarire che Daniel Barret
non è altro che uno pseudonimo di uso relativamente
recente. Con questo nome pubblicai nel 2001 un opuscolo sui
fatti di Genova, in cui venne assassinato Carlo Giuliani e
continuai poi ad usarlo anche in lavori successivi: in occasione
dell’invasione dell’Afghanistan, sul sollevamento
popolare in Argentina, sulla situazione del movimento anarchico
internazionale, su Cuba, ecc… In quel momento –
luglio 2001 – ero già convinto del fatto che
il movimento anarchico avesse iniziato ad affrontare una nuova
fase e, dato che noi non accumuliamo meriti per nessun curriculum,
volli confrontarmi con il mio stesso rinnovamento personale,
di cui il nome non è altro che la sua espressione simbolica;
l’espressione nominale e minore di questa aspirazione
libertaria di crearci e ricrearci permanentemente non solo
al di fuori ma anche contro gli spazi gerarchicamente istituzionalizzati.
Lo uso indubbiamente solo per i lavori scritti e per le relazioni
al di fuori dell’Uruguay che ho affrontato a partire
da quella data.
Nel frattempo, dato che non diamo mai un taglio netto con
la nostra storia né tanto meno dobbiamo farlo, trovo
opportuno dire che il mio alter ego è un militante
un po’ meno giovane. La prima volta che scoprii di essere
anarchico avevo 15 anni, verso il 1967, e posso dire che,
in termini generazionali, mi sono formato in quel territorio
in cui si combinavano, in modo non del tutto coerente, le
influenze della presenza giovanile degli ultimi anni ‘60
e quella della guerriglia latinoamericana con l’ammirazione
per le gesta rivoluzionarie dell’anarcosindacalismo
spagnolo. Durante tutto questo tempo ho sviluppato attività
militanti in organizzazioni sociali – studentesche,
di quartiere, sindacali, ecc… – e simultaneamente
in diversi raggruppamenti più specificatamente anarchici;
ma mettersi ora a parlare e a enumerare queste esperienze
sarebbe lungo e tedioso.
Oggi non posso più portare avanti, per ovvie ragioni,
l’attività studentesca; anche se l’idea
non mi dispiacerebbe assolutamente. Conduco invece una ridotta
attività sindacale in un contesto burocratico che non
dà luogo a eccessive aspettative e mantengo invece
una presenza molto entusiasta nei luoghi in cui vivo; il più
vecchio dei miei amori, il Cerro, un quartiere operaio di
Montevideo di lunga, forte e riconosciuta tradizione libertaria.
Attualmente però non appartengo pienamente a nessuno
dei nuclei anarchici che esistono in Uruguay anche se partecipo
alle puntuali attività di alcuni di loro; e, naturalmente,
anche alle attività comuni e coordinate. E questo perché
penso che sia più proficuo dedicare tempo, energie
e riflessioni a tendere ponti tra le differenze alternative
piuttosto che rafforzare una di loro in particolare. Ammetto
che questo possa essere ritenuto molto discutibile ma per
me rappresenta un punto fermo per le circostanze attuali e
spero di poterlo sviluppare più approfonditamente nel
corso di questa conversazione.
Tu sei ottimista nei confronti dell’anarchismo
o delle varie forme di anarchismo?
Decisamente sì; anche se bisogna chiarire che in questo
caso l’ottimismo è molto più di uno stato
d’animo. Quando prima parlavo di un tempo nuovo per
il movimento anarchico volevo riferirmi fondamentalmente a
uno scenario internazionale che da un po’ di tempo a
questa parte ha allargato le possibilità di sviluppo
delle correnti libertarie. I primi anni del decennio iniziato
nel 1990 furono caratterizzati da una reazione galoppante
e la caduta del “socialismo realmente esistente”
sfociò in una rampante ed assurda corsa sfrenata del
liberalismo; fenomeno che, nei momenti di maggior delirio,
fece parlare perfino della “fine della storia”.
Ma l’estensione delle politiche inaugurate dal binomio
Thatcher-Reagan negli anni ’80 dovette rapidamente far
fronte a una sconfitta dopo l’altra: in Europa Orientale,
nel sudest asiatico, in America Latina e perfino, anche se
in modo meno spettacolare, nei paesi centrali. Negli anni
’60 e ’70 una crisi di tali dimensioni sarebbe
stata canalizzata e capitalizzata, anche se non totalmente
almeno in grande misura, dalle diverse correnti marxiste leniniste.
Ma verso la fine dello scorso secolo questo non era ormai
più possibile perché il collasso del “socialismo
reale” non solo privava i movimenti rivoluzionari del
paternalismo protettore dell’Unione Sovietica ma anche
del marxismo leninismo come concezione pseudo-scientifica
e mediamente seducente. Tutto ciò delimita due tendenze
decisamente marcate ed alla fine entrambe confluiscono –
anche se con altre tendenze meno esuberanti, naturalmente
– e lasciano dietro e davanti a sé un enorme
vuoto che l’anarchismo si propone di colmare a suo modo
e all’interno delle sue possibilità. Schematicamente,
si può dire che tutto ciò acquisisce il proprio
simbolico riconoscimento internazionale a Seattle, nel dicembre
del 1999, e si trasforma nello scenario principale dell’attuale
risveglio anarchico.
Ma questa constatazione ottimista impone alcune precisazioni.
In primo luogo, parlare di un risveglio anarchico non vuol
dire che ci troviamo di fronte a un’imminente rivoluzione
di carattere libertario né tanto meno di fronte alla
veloce conversione in questa direzione del movimento sociale;
vuol dire piuttosto che abbiamo davanti a noi a uno scenario
propizio allo sviluppo e allo spiegamento di minoranze attive
capaci di estendere il raggio di influenza delle nostre proposte
e delle nostre pratiche.
In secondo luogo, quello che si è ora aperto è
un campo di opportunità, che non si realizzano però
spontaneamente, ma attendono ancora un movimento anarchico
in condizioni di assumerle come proprio obiettivo. Infine,
questo lieto risveglio non dovrebbe appannare la percezione
delle nostre debolezze e carenze ma, al contrario, dovrebbe
stimolarne un’adeguata presa di coscienza e un successivo
lavoro su di loro. Assumere o meno questi elementi collettivamente
costituisce, forse, la differenza tra consolidare l’ottimismo
o farlo sfociare in una nuova delusione.
Manifestazione anarchica in
Brasile
Risveglio anarchico
Sono d’accordo con te quando parli di questo
risveglio anarchico a livello planetario, chiaramente senza
cadere nell’arroganza. E si può notare questa
crescita in diversi ambiti, dall’aumento anno dopo anno
delle attività anarchiche, al germoglio di gruppi in
luoghi senza alcuna tradizione anarchica, alla pubblicazione
di libri, alle manifestazioni e, curiosamente, all’aumento
dei prigionieri anarchici nel mondo. Non lo posso affermare
con certezza, ma negli ultimi trent’anni non ci sono
mai stati tanti prigionieri anarchici nel mondo quanti ce
ne sono oggi. Ma sento che l’anarchismo potrebbe trovarsi
in una situazione decisamente migliore, prima di tutto se
avesse più risorse, poi, per la qualità della
gente che si unisce al movimento, per il grado dell’impegno,
per la dedizione…
Un esempio che cito sempre è quello dei punks. Ne esistono
a migliaia, in ogni luogo, ma effettivamente, per mancanza
di contenuto, non hanno nessun peso nella società,
sono “solo numeri”.
Con questo non voglio riferirmi a tutti i punks, anche se
però alla grande maggioranza di loro. Quando parlo
del grado d’impegno, mi riferisco alla gente che si
definisce anarchica, ma che non ha il coraggio di lottare
nella propria quotidianità, in nessun aspetto della
vita, solamente “tra le quattro pareti”.
È incredibile che possano esistere anarchici che vedono
un problema sotto il loro naso ma che non muovono un dito
per cercare di trasformare questo problema, non si muovono,
anzi, alcuni di loro riescono anche a scrivere tesi, articoli
o libri su questo problema. (risa). Che ne pensi?
