Ho conosciuto Vlady
verso la metà degli anni ottanta. Proprio in questi
giorni, pensando al ventennale del tragico terremoto che colpì
Città del Messico nell’85, mi sono reso conto
che sono ormai trascorsi quasi vent’anni da quei pomeriggi
nella grande casa-studio d’artista dove allora Vlady
viveva, in calle Ferrocarril del Valle 70.
L’anno successivo al devastante temblor, lasciai San
Miguel de Allende dopo una lunga permanenza e mi stabilii
per qualche tempo nel DF per dedicarmi alla ricerca di notizie
su Tina Modotti, seguendo le tracce di un fantasma che mi
portarono a conoscere, una dopo l’altra, persone di
inestimabile valore, di straordinaria coerenza, vite intere
dedicate alla dignità. Una di queste persone fu Vlady,
e ringrazio ancora il “fantasma” di Tina –
comunque la pensasse lei su certi vecchi libertari come lui
– per avermi fatto conoscere così Vlady.
Il fatto singolare fu che, dopo tante telefonate, prima ancora
di poter accedere al prezioso archivio del padre Victor Serge
– lo scrittore, militante rivoluzionario e uno dei massimi
pensatori del XX secolo – il cui vero cognome era appunto
Kibalchich, Vlady cominciai a frequentarlo assiduamente –
almeno agli inizi della nostra amicizia – non nel DF
ma a Managua. Perché allora Vlady aveva ricevuto l’incarico
dal governo sandinista del Nicaragua di affrescare il salone
d’ingresso del Palacio Nacional. Dell’opera di
Vlady muralista conoscevo già gli affreschi della biblioteca
Miguel Lerdo de Tejada, dove mi recavo spesso per consultare
testi sempre per le mie ricerche, e la prima volta che vidi
quelle pareti apocalittiche, magmatiche, dense di una energia
vibrante, non conoscevo ancora Vlady.
Vlady
Kibalchich
La capitale più calda del mondo
Dunque, una mattina ero a Managua, dove mi trovavo assieme
ad altri compagni per coordinare la partecipazione di numerosi
editori italiani alla prima Feria de Libros nel Nicaragua
in guerra, in uno strano clima dove si mescolavano entusiasmo
culturale e angoscia per le frequenti notizie di attentati
sanguinosi, tra le febbrili attività di allestimento
della Feria e file di camion militari carichi di giovani “cachorros”
che partivano per il fronte – un fronte etereo, inafferrabile,
sulle montagne di Matagalpa, Estelí, Jinotega, verso
il labile confine con l’Honduras – e noi ci affannavamo
al caldo della capitale più calda del mondo tra casse
di libri e bambini mutilati che venivano ad aiutarci, chi
senza una mano e chi senza una gamba, arti persi nell’esplosione
delle mine dei contras, insomma, in mezzo a tutto questo,
andai al Palacio Nacional a cercare Vlady, secondo i nostri
accordi presi nel DF.
Il Palacio Nacional si stagliava nella piana che un tempo
era il centro di Managua. Sul lato verso il lago era ancora
in piedi lo spettro della cattedrale, con l’orologio
fermo a quella mezzanotte e venti dell’antivigilia di
Natale del 1972.
Il terremoto – ancora il terremoto – aveva lasciato
intatti soltanto l’Hotel Intercontinental, il grattacielo
della Bank of America e il teatro Rubén Darío
che Somoza fece costruire su perfetta imitazione di un teatro
statunitense.
Sul colonnato vagamente neoclassico del Palacio Nacional campeggiavano
i grandi ritratti di Sandino e Carlos Fonseca, il fondatore
del Frente ucciso solo un anno prima della liberazione, nel
’78. Due volti profondamente diversi: il primo curtido
dal sole, con l’espressione bonaria e un sottile sarcasmo
nello sguardo, il secondo un’armonia di intelligenza
e candore giovanile, gli occhi cerulei persi in un punto al
di sopra di tutto, senza l’ombra di sfida del generale
guerrigliero.
Sull’entrata c’era un anziano sandinista con il
kalashnikov a tracolla; gli chiesi del maestro messicano e
lui sorrise indicandomi qualcosa verso l’alto. Sulla
parete a sinistra c’era un’impalcatura di legno
e bambù alta almeno quindici metri, con una mezza dozzina
di persone sulla cima.
