L’anima e il progetto
Un altro delirio (estivo) su Léo Ferré
E ci siamo attardati fino alla tarda estate del terzo anno
(sarà il terzo? Perdo i riferimenti, mi si accavallano
le date) di articoli a cadenza mensile sui cantautori (principalmente)
francofoni per la rivista anarchica…e, a parte uno scritto
d’occasione (la recensione di un libro, peraltro meraviglioso,
a cura di Mauro Macario), non mi sono mai occupato di Léo…
E si che Léo è senz’altro la base, l’origine,
la sintesi di tutto ciò di cui mi occupo su queste pagine…l’alma
matrix verrebbe da dire parafrasandolo.
Ferré il grande, Ferré l’immenso…il
mare in tempesta inaffrontabile, l’uomo che scuote le
coscienze con le parole, con la musica, con la musica delle
parole, coi significati delle sue note.
Immensa senza dubbio, e fuor di metafora, la sua opera: più
di 350 canzoni, libri di poesia, poemi e poemetti di tematica
politica, ideologica, esistenziale, sensuale; un romanzo confessione
che è forse la più lunga delle sue canzoni; opere
sinfoniche, sinfonie, musiche per film, musiche per cantare
le poesie francesi di Baudelaire (3 dischi e vari scampoli a
lui dedicati), di Rimbaud e Verlaine (un disco a testa), di
Apollinaire (un poema musicato in forma di oratorio lirico inciso
ben due volte e tante canzoni), di Luis Aragon, l’unico
contemporaneo affrontato con sistematicità, cosa che
stupisce tanto di più, vista l’ortodossia comunista
di quest’ultimo e il fatto che semmai Léo si fosse
un tempo legato d’amicizia fraterna con Breton, irriducibile
avversario di Aragon; ma le ragioni di Léo e la sua coerenza
saltavano oltre tutti gli steccati possibili di partiti e assembramenti,
per attingere…per attingere…
A cosa?
Ecco, è questo che è veramente difficile spiegare…perché
fin qui, come quasi tutti coloro che ne parlano, ho cercato
di dare contezza della quantità nella qualità,
dello stupore di trovarsi di fronte a tale monumento, eppure
tutto ciò è straordinario ma è ancora niente…altri
artisti hanno lavorato e compiuto una mole di materiali francamente
sovrumani: basti pensare alle circa 800 canzoni (e che canzoni!)
di Theodorakis.
Léo Ferré
Allora come affrontare il nocciolo della questione Ferré?
Come riuscire a trattare l’elemento unificante e che lo
fa unico, al di là della quantità e della qualità
dell’eccezionale stile poetico, musicale e interpretativo?
Come far entrare il lettore, l’ascoltatore occasionale,
l’interessato, i miei compagni nel PROGETTO di Léo?
Sì, perché a rendere Ferré un autore folgorante,
a far saltare tutti gli schemi è il suo progetto, la
sua opera magmatica che è un progetto vivente, vivo ancor
oggi e vivo per sempre (se ha senso questa parola), come l’IDEA
stessa.
È questo progetto che fa dire a Rocco, il bassista che
suona con me, e che è un colto e squisito musicista cresciuto
alla scuola della confutazione di ogni idea pre/post/tardo-romatica,
un artista nato per demolire l’ARTE, e che quindi ha in
sommo sprezzo la parola “genio”, che Léo
Ferré è un genio!
Ora lui potrà negare questa affermazione fatta in un
momento di debolezza, ma io l’ho sentita con queste mie
orecchie…e vi assicuro che c’è di che stupire
anche un budino emotivo come il sottoscritto, in eterna affannosa
ricerca di un’altra meraviglia e abituato, a proposito
di arte e artisti, a dire “sublime” ogni tre parole
e mezzo.
Ebbene, se persino Rocco dà del “genio” a
Ferré, cosa posso fare io? Saltellare? Abbaiare il mio
entusiasmo? Pubblicare un articolo intitolato Léo e far
seguire al titolo solo un immenso campo di punti esclamativi,
tipo:
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
Dubito che l’attenta redazione della nostra rivista, pure
ormai rorida di benevolenza e santa pazienza nei miei confronti,
me lo farebbe passare.