Dividiamo la risposta in due parti. Come prima cosa non mi
sembra che ci sia troppa discussione in merito al risveglio
anarchico, che può essere constatato per lo meno su
sei piani diversi: le presenze nelle grandi concentrazioni
del movimento internazionale “anti-globalizzazione”
o “alter-mondista”; la proliferazione di gruppi
con una composizione principalmente giovanile; il relativo
recupero dell’influenza in spazi più o meno “tradizionali”
di attuazione sociale; la moltiplicazione delle attività
editoriali classiche e in formato web; la fioritura di incontri
di discussione e di scambi di ogni tipo; e, indubbiamente,
la rinnovata preoccupazione degli organismi di repressione
che ormai non vedono più il movimento anarchico come
un aspetto pittorico e poco preoccupante, ma come un fattore
reale di “perturbazione”. Niente di tutto ciò
accadeva su questa scala e a livello mondiale 10, 15 o 20
anni fa, ed è per questo che possiamo parlare di un
risveglio libertario e intenderlo come un fenomeno storicamente
recente.
Ma analizziamo le cose con calma. Credo che la maniera più
adeguata e meno traumatica di considerare quello che tu giustamente
segnali sia la seguente. Essendo il risveglio anarchico un
fenomeno recente, il movimento che lo incarna non può
che essere giovane, ancora carente di un’esperienza
storica prolungata e della temperanza o dell’abitudine
al fuoco che ne derivano. In circostanze di questo tipo, il
movimento che ne scaturisce non può essere altro che
accidentale e vario, dove trovano luogo sia gli impegni più
profondi che le mere concessioni alla moda. Accettandolo in
questo modo – anche se a denti stretti e senza applaudirlo
o peggio ancora auspicarlo –, gli anarchici che lo sono
solo all’interno delle quattro pareti domestiche risultano
essere preferibili ai nemici dichiarati.
Sono d’accordo con te che questo è un problema
che dovremmo affrontare ma dobbiamo farlo adottando una prospettiva
storica. Un movimento anarchico agguerrito e capace di far
sentire la sua voce in ogni occasione che lo necessita non
sorge da un giorno all’altro né tanto meno da
un anno all’altro. Osserviamo le esperienze che ci può
offrire la nostra storia. La risposta che diede l’anarcosindacalismo
spagnolo nel luglio del 1936 non iniziò la sua gestazione
né nel luglio né nel maggio dello stesso anno,
ma nel 1868, anno in cui avvenne la formazione del primo nucleo
internazionalista. Tra una data e l’altra ci furono
insurrezioni, incarcerazioni, morti, sofferenze, decisioni
incorruttibili e un’interminabile successione di atti
eroici. Ma anche se la storia non si ripete mai testualmente
possiamo ugualmente sentire e affermare che ci troviamo in
un nuovo e simile inizio e che il movimento che oggi abbiamo
di fronte ai nostri occhi deve pagare il prezzo che gli corrisponde.
Sia come sia, io credo e spero che sarà così.
Seguendo il ragionamento della domanda precedente,
tu sei d’accordo con l’idea secondo cui alcuni
“anarchici” sono più pericolosi dei nostri
avversari, il sistema in generale, dato che per loro è
meglio distruggere un anarchico piuttosto che il nemico? Parlo
di questo a causa delle lotte intestine che avvengono nell’universo
anarchico, che, lo vogliamo o no, sono anche una causa della
nostra non eccessiva efficienza nell’insieme della società.
No, non penso che alcuni anarchici siano più pericolosi
dei nostri avversari ma non sottovaluto nemmeno il peso dei
problemi interni. Sovente infatti sono decisamente deplorevoli
ma devono anche essere collocati nella prospettiva storica
di cui parlavamo poco fa. Uno degli aspetti più noti
dell’attuale risveglio anarchico è che il movimento
non può contare su di un paradigma di organizzazione
e azione ampiamente esteso e accettato come quelli che per
un paio di volte si sono verificati nella nostra storia. È
un momento di ricerca e di confusione che ha dato luogo anche
ad alcune scoperte e ad alcune riscoperte. Allora, ogni volta
che quelli che hanno realizzato queste scoperte e riscoperte
vi ci si soffermano sopra come se si trattasse della soluzione
definitiva alle nostre lacune, vengono sviluppati un discorso
e una pratica parziali rispetto ad altri nuclei anarchici,
cosa che non fa altro che rafforzare un clima generale internamente
turbolento; anche se questo non si manifesta in tutti i paesi
con la stessa intensità.
Credo che tutto ciò si pone in questo modo proprio
come risposta libertaria alla stessa frammentazione della
società e anche perché ci troviamo in un momento
di grande fermento. Penso anche che qualcuna di queste differenze
interne al movimento anarchico venga ampliata artificialmente
e non sopravvivrà all’attuale momento storico.
La linea di fuga di questo punto di conflitto si trova secondo
me in un lavoro di rinnovamento teorico-ideologico e politico-pratico
che non contestualizzi nuovamente il movimento anarchico in
un tempo e in alcune società che ormai non esistono
e che non torneranno più, ma qui ed ora. Chiaramente
però, una cosa è dirlo e un’altra è
farlo; e farlo non dipende più da una o numerose menti
ispirate ma da un movimento che faccia parte delle lotte che
distinguono questa epoca in cui ci è toccato vivere.
Un altro termometro che possiamo individuare in questo
“risveglio anarchico” è quello delle citazioni
nei grandi giornali delle parole “anarchia”, “anarchico”,
“anarchismo”, “libertario”. Chiaro,
sovente si tratta di commenti dispregiativi, ma altre volte
no, anzi, al contrario, sono perfino belli. Negli ultimi anni
ho collaborato quotidianamente con il giornale più
grande del Brasile, “A folha de Sâo Paulo”,
ed ho notato che è molto comune menzionare la parola
“anarchico”, “libertario”… soprattutto
negli allegati culturali. Lo stai notando anche in altri luoghi
come per esempio in Uruguay o in Argentina?
Sì, senza dubbio. Facciamo nostra una frase di Oscar
Wilde: “Non è bello che parlino male di me, ma
non sarebbe molto peggio se non dicessero nulla?” Pertanto,
celebriamo le campagne contro di noi che possono essere scagliate
dai grandi mezzi di comunicazione.
Non importa se generalmente esagerano e se ci viene attribuita
un’influenza che ancora non abbiamo e non ci interessa
troppo nemmeno che molte delle affermazioni lì contenute
non dimostrino altro che una straordinaria ignoranza. La cosa
sicura è che si è cominciato a parlare con maggiore
frequenza e maggiore energia dell’anarchismo e del movimento
che lo incarna.
Questo è sintomatico e ci pone all’interno delle
polemiche da cui fino a pochi anni fa eravamo esclusi. E la
stessa cosa avviene ormai non più solo nei grandi mezzi
di comunicazione ma anche nelle pubblicazioni della sinistra
marxista. In questi ambiti si è già iniziato
a parlare di una corrente libertaria latinoamericana come
alternativa “deviata” dei movimenti sociali e
che si nega ad adottare la “scienza del proletariato”
o a costruire il “partito dell’avanguardia”.
Che parlino pure! È molto meglio di quanto avveniva
alcuni anni fa quando semplicemente venivamo visti come dei
fiori esotici o come dei pezzi da museo.
Se non ti annoio troppo ti do un’altra prova di quello
che sto dicendo. Quando le università latinoamericane
erano egemonizzate nelle scienze sociali dal pensiero marxista,
l’anarchismo era un argomento che veniva trattato solo
nei corsi di storia o in quelli di letteratura; come se noi
anarchici non potessimo dedicarci ad altro che alle biografie
mitizzate.
Oggi questo sta lentamente cambiando ed è possibile
trovare esperienze come quelle del Nucleo Sociale Libertario
nella PUC di San Paolo o il corso di “Introduzione al
Pensiero Anarchico Contemporaneo” che ha iniziato a
tenersi proprio quest’anno all’interno del corso
di laurea di Sociologia dell’Università Maggiore
di San Simón a Cochabamba o la ricettività che
si è trovata nella UCV di Caracas.
Credo che anche questo sia un segno dei nuovi tempi e di una
parte in più del nostro campo di opportunità.
Santiago del Cile
Il ruolo di Internet
Probabilmente il Brasile è il paese latinoamericano
che ha il maggior numero di professori e professoresse anarchiche,
tanto nelle università quanto nelle scuole superiori.
Ci sono anche centinaia di studenti universitari anarchici.
Ma siccome le contraddizioni fanno parte della vita, e quindi
anche dell’anarchismo, non abbiamo nessuna organizzazione
o rete di professori anarchici, né di studenti universitari
a livello nazionale.
Non dovresti preoccupartene troppo, Moésio, sarebbe
meglio piuttosto armarsi di molta pazienza. Il movimento anarchico
sta attraversando un momento avverso e allo stesso tempo favorevole
che non ha ancora risolto alcune questioni che, in altre circostanze,
non avrebbero richiesto più di due minuti di attenzione.