Vlady, con l’immancabile berretto blu e la larga camicia
da lavoro, si affacciò, fece un gesto come per dire
“ma guarda chi è arrivato”, e mi gridò:
“Vieni su”. Poi sorrise, come per volermi rassicurare.
E io mi arrampicai fin lassù, dove Vlady mi accolse
come se fossi un vecchio amico: lui era così, gli bastava
l’istinto per riconoscere i compagni di ideali, di passioni,
di comune sentire e sentieri in comune.
Ritratto
di Volin – Marsiglia 1940
Il cane lupo Pugachov
Avevamo parlato quasi sempre al telefono, e già mi
accoglieva senza considerarmi uno scocciatore che gli faceva
perdere tempo. Nel Palacio Nacional di Managua Vlady dipinse
un mural di grande impatto visivo, secondo il suo stile inconfondibile.
Non l’ho più rivisto, quell’affresco, perché
il Nicaragua preferisco ricordarlo come era in quegli anni
memorabili, prima che dovesse soccombere e arrendersi alle
devastazioni del Dio Mercato, ben più annichilenti
dei terremoti, piccolo paese coraggioso in guerra con l’Impero,
che difendeva la dignità di un intero continente e
infine fu sconfitto, come era ineluttabile.
Vlady lo rividi qualche mese dopo, durante una pausa dei lavori
a Managua, in calle Ferrocarril del Valle, dove il suo cane
lupo Pugachov mi annusava a lungo prima che Vlady gli dicesse
“es un compañero de los nuestros, dejalo entrar”.
E l’abbraccio fugava gli ultimi dubbi di Pugachov, che
a quel punto mi leccava la mano.
Poi parlammo del Nicaragua, e lui manifestava entusiasmo,
diceva che il sandinismo stava realizzando qualcosa di unico
nella storia, e anche se aveva smesso di farsi illusioni –
questo ci teneva a precisarlo – gli sembrava che fosse
una genuina alternativa ai blocchi contrapposti della Guerra
Fredda, una rivoluzione che era riuscita a evitare l’involuzione
autoritaria.
Ricordo che quando presi a frequentare la sua casa ascoltandolo
raccontare mille dettagli e aneddoti sulla vita del padre,
a un certo punto Vlady fece qualcosa che credo abbia fatto
raramente con altri: mi permise non solo di leggere alcuni
scritti inediti di Victor Serge, ma addirittura di andarli
a fotocopiare in un posto a la vuelta de la esquina.
Ricordo che quando stavo per uscire, con il prezioso fascio
di fogli stretti sotto il braccio, Vlady li fissò per
qualche istante, poi, fingendosi serio, disse: “D’accordo,
però che succede se non torni? Facciamo così:
lascia qui i pantaloni come pegno e vai a fare le fotocopie
in mutande, così torni di sicuro”. E ridacchiò,
con quel suo modo discreto e un po’ picaro, sotto i
folti baffi grigi, agitando una mano come a voler dire “scherzavo,
vai e torna presto”.
Ritratto
di Volin – Marsiglia 4 ottobre 1940
Vlady mi offrì ogni sorta di aiuto nelle ricerche
per il mio libro su Tina Modotti e mi mise in contatto con
persone che sono orgoglioso di aver conosciuto proprio grazie
a lui, ma non solo: mi diede modo di comprendere il clima
– lo ripeteva spesso: il difficile è capire il
clima che c’era allora – degli anni della spietata
lotta tra stalinisti e antistalinisti, tra sicari di una dittatura
che avrebbe trasformato il sogno di riscatto in incubo e luchadores
che ponevano la libertà al di sopra di ogni fine, non
disposti a rinunciare ai propri ideali in nome di una perversa
“difesa del baluardo sovietico”...
Vlady mi parlava, mi raccontava, passeggiando per la stanza
con le mani in tasca, e diceva con un tono di voce che diventava
sempre più denso, accalorato ma pacato: “L’unica
cosa importante è cercare di rendere l’idea del
clima in cui tutto avveniva. Si poteva uccidere con estrema
leggerezza un avversario politico, ma allo stesso modo si
poteva montare un’accusa a posteriori.