Eppure è lo stupore e la meraviglia a dominare colui
che si approssima e comincia a intravedere, poi scorge, poi
attraversa, senza mai riuscire a dominarla, quest’anima
del paesaggio intero dell’opera ferréiana, questo
progetto di cui si trova qualche impressione d’insieme
in quelle frasi per cui Ferré è diventato uno
degli autori di aforismi e slogan più illuminanti che
conosca: la musique dans la rue (La musica nelle strade),
à l’ecole de la poesie on apprends pas, on
se bat! (alla scuole della poesia non si impara, ci si
batte!), le desordre c’est l’ordre moins le
pouvoirs (il disordine è l’ordine meno il
potere).
Appunto, la musica nelle strade è uno slogan che sintetizza
quella ricerca.
Dunque un percorso da innamorato della grande musica, di Beethoven,
di Ravel (autori su cui peraltro Ferré si esercitò
direttamente in un riuscito disco di direzione orchestrale)
nel tentativo di liberare la loro musica per restituirla alla
rivolta.
Il progetto, durato una vita, di sottrarre alla nobiltà
melomane, che ha racchiuso il potenziale rivoluzionario del
linguaggio della musica alta nei teatri borghesi e nei conservatori,
perché la forma della rivolta sia restituita a chi ha
significati rivoluzionari da praticare. Nella strada, necessariamente.
L’arte di Ferré è stata quella di comporre,
all’origine, canzonette in cui inoculare sterzate brusche
dalla sostanza popolare verso suggestioni classiche.
Poi via via allargare tali suggestioni verso un corpo a corpo
con un linguaggio letterario che anch’esso si originava
dalla filastrocca, mezza canzone della mala mezzo nonsense surrealista,
per vertere al poemetto in versi e musica liberi, all’illuminazione
oltre la forma.
Oppure tutt’il contrario? Forse Léo è colui
che parte dalla canzonetta per allargarne i confini per violentarne
gli esiti verso orizzonti sempre più ambiziosi, diventando
in effetti uno di quegli artisti che possiamo a ragione chiamare
a buon diritto “padri di tutta la canzone d’autore”,
e che per questo le fa assumere un respiro classico in un confronto
serrato coi “classici” della letteratura e della
musica?
O ancora si deve partire da Léo l’anarchico, Léo
che parla, da libertario, di se, di noi e del mondo e tiene
in equilibrio continuo spirito e materia, saggezza e follia
per i suoi dischi in cui si alternano continuamente attacchi
espliciti con nomi e cognomi ben in evidenza ai potenti della
terra e canzoni di ardua comprensibilità ma bellissime
proprio per la loro oscurità di pensiero e abbacinante
chiarezza di sentimento (penso a La memoire et la mer).
Per rendere non contingente (e dunque insuperabile nel tempo)
un discorso eminentemente politico serviva proprio un autore
di tale libertà formale: una libertà che può
esistere solo dove la conoscenza della propria materia, musicale
e letteraria, è già immensa, e che appunto proietti
in uno schermo a permanenza eterna immagini in movimento eppur
solide.
Non se n’esce: Ferré è il trionfo dei contrari,
la coerenza della libertà, la rivoluzione fattasi poesia
e musica e canto. L’origine e la sperimentazione, il modello
di riferimento e l’orizzonte ideale cui tendere.
Non se n’esce: c’è da procurarsi quei quaranta
dischi e ascoltarli religiosamente, arrivare alla fine e ricominciare
perché qualcosa, quasi tutto, è già sfuggito.
Non se n’esce: c’è da farsi sorprendere da
un’unica canzone, magari cantata da una delle decine di
interpreti che si dedicano o si sono dedicati al suo repertorio,
da leggere o sentire per caso una frase sola che illumini…da
vederlo, perché no, in video mentre arringa una folla
in teatro con frasi da poeta che, razionalmente parlando, vogliono
dire ben poco.