D’altra parte, il Brasile è un paese che ha dimensioni
continentali e non deve sembrare facile coordinare immediatamente
persone che vivono a migliaia di chilometri di distanza tra
di loro. Credo che in paesi come il Brasile – e lo stesso
vale per l’Argentina e per il Messico, per lo meno –
bisognerebbe partire da raggruppamenti locali che prima o
poi finiranno per incontrarsi; sempre e quando abbiano un
motivo o la necessità di farlo. Attualmente è
bello sapere che ci sono centinaia di militanti anarchici
in queste realtà, in fondo alcuni anni fa non c’era
nemmeno questo. Che questi militanti convergano sicuramente
fa parte dei nostri desideri, e, soprattutto, parte di un
lavoro ancora da intraprendere.
Il
logo della Comunidad del Sur, la storica comunità anarchica
uruguayana (www.ecocomunidad.org.uy)
Un altro evento positivo per l’anarchismo è
stata la nascita di nuovi mezzi elettronici, come Internet,
ad esempio. Secondo me, anche se con qualche riserva, gli
anarchici si sono appropriati in maniera eccelsa di questo
strumento, sotto vari aspetti. D’altra parte, anno dopo
anno è sempre maggiore il numero di dossier di argomento
anarchico, o antiautoritario, nel mondo. Sei d’accordo
con me?
Sì, naturalmente. Ti racconto un aneddoto che oggi
mi fa sorridere. Alcuni anni fa – non troppi, dato che
mi sono dedicato molto tardi all’uso degli strumenti
informatici –, la primissima volta che usai un motore
di ricerca inserii con ansia e un certo timore la parola “anarchismo”
e trovai che c’erano all’incirca duecento riferimenti
da poter consultare. Rimasi due notti sveglio per l’emozione!
Due giorni fa per curiosità ripetei l’esperimento
e ora il risultato è di 186.000 riferimenti mentre,
per stabilire un confronto ragionevole, il termine “leninismo”
arriva solamente a 67.200. E ormai questo non mi suscita nessun
tipo di commozione! Ossia, il cambiamento è stato prodigioso
e l’“invasione” anarchica in Internet ha
raggiunto livelli impressionanti.
Anche se, sicuramente, credo che ci sono per lo meno due cose
da risolvere a questo livello: in primo luogo, ispessire concettualmente
e praticamente le nostre comunicazioni, che a volte corrono
il rischio di cadere in banalizzazioni; e, in secondo termine,
non confondere la nostra presenza nella realtà virtuale
con la nostra presenza nel mondo delle relazioni “materiali”
che sono quelle che si devono perseguire perché hanno
un’importanza maggiore su tutte le altre cose.
Ma attorno a tutto questo c’è un concetto di
trascendenza ancora più grande. Internet mette nelle
nostre mani il modello d’organizzazione più adeguato
alla nostra epoca: il modello della rete. Teoricamente, la
rete può venire instaurata su diversi regimi di comunicazione
– può funzionare con i segnali di fumo e con
il tamtam dei tamburi, per fare due esempi – ma nessuno
di questi permette di raggiungere tali livelli di velocità,
volume e portata insieme al perdurare della stessa scrittura.
Questo, e solo a mo’ di preambolo, conduce alla loro
minima espressione due classici problemi delle organizzazioni
anarchiche: quello di chi dovrà occuparsi delle relazioni
e quello di chi avrà sotto la propria responsabilità
i compiti di “stampa e propaganda”. Che senso
ha discutere di simili argomenti in un regime di comunicazione
aperto e pluridimensionale in cui tempo e spazio si dilatano
e si contraggono secondo l’occasione? La linearità
sequenziale e la territorialità fanno parte della logica
di funzionamento del potere e mettere loro fine oggi è
immediatamente possibile; almeno, in un senso limitato.
186 mila? Se mettiamo la parola “anarchismo”
in altre lingue, possiamo arrivare molto più in là.
(risa) Sto seguendo il cammino anarchico nel mondo
cibernetico e ho notato che all’inizio la gran parte
delle informazioni anarchiche trovate su questo mezzo erano
solo sciocchezze, un orrore, ma oggi è completamente
diverso. Oggi possiamo addirittura sentire la gran Radio Libertaire
francese! (risa)
Sì, certamente bisognerebbe aggiungere le voci in
inglese, in francese, in italiano, ecc… e ne avremmo
moltissime di più. Ma ci deve importare più
la qualità della quantità e sono d’accordo
con te che c’è anche un superamento in questo
senso; quello che corre parallelo ad alcuni elementi di ordine
tecnico, come la possibilità di utilizzare servers
di maggiore capacità, ma dipende soprattutto dall’arricchimento
della discussione e dall’elaborazione del movimento
avvenute negli ultimi anni.
In ogni modo, oggi abbiamo alcune pagine emblematiche dal
punto di vista della circolazione di informazioni come A-infos
(www.ainfos.ca)
in Canada o forum di discussione come A las barricadas (www.alasbarricadas.org)
in Spagna. Alcune altre pagine stanno portando avanti un interessante
compito di promozione organizzativa e di interconnessione
tra regioni dove il movimento è ancora incipiente in
termini storici come Alternative Network for Eastern Europe
(http://www.alter.most.org.pl/fa/)
e Gaizao – Radical Voice of East Asia (http://gaizao.org/anarchist.php).
E anche in America Latina può essere annoverata una
crescita del fenomeno, con esperienze promettenti –
almeno per quanto ne so io – in Messico, in Brasile,
in Venezuela e in Cile. In ogni modo, prima di compiacerci
nella soddisfazione, penso che sia importante sognare le molte
altre cose che ci rimangono da fare; in questo campo come
in moltissimi altri.
Come consideri alcuni testi scritti da marxisti,
o ex marxisti come Manuel Castells, Michael Albert, un messicano
di cui ora non ricordo il nome, che mettono in risalto l’anarchismo
attuale, la sua validità? La cosa curiosa è
che alcuni di loro gravitano attorno, frequentano il FSM (Forum
Sociale Mondiale). O come tu dici le nostre file sono aperte
e demilitarizzate? (risa)
Molti anni fa Cornelius Castoriadis sosteneva che, dopo essersi
formato nelle file del marxismo rivoluzionario, in un certo
momento dovette pianificare l’abbandono del marxismo
per poter continuare a considerarsi un rivoluzionario. Oggi
buona parte dell’intellettualità marxista –
tanto in Europa quanto in America Latina – si è
incamminata con armi e bagagli verso le file della socialdemocrazia
quando non verso le botteghe del neoliberismo. Altri persistono
nella celebrazione rituale del dogma come se non fosse successo
nulla e continuano ad osservare il mondo dalla coperta della
corazzata Potemkin.
Ma i più lucidi e autocritici non hanno altre alternative
– se vogliono continuare ad essere rivoluzionari –
che percorrere una strada simile a quella che percorse primo
fra tutti Castoriadis e avvicinarsi almeno a posizioni libertarie.
Tutto ciò è coerente con quanto abbiamo detto
fino ad ora e forma parte di questo nuovo risveglio anarchico.
Ma, allo stesso modo, le condizioni del lavoro intellettuale
“puro” sottintendono quasi sempre una buona quantità
di contraddizioni con il modus operandi anarchico. L’intellettuale
riconosciuto come tale è generalmente un professore
universitario, uno scrittore “di successo” o un
artista, ed è abituato a muoversi in spazi che gli
garantiscono la sua centralità perfino a livello architettonico;
sulla sua figura devono convergere tutti gli sguardi e tutti
gli ascolti.
Pensa, ad esempio, ad un anfiteatro secondo il classico modello
semicircolare greco e anche a un auditorium o a una sala da
teatro. Per questo motivo il Forum Sociale Mondiale è
una tentazione troppo forte per questo tipo di persone: è
Eva che offre ad Adamo la mela dell’albero della conoscenza!
Per concludere: effettivamente credo che sia un problema,
ma non lo ritengo uno dei più urgenti ed importanti.
Mi si permetta, però, di citare e ricordare ora un
intellettuale di enorme rilievo che seppe andare contro queste
“cattive abitudini” e che era capace di spostarsi
di centinaia e migliaia di chilometri solo per bere del vino
con i suoi amici e imparare le cose più importanti
dalla gente più semplice: René Lourau.
René Lourau?