Vuoi che ti faccia un esempio? Alcuni anni prima che David
Alfaro Siqueiros morisse, ci siamo visti negli studi di una
televisione, per presentare un suo dipinto. Si intitolava
Cristo Guerrillero, e credo che sia finito al Vaticano.
Aveva invitato dei gesuiti, uno di destra e uno della teologia
della liberazione, oltre a vari critici e a me, che rappresentavo
il collega e l’avversario politico al tempo stesso.
Bene, è successo che alla fine ci siamo ritrovati per
qualche minuto da soli, e allora non ho resistito. Tu conosci
la dinamica del primo attentato a Trotzky messo in atto da
Siqueiros, no? Insomma, gli ho detto: adesso che nessuno può
sentirci, vuoi dirmi come hai deciso di sparare a Trotzky?
Con quale criterio hai organizzato l’attentato? E sai
cosa mi ha risposto? ‘Non sapevo neppure chi era realmente’.”
Vlady fece una pausa, mi guardò a lungo, e poi disse:
“Ecco, sei stupito, e io devo aver fatto la tua stessa
faccia. Allora Siqueiros si è avvicinato e mi ha detto
a bassa voce: ‘Cerca di capire quello che ti sto dicendo.
Io ho letto uno scritto di Trotzky per la prima volta quando
ero in carcere, dopo l’arresto per quell’attentato.
Fino ad allora non ne sapevo niente. Uno lavora per il partito,
uno frequenta persone che tutti i giorni parlano di un traditore,
di un nemico della rivoluzione, e così ci si monta
a vicenda, falsando la realtà e i fatti. Un nemico
va ucciso, e quando uno crede in qualcosa comincia a pensare
alla maniera di eliminarlo. Tutto qui’. Ecco, questo
può spiegarti cosa intendo quando parlo di clima.
Si arrivava a uccidere senza sapere con precisione chi fosse
realmente e cosa avesse fatto quella certa persona, solo perché
gli altri lo accusavano di essere un nemico”.
Ricordo che uno dei momenti più intensi di quei lunghi
pomeriggi di conversazioni, fu quando Vlady mi portò
nel suo studio privato, dove si ritirava a scrivere o a prendere
appunti sul suo lavoro, e in silenzio, in un’atmosfera
carica di emozione, prese una cassettina di legno, un cofanetto,
lo aprì, e mi mostrò la maschera mortuaria di
Victor Serge. Lo considerai il segno di una fiducia di cui
sarei sempre andato fiero.
Schizzo
di Rue du Petit St. Jean – Marsiglia 1940
Un uomo degno
Vlady lo ricorderò sempre come l’ho sempre visto:
il sorriso picaro, gli occhi scintillanti, alto ed energico,
un po’ Don Chisciotte e un po’ soldato dell’Armata
a Cavallo di Babel, la voce tranquilla, pacata, e al tempo
stesso piena di forza, e il berretto da marinaio del Baltico
e la camicia di seta alla russa, quasi fosse la sua maniera
per prolungare la memoria di un sovietismo perduto, il sovietismo
di Kronstadt, il sovietismo del padre Victor, che era fedele
all’ideale del soviet nel senso di governo dei consigli,
cioè assembleare, l’ideale di una rivoluzione
libertaria tradita dai bramosi di potere personale, e anche
nel suo modo di vestire Vlady manifestava la devozione alla
memoria di un padre che dalla Storia non ha ricevuto il rispetto
e il valore che merita, un uomo che alla Storia ha dato molto
ricevendo troppo poco. E so che quando tornerò nella
biblioteca Miguel Lerdo de Tejada, a cercare qualche altro
vecchio libro per qualche altra ricerca, guardando i suoi
murales risentirò echeggiare la risata divertita di
Vlady che mi invita a salire sull’impalcatura, rivedrò
gli occhi chiari di Vlady che mi fissano per capire se sono
stato in grado di comprendere il clima, e sentirò
che Vlady resterà per sempre parte viva di questo nostro
amato Messico, dove Vlady ha lasciato una memoria concreta,
indelebile, imperitura. La memoria di un grande artista, ma
soprattutto la memoria di un uomo degno.