Non se n’esce, non con un articolo come questo, non con
un delirio di fine estate…forse, se mi va bene, qualcuno
di voi può entrarci…però vi avverto, poi
sono fatti suoi: non se n’esce.
Alessio Lega
alessio.lega@fastwebnet.it
canzone
d’autore
Per
ricordare un poeta ci vuole un fiore
Per fare tutto ci vuole un fiore
Qualche parola su Sergio Endrigo
Sergio
Endrigo era un uomo di enorme tenerezza. Era candido e
sincero e gentile. Sul palco non era né nevrotico
né piacione.
Forse non era un cantante, a maggior ragione negli ultimi
anni in cui pur conservando il suo bel timbro era stato
tradito dall’intonazione: era un uomo che
canta, cosa ben diversa, cosa ben più
rara.
Quest’uomo che canta arrivava sul palco (coi calzini
bianchi) e non faceva nulla per preservare una leggenda,
sgranava qualche chiacchiera e delle canzoni, quelle sì
leggendarie.
Poi, finito il concerto, cercava di uscire magari sbagliando
il lato del palco e intrappolandosi nei drappeggi del
sipario (giuro che l’ho visto! Umanissimo).
Finalmente libero raggiungeva il suo camerino e il suo
toscano.
Niente di più naturale che andare a chiacchierarci
assieme, per continuare quel dialogo aperto dal palco.
Le star vivono dei riflettori. Gli uomini son fatti per
parlarci. Poi scegliete voi…
Endrigo non era un malinconico, o peggio ancora un cupo,
al contrario era terribilmente ironico, reattivo e anche
piuttosto incazzoso quand’era il caso. Questa cosa,
evidentissima non appena gli si passava affianco, forse
stupirà quei tanti che ancora credono alla favola
del “principe dei malinconici” che chissà
perché gli era rimasta attaccata addosso.
Eppure le sue canzoni d’amore, che effettivamente
sono generalmente malinconiche, anche in tempi in cui
era raro (leggi proibito) anche solo accennarvi, presentavano
dei chiari spunti erotici di vera vitalità (W
Maddalena). Eppure, fra i primi, aveva fatto degli
album di canzoni per bambini, forse le uniche del genere
a essere rimaste saldamente nella memoria collettiva (un
titolo per tutti: Ci vuole un fiore). Eppure,
della sua generazione e al suo grado di popolarità,
è stato forse il primo a cantare di tematiche esplicitamente
politiche (Perché non dormi fratello,
Camminando e cantando, La ballata dell’ex).
Endrigo era uno di quelli che il successo vero l’aveva
conosciuto, la più assoluta popolarità gli
era stata affianco per una decina d’anni. Poi questo
paese che non conosce il rispetto di se stesso lo aveva
emarginato in un ingiusto oblio.
Pazzesco! A maggior ragione perché forse Endrigo
le sue cose più belle le ha fatte proprio in quei
dischi così poco noti che sono Mari del sud
(con una copertina di Hugo Pratt che già da sola
è un capolavoro!), Sarebbe bello, Qualcosa
di meglio, ecc…
Forse la cosa più intensa che si possa dire di
Endrigo l’ha detta il suo collaboratore storico,
quella persona meravigliosa che è Sergio Bardotti:
Endrigo per lui era Don Chisciotte, il galantuomo generoso
che s’imbarcava in ogni operazione, magari all’apparenza
folle e anticommerciale, che gli si proponesse, per gusto,
per stare assieme, per amicizia o per dare una mano a
qualcuno.
Una volta Endrigo durante un intervista televisiva disse
che per parlare davvero ai bambini serviva essere un pazzo
o un poeta e non essendo lui né l’uno né
l’altro aveva chiesto l’aiuto di Vinicius
De Moraes o di Rodari.
Io credo che Endrigo sia stato un folle e un poeta mascherato
da persona tranquilla per troppa dolcezza.
Quanto ai pazzi, quelli saremmo noi se lasciassimo ancora
più a lungo nel dimenticatoio le sue splendide
e indispensabili canzoni.
Alessio Lega |
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