René Lourau era un sociologo francese, professore
presso l’Università di Parigi, morto prematuramente
nel 2000. Mi piacerebbe ricordare che nel maggio del ‘68
René era il giovane assistente di Henri Lefebre e che
sviluppò velocemente una produzione intellettuale propria,
diventando uno dei pilastri dell’analisi istituzionale;
una corrente che annovera esponenti in Brasile, in Argentina
e in Uruguay. René ovviamente visitò questi
paesi e vi coltivò molte amicizie.
Ma mi è venuto immediatamente in mente il suo esempio
perché mi sono ricordato dell’occasione in cui
René tenne una conferenza in un locale della CNT spagnola
un quarto di secolo fa e invitò i presenti a domandarsi
se la stessa disposizione della sala non era anche, inconsciamente,
una concezione del sapere che implicava una distribuzione
asimmetrica della capacità di parlare e di essere ascoltato.
Ma fortunatamente non è l’unico esempio di questo
tipo a cui possiamo fare ricorso, ne abbiamo a disposizione
molti altri. Pensa, per porre un altro caso, a George Brassens
che cantava queste strofe: Je vivais a l’écart
de la place pubblique, serein, contemplatif, ténebreux,
bucolique; un Brassens che visse sulla propria pelle
le conseguenze del successo artistico convenzionale senza
per questo smettere di essere un militante della segreteria
culturale della Federazione Anarchica Francese.
La
celebre frase di Elisée Reclus su uno striscione a
Santiago del Cile
Nel ’36, in Spagna, c’era un anarchico,
di cui non ricordo il nome, che disse che gli anarchici erano
numericamente molto pochi, allora per questo motivo ogni anarchico
doveva moltiplicarsi, valere per due, per tre…
(risa). Che ne pensi?
Beh, non ho presente la citazione e preferisco approfittare
della domanda per riflettere per un momento sul carattere
della militanza libertaria. Malatesta diceva che non metteva
la sua condizione umana a servizio dell’anarchia ma
che era un anarchico perché questo era a servizio della
sua condizione umana. Penso perciò che un militante
anarchico non ha motivo di moltiplicarsi ma deve essere sé
stesso in ogni istante del giorno.
Questa è già di per sé una sfida enorme
senza bisogno di aggiungerci nulla: cercare di essere coerenti
nel nostro lavoro, nel nostro studio, nel nostro quartiere;
con i nostri vicini, i nostri figli, i nostri amori. Ricordando
inoltre che in qualsiasi altra attività che intraprendiamo
dovremmo esserne sempre interamente responsabili, senza accettare
“specializzazioni” sterilizzanti e ancora meno
scissioni tra i “quadri” che decidono e quelli
che semplicemente eseguono. Per concludere il discorso: io
non parlerei pertanto di moltiplicazione, ma della permanente
e interminabile costruzione etica di noi stessi; cosa che
già presa isolatamente mi sembra sufficiente.
Ora ricordo, lo disse Federica Montseny. Il suo ragionamento
è che eravamo pochi rispetto ai nostri avversari, e
quindi avremmo dovuto compiere il lavoro di due anarchici,
moltiplicarci, duplicarci… in fondo credo che avesse
ragione, e questo potrebbe venire applicato anche al giorno
d’oggi. Infine…
Sì, credo che in fondo, sul piano sentimentale, stiamo
dicendo la stessa cosa. Forse l’unica discrepanza è
che preferisco – anche per ragioni estetiche –
essere me stesso, unico ed indivisibile, prima di moltiplicarmi
per due, per tre o quattro. Forse è meglio provare
a dirlo con un’allegoria. Euclide definiva la retta
come una successione infinita di punti in una stessa direzione
mentre Eraclito – la Grecia aveva già fin da
molto presto le sue geometrie alternative – lo faceva
dicendo che la retta non era altro che la scia lasciata da
un punto nella sua traiettoria.
Ammettendo che ognuno di noi è quel punto di Eraclito,
trasformeremo ora le rette in curve, segmenti di curva, semi-curve
o curve a punti e vedremo che questo è un modo in più
di mettere in pratica quello che anticamente si chiamava “propaganda
del fatto”; un qualcosa che, se ben osservato, non dà
cattivi risultati e ci permette di avanzare nel cammino dell’auto-costruzione
etica.
Manifestazione
di lavoratori della Zanon, fabbrica argentina di ceramica
interessata da un processo di autogestione
Attività libertaria
Anche tu sei convinto che questo risveglio dell’anarchismo
in America Latina sia iniziato con Seattle, o altri fattori,
come il “cacerolazo” in Argentina, hanno avuto
anch’essi il loro peso?
Parlare della mobilitazione di Seattle o del sollevamento
argentino del dicembre 2001 vuol dire riferirsi ad avvenimenti
chiave ed emblematici; che, in più, sono facilmente
identificabili per quasi ogni osservatore. Indubbiamente questi
momenti non sono tutto ma bisogna interpretarli come formidabili
condensazioni di tendenze che operano nel sottosuolo della
politica; tendenze di cui bisogna seguire le tracce e decifrarle
fin da prima degli stessi avvenimenti.
La caduta del Muro di Berlino non diede luogo alla sconfitta
del “socialismo reale”, né le mobilitazioni
di Seattle sono la spiegazione ultima della sconfitta del
Consenso di Washington, ma entrambe risultano essere le conseguenze
non migliorabili di tali eventi, e, nell’ultimo caso,
anche il momento di presentazione “ufficiale”
nella società di un movimento di proporzioni planetarie;
un movimento che, insisto, 20 anni prima avrebbe avuto caratteristiche
diverse, quando una densa trama di organizzazioni internazionali
egemonizzate dai Partiti Comunisti pro-sovietici lo avrebbe
indirizzato in un modo totalmente diverso.
Il sollevamento argentino, nel frattempo, è anche una
conseguenza – sicuramente insostituibile nella sua forza
e nella sua capacità di irradiazione, – di tendenze
che vi ci sfociano all’interno e che sono molto lontane
dall’essere scomparse o essere state risolte.
Nello stesso modo, io non credo che il risveglio anarchico
latinoamericano si spieghi esclusivamente con gli avvenimenti
di Seattle o successivamente con quelli dell’Argentina,
ma che risponde, in ultima istanza, a navigazioni sottomarine
e di minore visibilità. Ma non c’è alcun
dubbio che è stato assolutamente possibile interpretare
entrambi gli avvenimenti con una lettura libertaria, e, in
questo modo, ne sono state straordinariamente rafforzate le
tendenze sottostanti.
Io non ho affatto condotto un minuzioso ed analitico approfondimento
in questo argomento e non posso essere esatto nel dato, ma
mi sembra evidente che una buona parte dei gruppi anarchici
latinoamericani dei nostri giorni si sia formati in seguito
alle mobilitazioni di Seattle.
E in Argentina, dove l’influenza anarchica diretta fu
molto scarsa nel dicembre del 2001, si sono formati gruppi
a Bariloche, a Paraná, a Mendoza, a Neuquén,
ecc; luoghi in cui non c’era attività libertaria
organizzata. Perché è successo tutto questo?
Perché il discorso e la pratica di impronta anarchica
offrono spiegazioni e risposte a eventi tali come la crisi
della rappresentazione politico-partitica, le esperienze di
autogestione, le assemblee popolari, ecc. E lo stesso avvenne
in Bolivia dopo l’ottobre del 2003 fino al punto in
cui la pubblicazione alternativa di maggior diffusione nella
ribelle città di El Alto fu per un certo periodo un
modesto giornale anarchico. Questo è il campo di opportunità
di cui parlavo e da noi dipende niente meno che saper approfittarne
o meno.
Che corrente dell’anarchismo consideri oggi
maggiormente sensata? Io vedo soprattutto un enorme spazio
per far crescere l’“anarchismo verde”, come
in effetti sta avvenendo. (risa)
È naturale che l’incorporazione di considerazioni
ecologiche al nucleo del pensiero libertario è oggi
un imperativo importante. Ma indubbiamente credo anche che
questo dovrebbe essere delimitato a livello teorico. Per me
l’ecologia radicale è quella sociale di Murray
Bookchin, o di Taxis Fotopoulos, o di Joan Martínez
Alier, ad esempio, ma sicuramente non la deep ecology che
si porta avanti nei paesi anglosassoni e che ci introduce
in un farraginoso e incontrollabile terreno di imprecisioni
teorico-ideologiche. Secondo la prima corrente acquisiamo,
tra le altre cose, la possibilità intellettuale di
esercitare una critica di fondo del produttivismo alla cieca
mentre la seconda ci porta a un fraterno incontro con una
Brigitte Bardot di ultra destra e al presupposto profondamente
sbagliato secondo cui le balene azzurre sono importanti quanto
il Movimento dei Senza Terra.
Fatte queste precisazioni, ti direi che preferisco definire
l’argomento da un punto di vista diverso.
Se spieghiamo di fronte a noi la cartina geografica dell’attuale
movimento anarchico, potremmo notare piacevolmente che i gruppi
organizzati su una qualsiasi particolare tematica –
medio ambiente, genere, contro-cultura, anti-militarismo,
carceri, ecc… – hanno un peso e una gravitazione
molto maggiori rispetto ad altri periodi storici.
A loro volta, questi gruppi sono reciprocamente indipendenti
fra loro e non sembrano più essere, come nei tempi
passati, “commissioni di lavoro” di organizzazioni
anarcosindacaliste o federazioni specifiche, ma pretendono
di essere di per sé “completi”.
Allora, osservata la situazione dal punto di vista di quel
necessario rinnovamento di cui parlavo bisogna concludere
che i risultati sono ambigui: da un lato questi gruppi sono
veicoli reali di rinnovamento e di attualizzazione ma mettono
anche un limite ai loro traguardi. La rinnovazione teorico-ideologica
e politico-pratica che io intendo come imprescindibile deve
realizzarsi su un livello maggiore di astrazione e per questo
dovremmo essere capaci di abbracciare qualsiasi particolarismo
senza lasciarci colonizzare da nessuno.
Questo rinnovamento deve essere un discorso-pratica appoggiato
su due contenuti che di per sé non hanno nessuna novità:
la ri-creazione di una critica del potere e la ri-creazione
di un’etica della libertà capaci di sovvertire
realmente la rete sociale di cui fanno parte. I particolarismi,
nel frattempo, possono e devono essere ingredienti imprescindibili
del rinnovamento ma nessuno di loro può contare –
né l’anarchismo “verde” né
nessun altro – sulla virtualità di risolverlo
completamente.
Brigitte Bardot? No! (ride) Il problema
è che l’“anarchismo verde” è
poco diffuso, ma vi ci puoi trovare correnti di tipo primitivo,
anti-civilizzazione, indigeno, vegano, fino all’ecologia
sociale. Sinceramente non conosco nessuna di queste correnti
che ho appena citato di fondo anarchico che abbia una certa
relazione con Brigitte Bardot o con l’estrema destra,
o con le ONG; anzi, assolutamente al contrario. Per la verità,
la gran parte di queste correnti sono influenzate dalla pratica
e dal pensiero selvaggio, dai popoli originari. Ma sono d’accordo
quando parli dei particolarismi, non esistono davvero le lotte
parcellari, perché le lotte si completano e si estendono,
qualcuna di più altre di meno, no?
Sì, siamo d’accordo: nemmeno io conosco anarchici
che abbiano condotto qualche lotta in coordinazione con Brigitte
Bardot; ma, proprio per questo, perchè i loro anticorpi
ideologici risiedono nell’anarchismo e non nella deep
ecology. Ho voluto semplicemente riferirmi ad una certa logica
di ragionamento e forse sarebbe meglio chiarire in quali termini.
Penso che bisogna distinguere una teoria incentrata sulle
relazioni con la natura e che finisce, senza dubbio, adottando
inflessioni libertarie da un’altra in cui una ri-definizione
delle relazioni con la natura si pone come conseguenza di
una critica radicale del potere nella società.
Queste differenze di costruzione ideologica danno luogo, non
sempre ma in alcuni casi, a diversi ordini di priorità.
E possono dar luogo anche a pratiche diverse. È per
questo che credo che la formazione ideologica debba porsi
sul livello dell’astrazione proprio nelle relazioni
del potere nella società, tra le persone. Ma, in ogni
modo, questa è una questione teorica altamente complessa
che sicuramente non siamo in condizione di risolvere né
qui né ora.
Inoltre mi piacerebbe fare un’ulteriore precisazione
sul tema del particolarismo nella sua relazione con il rinnovamento
teorico-ideologico e politico-pratico.
Come si deduce dalla sua stessa formulazione, questo rinnovamento
ha due dimensioni che devono camminare insieme ma che devono
anche essere differenziate ad effetti analitici.
In questo senso bisogna dire che esiste un “momento”
teorico il cui livello di astrazione non può essere
coperto da nessun particolarismo; ma c’è anche
un “momento” pratico che può gettare le
radici sono nel locale, nel luogo in cui si vive, nell’immediato,
nella concreta esperienza di lotta di ogni collettivo libertario.
Pensando contrariamente, cadremmo in quell’assurdità
tanto frequente nelle file trotskiste per cui ognuno dei suoi
militanti crede di formare parte del Partito Mondiale della
Rivoluzione ma nessuno sa dove questo Partito si trovi in
concreto. Pertanto, uno dei lavori di creazione che abbiamo
davanti a noi è quello di fondere concretamente entrambi
i livelli.
E la corrente che si sta “esaurendo”
con la velocità del tempo?
Fino ad ora non c’è niente che dimostri che
qualcuna delle molte correnti libertarie si esaurisca completamente.
Osserviamo la mappa di questo risveglio anarchico nel mondo
e in America Latina e vedremo che anche le correnti più
tradizionali – anarcosindacalismo e “piattaformismo”
– negli ultimi tempi sono cresciute. Vediamolo con la
seguente immagine: l’estensione dei suoi servizi e dei
“circoli di qualità” non finì con
le fabbriche né tanto meno la rivoluzione industriale
fece sparire completamente a suo tempo il lavoro rurale ma
tutto questo, con il passare del tempo, assume storicamente
un nuovo significato.
La stessa cosa avviene con le correnti anarchiche tradizionali:
sono poste in un contesto diverso da quello per cui vennero
pensate originariamente, perdono una parte importante della
loro pertinenza, sono prive della mistica esclusivista che
qualche volta pretesero di avere, ecc.; ma non scompaiono,
né tanto meno devono farlo, almeno per il momento.
Perdono piuttosto la loro condizione di paradigma libertario
esclusivo: ossia, non possono concepirsi come modelli sicuri
ed efficaci o come il desideratum ideologico indiscutibile
ma si rafforzano accettando un contesto che le supera ampiamente.
Ma questo si costituisce, inoltre, come una delle chiavi del
suo rinnovamento: la sua chiave organizzativa. Bisognerà
ricorrere ancora una volta alla prospettiva storica per valutarlo.
Tanto l’anarcosindacalismo quanto le specifiche federazioni
– siano esse di radice malatestiana o piattaformiste
– sono il risultato delle loro rispettive esperienze
storiche e non modelli a priori che sarebbe stato possibile
trovare fin dall’inizio dei tempi. Finirono però
per trasformarsi in modelli di organizzazione ed azione che
offrirono, ognuno nella sua circostanza di tempo e luogo,
una certa cornice di certezze.
Il problema è che ormai non possono più svolgere
lo stesso ruolo, proprio perché la nostra circostanza
storica è diversa. Il nostro passato deve essere assunto
come lezione e non come tradizione inviolabile e per questo
ci conviene più deformare che ripetere. Io credo allora
che una delle sfide del rinnovamento consiste nel produrre
– non in una sala di lettura ma nel seno delle lotte
sociali del nostro tempo – il modello di organizzazione
e azione più adeguato alle nostre proprie circostanze.
L’anarcosindacalismo classico e il piattaformismo non
possono più sperare di essere il modello stesso ma
hanno cose importanti da dire in questo complicato processo
di costruzione.
Trama più complessa
È divertente, molti dicono che l’anarcosindacalismo
è sorpassato, ma se prendiamo la CNT spagnola, o la
USI italiana, notiamo che negli ultimi tempi stanno crescendo.
Sono sempre più coinvolte nei conflitti sociali, lavorativi…
E che lo vogliano o no, le organizzazioni anarchiche più
grandi sono anarcosindacaliste.
Sì, questo è assolutamente vero; sicuramente
la maggiore organizzazione di matrice o di intenzione libertaria
attuale è la CGT spagnola, con all’incirca 100.000
iscritti. Ma è proprio lì dove devono essere
analizzati i limiti del paradigma classico e le ragioni per
cui non si può più aspirare ad essere un modello
esclusivo di organizzazione ed azione.
Questo l’ha già individuato chiaramente un gruppo
della CGT e fu per questo che diedero vita alla Rete Libertaria
del Mutuo Appoggio, per disporre di uno spazio di elaborazione
e riflessione che si mantenesse relativamente immune dai condizionamenti
in cui si muove il sindacalismo attuale e, suppongo, essendo
coscienti che questi stessi condizionamenti mettevano sotto
giudizio alcune delle tradizioni più radicate; come,
ad esempio, la concorrenza alle elezioni nei comitati di impresa
sotto la supervisione statale e la non accettazione di funzionari
stipendiati.
Ma, a sua volta, tali cose fanno parte di una trama più
complessa a cui intervengono anche le forme di contrattazione
proprie degli Stati benefattori, i decenni del sindacalismo
limitato e negoziatore, i cambiamenti nella composizione e
nel profilo della classe lavoratrice, o, forse in misura maggiore,
l’alta disoccupazione strutturale generata dai cambiamenti
tecnologici. E, quello che a noi più interessa sottolineare,
è la perdita di centralità culturale del lavoro.
Io insisto che questo non conduce alla sparizione dell’anarcosindacalismo
ed è evidente. Ma ritengo anche che questo non può
più essere considerato l’unico modello da seguire
in qualsiasi luogo e in qualsiasi circostanza concepibile.
In ogni caso, la situazione ci invita ad analizzare caso per
caso: ci saranno circostanze e luoghi in cui l’anarcosindacalismo
continuerà ad essere una pratica opportuna e troverà
condizioni favorevoli al suo sviluppo e ci saranno altre circostanze
e altri luoghi dove la cosa più raccomandabile sarà
cercare modi di azione diversi. Credo che, in questo terreno,
la cosa più importante sia non attenersi ad una regola
fissa e immutabile, mentre invece sarebbe opportuno provare
le forme di organizzazione e di azione più adeguate
ad ogni tipo di situazione. E penso che questo è quanto
stanno facendo in questi ultimi anni i diversi movimenti anarchici
“nazionali” in lungo e in largo di tutto il pianeta.
Sulla CGT esistono delle controversie, ma lasciamo
questo dibattito ad altri. (ride) Oggi, quale
esperienza nell’universo anarchico, o libertario, sottolineeresti?
La Federazione Municipale di Base, a Spezzano Albanese, in
Italia, è un buon esempio di idee e di pratiche? Faresti
qualche particolare esempio in America Latina?
Sì, sono d’accordo con te. Il riferimento alla
CGT è stato fatto solo per esemplificare i condizionamenti
sociali e storici dell’anarcosindacalismo ma passando
attraverso la stessa polemica; una polemica che – spero
– dovrebbe trascendersi per il corso degli avvenimenti
e per le prossime esperienze di lotta. Con lo stesso spirito
ti direi che preferisco non sottolineare nessuna esperienza
in particolare in America Latina. Sicuramente le singole esperienze
sono un apporto e alcune lo saranno state più di altre,
ma sono convinto che la cosa realmente importante oggi sia
lo sviluppo del movimento nel suo insieme.
A volte abbiamo la tendenza a sopravvalutare l’importanza
delle esperienze che si sviluppano con un certo successo ma
tutta la storia ci sta dicendo che sono passeggere o sono
o diventeranno limitate se non si incorporeranno a una corrente
più vasta che le faccia esprimere su un piano più
grande. I nostri maggiori obiettivi costruttivi ottenuti continuano
ad essere la “makhnovcina” e le collettività
libertarie in Catalogna e in Aragona; e non dobbiamo dimenticarci
che contro la prima si schierò la Russia, contro la
seconda la Spagna. Sarà sempre sicuramente preferibile
che ci siano frammenti di libertà piuttosto che non
ce ne siano; ma è migliore un “mondo” di
libertà.
Noam Chomsky è considerato come uno dei principali
intellettuali del mondo, e 13 anni fa quando gli chiesero
quale fosse la responsabilità degli intellettuali rispose:
“dire la verità e rendere pubbliche le menzogne”.
Nel 2004 andò per la prima volta a Cuba, per tenere
una conferenza, e in quell’occasione incontrò
il dittatore Fidel Castro. In quel periodo alcune decine di
cubani dissidenti erano stati incarcerati, altri erano invece
stati sommariamente assassinati. Secondo quanto riporta la
grande stampa la sua conferenza si è mossa solamente
attorno alle critiche e agli attacchi agli Stati Uniti, e
non è stata detta nessuna parola sul regime dittatoriale
cubano.
D’altra parte è normale trovare dichiarazioni
di Chomsky che elogiano il PT (il Partito dei Lavoratori,
oggi al potere) brasiliano, tra le altre idee che ha, a mio
parere, sbagliate. Una volta parlai con un anarchico degli
Stati Uniti, e mi disse che Chomsky era molto contraddittorio,
che appariva solo sui media per fare dichiarazioni sulla politica
americana, internazionale… ma che non aveva mai visto
questo signore in un’assemblea anarchica, ossia, nel
calore di una manifestazione. Sarà poi questo allora
il profilo dell’intellettuale di cui ha bisogno l’anarchismo?
Chomsky è compreso nelle leggi generali che abbiamo
nominato prima a proposito degli intellettuali; ma, nel suo
caso, forse vale la pena realizzare alcune specificazioni.
Cominciamo a dare una cornice al suo lavoro intellettuale.
Chomsky è un linguista di vastissima reputazione e
ha anche realizzato una straordinaria e documentatissima successione
di denunce sulle politiche di governo degli Stati Uniti; e
tutto ciò è di grandissimo merito. Ma –
oltre alla sua concezione secondo cui il linguaggio è
una pratica sociale di libertà; argomento che sfortunatamente
non ha poi sviluppato – Chomsky non è stato un
pensatore libertario originale; e, almeno per quanto io sappia,
non sembra nemmeno che mantenga nessi stabili con il movimento
anarchico nordamericano. Penso che la base della sua attuazione
è la convinzione che nel mondo esiste un solo, unico
ed esclusivo mostro: le agenzie governative degli Stati Uniti;
che mostruose lo sono veramente. Questo è il suo spazio
di coerenza e, stando in questi termini, i suoi interventi
politici sono regolati normalmente da questo principio tipicamente
leninista dell’addensamento di forze di fronte al principale
nemico comune; qualcosa di simile a quanto, in un momento
dato, venne chiamato nelle file libertarie “dottrina
del male minore”. Per questo, le posizioni di Chomsky
distrattamente simpatiche verso i movimenti nazionalisti in
America Latina, Africa ed Asia sono abbastanza sfortunate
se le si pensa dal punto di vista delle politiche che possano
sviluppare i nuclei libertari di ognuno di questi posti; qualcosa
che non sembra interessare troppo a Chomsky o gli interessa
meno di vincolarsi a qualsiasi cosa appaia come vagamente
anti-imperialista. D’altra parte, io scarterei l’ingenuità
come ipotesi ed è troppo probabile che il Chomsky più
anarchico si sappia utilizzato – dal governo cubano
o dal Social Forum Mondiale, ad esempio –, lo accetti
come parte di uno scambio di servizi ed abbia scelto di convivere
con un certo margine di ambiguità e di imprecisione.
In ogni modo, per rispondere alla tua concreta domanda, io
ti direi che non è di questo tipo di intellettuali
di cui ha bisogno il nostro movimento. Per dirlo in termini
simili a quelli già usati quando affrontammo il tema
delle relazioni tra anarchismo ed ecologia, io credo che siano
preferibili gli anarchici intellettuali agli intellettuali
anarchici perché le attitudini si definiscono realmente
a partire da come si concepisce e da dove ognuno costruisce
sé stesso.
Ma questo non è niente di più di un gioco di
parole perché in realtà non si potrebbe parlare
di anarchici intellettuali e non bisognerebbe nemmeno fomentare
la centralità spettacolare di compagni il cui ruolo
esclusivo consiste nel pontificare dai vari pulpiti del sapere.
Questo non implica la promozione dell’anti-intellettualismo
– che io ritengo pericoloso – ma porre innanzi,
davanti agli intellettuali di “professione”, il
lavoro di riflessione e di elaborazione a fondo dall’interno
dei movimenti e delle loro lotte; che fu esattamente il percorso
di Bakunin. Gli intellettuali di “professione”,
nel frattempo, continueranno ad esistere e sarà meglio
poter disporre criticamente della loro informazione sistematizzata,
dei loro metodi e dei loro strumenti e che il movimento sappia
servirsi degli stessi secondo i suoi stessi obiettivi e i
suoi stessi fini.
Mi piacerebbe che tu parlassi del seguente pensiero
di un indios Yaqui: “Un uomo saggio vive agendo e non
pensando a come dovrebbe agire e inoltre pensando meno a quello
che penserà quando l’azione sarà terminata.
Un uomo saggio sceglie il cammino che ha nel cuore e lo segue”.
(Silenzio sepolcrale e poi risa). Sei “crudele”
con me Moésio, ma cercherò lo stesso di risponderti.
La prima cosa che mi viene in mente è che questa frase
può essere compresa solamente all’interno del
rispettivo universo culturale e io sono solo nelle condizioni
di tradurla con i miei codici personali; cosa che già
di per sé implica una deformazione del suo senso originario
e profondo. C’è un detto italiano che lo esprime
meravigliosamente bene: “Traduttore, traditore!”
Ti dirò però che un po’ mi sorprende la
logica binaria che lì si realizza e la scissione tassante
tra il pensare e l’agire; cosa che, curiosamente, è
propria della razionalità che ci è stata fatta
adottare. Fatte queste eccezioni, penso che posso darti due
risposte divergenti.
Da un lato, in una linea di continuità con la logica
che ho seguito in questa intervista, ti direi che non è
possibile agire senza essersi rappresentati mentalmente, anche
se in forma approssimativa ed imperfetta, l’azione e
gli obiettivi verso i quali ci si orienta. E anche se l’azione
adotta la forma di un “riflesso”, questo “riflesso”
è stato pensato e stabilito come risposta ad un passato
impreciso; di modo che il pensiero propriamente detto sembri
limitato a stabilire improvvisamente una relazione di identità
con situazioni simili già vissute. Inoltre, quanto
più complessa è la situazione e maggiore l’esperienza
accumulata, tanto più grande e più complessa
sarà la carica di pensiero impiegata in ogni nuovo
diagramma d’azione.
Ma, in definitiva, è molto difficile stabilire una
netta linea divisoria e il fatto che noi ci pianifichiamo
il tema in questi termini risponde a questa logica binaria
di cui ti parlavo. Probabilmente il nostro stesso e delimitato
discorso prima o poi si estenderà e potremmo dire che
stiamo “pensando-agendo” o “agendo-pensando”;
qualcosa che oggi va oltre alle nostre condizioni di possibilità.
Nel frattempo, ci dobbiamo accontentare di sapere che il solo
fatto di immaginare una società contro il potere rappresenta
la vetta conosciuta delle nostre capacità di distruzione
e creazione.
Ma è anche possibile articolare una risposta diversa,
più vicina alla nostra sensibilità spontanea.
Pensa, ad esempio, alla seguente frase di Rafael Barrett,
una delle mie fonti più costante di ispirazione etica:
“Siamo in cammino, non sappiamo verso che luogo, ma
non possiamo fermarci”. Ed è realmente così.
Esistono queste basi di pensiero secondo cui stabiliamo un
quadro di relazioni tra i mezzi e i fini come razionalizzazione
della pratica; ma c’è anche qualcos’altro.
Noi anarchici sappiamo approssimativamente cosa vogliamo e,
facendo tentativi, quali sono le strade che ci porterebbero
verso questa direzione. Però non abbiamo nessuna certezza
riguardo a un ipotetico “traguardo finale”; sempre
nel caso in cui questo finale esista.
E questo ci dovrebbe paralizzare? Evidentemente no! Perché?
Perché la stessa pratica libertaria è di per
sé un obiettivo e il solo fatto di avere una strada
propria costituisce sia una meta che una vittoria. Ossia:
penso che l’anarchismo e le sue pratiche rispondono
a una loro propria logica e alla loro propria razionalità
ma il principale fondamento libertario non è niente
di più di un’intuizione e di un desiderio, un
assioma e un punto di partenza. Detto in un altro modo: l’anarchismo
è anche enigma, sorpresa, caso, passione, mistero,
slancio e poesia. E forse, in un mondo sorretto dal calcolo
contabile come il padre putativo di ogni sapere, sia questa
l’ultima spiegazione del perché continuiamo ad
essere anarchici e siamo giorno dopo giorno sempre meno soli.
Pensare localmente
La gente interessata come può fare per ricevere
i tuoi opuscoli? Quali sono i titoli che sono usciti fino
ad oggi?
Mi crei in un problema, Moésio, perché sono
“obbligato” a essere coerente con quanto ho appena
detto. (Risa). Io non credo di avere un’opera nel senso
convenzionale del termine e mantengo solo l’abitudine
di ordinare per iscritto le mie idee; idee che non ho mai
considerato concluse né degne di una speciale considerazione.
Sicuramente mi interessa che come idee siano tenute in considerazione
piuttosto che ignorate. Ma la mia più grande aspirazione
è che queste idee si incorporino al movimento stesso
e siano soprattutto momenti di una riflessione collettiva.
Inoltre credo di non aver ancora affrontato i problemi di
maggiore profondità teorica, cosa che mi preoccupa
e considero come un debito verso i miei compagni e verso me
stesso; un debito che, detto un po’ come scusa, non
è solo mio ma del movimento nel suo insieme. Nel frattempo
in tutti questi anni credo di aver solamente sviluppato una
scrittura d’occasione che non sopravvive molto oltre
alle circostanze che la videro nascere. Accettando queste
caratteristiche, puoi ben capire che non ho mai fatto un elenco
dei miei lavori; forse poco più di un centinaio di
articoli pubblicati in diversi luoghi, con diversi nomi e
adottando molte volte una firma collettiva.
Probabilmente la gran parte di questi scritti non ha molta
utilità al giorno d’oggi e io stesso non saprei
come fare per riunirmi con le loro espressioni tangibili.
In ogni caso, e per non essere troppo antipatico nei tuoi
confronti, posso dirti che qualcuno degli articoli più
recenti si può ancora trovare nella pagina web di “El
Libertario” del Venezuela www.nodo50.org/ellibertario.
Ma tutte queste disattenzioni da parte mia non dovrebbero
essere assunte come un modello ma tutto il contrario. Credo
che dovremmo dare priorità all’elaborazione teorica
e dedicarci realmente a produrre idee nuove su questo terreno.
Personalmente la ritengo una necessità, ma fino ad
oggi continuo ad essere un attivista – un po’
malmesso e senza l’agilità di un tempo –
e non ho saputo dedicarle una dedizione totale. E questa carenza
può diventare drammatica in America Latina dove credo
che avanzino le dita di una sola mano per contare i lavori
originali orientati in questa direzione; come, ad esempio,
la Sociología de la dominación di Alfredo
Errandonea (Uruguay) o la Bitácora de la utopía
di Nelson Méndez e Alfredo Vallota (Venezuela).
Penso che dobbiamo elaborare un pensiero specifico sulla regione
in cui ci muoviamo, penso che il rinnovamento teorico-ideologico
è una priorità urgente e penso inoltre che questo
momento di auge non possa durare all’infinito e che
forse non abbiamo ancora molto altro tempo da perdere.
Quali sono, secondo te, i problemi teorici che si
presentano oggi per l’anarchismo?
All’inizio, credo che sia meglio iniziare sfumando
e non realizzando un esercizio di sterile masochismo. Da un
lato, e ancora nonostante una generica situazione di carenza,
il movimento anarchico ha avanzato verso il suo rinnovamento
teorico e potrebbero citarsi alcuni esempi di cui ora non
è possibile abbondare; e dall’altro, bisogna
anche ricordare che la teoria in astratto non è tutto
e che molti dei nostri problemi continuano ad essere affrontati
e risolti con la pratica. Ma continuano ad esserci alcune
lacune, gli sforzi di rinnovamento sono ancora isolati nella
loro sfera intellettuale senza articolarsi organicamente con
le zone di maggior temperatura antagonista e chissà
possa risultare interessante definire un “programma”
di lavoro in tal senso.
Cerchiamo di rivivere, ad esempio, l’atmosfera intellettuale
in cui prende corpo il movimento anarchico originale. Lì
troveremo l’influenza – diretta o indiretta, cosciente
o incosciente, in proporzioni variabili secondo i casi –
del kantismo, del positivismo comptiano, dell’evoluzionismo
e della dialettica hegeliana: un’influenza che si esercita
tanto sulle forme di produrre il pensiero teorico quanto sulle
proprie rappresentazioni della società e del cambiamento
sociale.
Questo è il substrato da cui pensarono Proudhon, Bakunin
e Kropotkin, perché lì risiedevano le epistemologie
proprie della loro epoca e lì rimanevano delimitati
i confini e le possibilità stesse del pensare. In forma
molto approssimativa si può dire che si tratta di un
pensiero “centralista”, arborescente, gerarchico,
binario, ecc…. mentre alcune tendenze del nostro tempo
mirano, al contrario, all’adozione di un’alternativa
“localista”, ramificata, caotica, complessa, ecc….
Infine, non credo che sia possibile approfondire queste cose
in un’intervista e, come mia giustificazione personale,
ti dirò che una buona selezione di testi sul tema è
contenuta in Il pensiero eccentrico, libro realizzato
in Italia, nel 1992, dal gruppo editoriale “Volontà”.
Ma le forme di pensiero condizionano fortemente gli oggetti
del pensiero. Facciamo un esempio privilegiato e domandiamoci
se oggi ci sembrerebbe soddisfacente poter fare affidamento
su di una teoria dello Stato complessa e autosufficiente.
La risposta che io mi do è negativa e che oggi dovremmo
disporre, invece del precedente, di una teoria del potere
che lo concepisse come un non-luogo e come qualcosa che non
si esaurisce in posizioni istituzionalizzate di dominio o
in certi simboli chiave. I parigini abbatterono la colonna
Vendôme nel 1871 e 130 anni dopo gli abitanti di Buenos
Aires hanno bruciato le poltrone del Congresso, ma niente
di tutto ciò produce un’alterazione reale delle
forme di circolazione del potere nella società. La
rivoluzione non può più essere intesa come la
presa del Palazzo d’Inverno, nella sua versione leninista,
ma nemmeno come la sua distruzione o come la sua mitica sostituzione
con un “potere popolare”.
Questi problemi sono di fondamentale importanza ma non sono
gli unici. Siamo carenti anche di una visione più o
meno completa del processo di “globalizzazione”,
di un’attualizzazione ragionevole della vecchia lotta
di classe, di una concettualizzazione in profondità
dei nuovi movimenti sociali, di un modello di organizzazione
e azione adeguato alla nostra epoca e ampiamente accettato,
e di questo passo potremmo andare avanti all’infinito.
Ma, ti ripeto, non voglio lasciare di me un’immagine
pessimista: penso che i problemi teorici sono reali e sarebbe
stato preferibile averli risolti in minima parte o che il
movimento in quanto tale adottasse un “programma”
di lavoro in tal senso. Anche così, capisco che la
stessa pratica ottiene i suoi traguardi, esplora e apre percorsi
inediti. Ci muoviamo secondo una logica di sperimentazione
e di prova capace di produrre e offrire i suoi propri risultati.
Probabilmente questo è sufficiente nell’attuale
momento di ebollizione attraverso cui stiamo passando e, sul
piano personale, mi sta bene il fatto che non mi stia bene
ed aspettarmi qualcosa di più.
Ragionando per assurdo, se tu fossi uno scienziato,
che Frankenstein anarchico creeresti? Quali sarebbero i personaggi
anarchici di questo collage?
La domanda mi coglie di sorpresa e non mi ero mai posto le
cose in questi termini ma accetto comunque la sfida.
Immaginiamoci, allora, che sia possibile combinare Bakunin,
Malatesta e Buenaventura Durruti.
Il nostro Frankenstein anarchico avrebbe, pertanto, quella
intuizione intransigente e selvaggia della libertà,
quella dismisura distruttivo-creatrice, quella capacità
di rompere tutti gli schemi istituzionali pre-concepiti e,
simultaneamente, inventare mondi nuovi dietro a una barricata
che ci avrebbe lasciato Bakunin. Malatesta, nel frattempo,
aggiungerebbe al nostro Frankenstein una sistematizzazione
“realista” e la sua insuperabile perseveranza
nello stabilire dialoghi libertari con le persone più
umili. E Durruti dovrebbe dotarlo di quell’attivismo
nomade che aveva sempre l’intima particolarità
di pensarsi non come un’impresa di isolato eroismo né
come una spinta elitaria ma come parte di un movimento organizzato
che fu sempre all’origine delle sue decisioni.
Ma, inoltre, il Frankenstein del nostro tempo è un
ermafrodita a disposizione della tecnologia disponibile e
dovremmo dotarlo di alcune necessarie qualità femminili
di Louise Michel e di Luce Fabbri. Louise collaborerebbe con
la sua capacità di proiettare il suo essere sovversivo
oltre alle barriere culturali, di modo che se a Frankenstein
toccasse come a lei il carcere nell’esilio della Nuova
Caledonia potrebbe organizzare nuovamente una rivolta degli
indios canacas. E Luce si incaricherebbe di dare a Frankenstein
l’ingrediente della sua serenità, della sua apertura
mentale, della sua tolleranza e della sua vocazione a tendere
rispettosi ponti tra i libertari di ogni colore.
E, dato che stiamo lasciando volare liberamente la nostra
immaginazione, perché non permettere a Frankenstein
di ripercorrere le profondità filosofiche che percorsero
Michel Foucault e Gilles Deleuze, anche se non furono anarchici
nel senso stretto del termine? Perché non dotarlo della
caratteristica vagabonda di Liber Forti e di Víctor
García? Perché non permettere che incorra nell’assurdo
e nell’ironia al vetriolo di Antonin Artaud, di Luis
Buñuel e di Gorge Brassens? Perché non pensare
che Frankenstein non invecchierà mai e avrà
sempre l’età in cui fu assassinato Salvador Puig
Antich? E perché non tante altre cose che ora mi sfuggono?
In definitiva, Moésio, con tutte le loro ricchezze,
le loro diversità, le loro contraddizioni e le loro
incertezze da risolvere.
Stiamo concludendo questa conversazione, e sicuramente
è mancata qualche domanda, ma c’è qualche
domanda che non ti ho fatto a cui tu invece avresti voluto
rispondere? (risa) Grazie di tutto, della
pazienza, della generosità…
Manchi quello che manchi, Moésio, posso assicurarti
che in questa conversazione ho potuto sfogarmi a lungo e su
una grande quantità di argomenti. Inoltre sarebbe poco
elegante da parte mia rimproverarti l’assenza di una
domanda. In ogni modo, mi piacerebbe chiudere dilungandomi
un momento su un’idea di cui non ho parlato molto e
che, per caso, ho utilizzato nella mia prima risposta e nell’ultima:
“tendere dei ponti”.
Abbiamo visto, anche approfonditamente, che il movimento anarchico
sta attraversando un nuovo periodo di risveglio e abbiamo
riscontrato i suoi punti di forza e di debolezza. Tra questi
ultimi mi piacerebbe sottolinearne uno che ritengo essenziale
ed è che il movimento si starebbe rassegnando a vivere
in uno stato di irrimediabile centrifugazione.
Siamo privi, come è già stato detto, di un modello
comune di organizzazione e di azione e questo ha dato luogo
a una forte dispersione quando non a diverbi inspiegabili
e fratricidi. Credo che questo obbedisca alla sovrapposizione
delle correnti e concezioni che non sempre riconoscono la
pertinenza delle altre e per l’occasione trasportano
le differenze teorico-ideologiche e politico-pratiche, erroneamente,
sul terreno delle questioni etiche. Questa situazione non
dovrebbe prolungarsi un minuto di più e dovrebbe essere
sostituita da un clima di rispetto, di riconoscimento e di
reale discussione delle alternative esistenti.
Il momento è pieno di fermento ma porta con sé
anche una buona carica di confusione. Sono ancora molti i
cambiamenti che dobbiamo affrontare e non sembra immediatamente
possibile che ci siano accordi che diano luogo a federazioni
totalmente includenti di livello nazionale. Ma sono immediatamente
possibili sia l’accettazione reciproca degli uni e degli
altri sia l’ammissione che l’attuale diagramma
del movimento è già di per sé l’annuncio
di un qualcosa di nuovo.
Noi anarchici non possiamo essere ostaggio del nostro passato
perché il nostro orientamento basico non può
fare altro che dirigersi verso il futuro. E tendere ponti
verso questo futuro richiede che tendiamo dei ponti prima
di tutto tra di noi e che sviluppiamo la nostra coscienza
e la nostra vocazione al movimento, qui ed ora, recuperando
nel contesto e nella pratica delle reti l’imprescindibile
esercizio della solidarietà.
Infine, Moésio, ti sono infinitamente grato per questa
conversazione e attraverso te invio un fraterno ed enorme
abbraccio libertario a tutti i compagni del Brasile.
Daniel Barret: agencakrat@hotmail.com.