Oggi avrebbe 77 anni:
era nato nel popolare quartiere di Porta Ticinese nel 1928.
Sarebbe di sicuro un nonno super-affettuoso: le sue adorate
bambine sono, da anni, madri. Ma la storia, si sa, non si
può mai scrivere al condizionale.
Eppure io ho l’intima convinzione – indimostrabile,
certo – che se fosse ancora qui, sarebbe ancora “nel
giro”. Sarebbe ancora attivo nel nostro movimento: a
fare che cosa, non importa. Trentasei anni sono tanti, e in
questi 36 anni quanta gente che pure è stata attiva
ed entusiasta, o almeno lo pareva – è scomparsa
alla fine nel nulla, si è svaccata, sistemata, allontanata.
Quante cose sono successe, quante speranze sono appassite,
quante facce sono comparse e scomparse in questi 36 anni!
Ma chi ha conosciuto Pino difficilmente potrebbe immaginarselo
diverso da quello che era negli ultimi anni della sua vita
– in quegli anni ’60 che, ancor prima del ’68,
avevano visto una progressiva crescita del movimento anarchico
a Milano. Niente di travolgente, d’accordo. Eppure,
accanto ai compagni vecchi e di mezza età – molti
dei quali passati attraverso l’esperienza della Resistenza
e poi ritrovatisi intorno al giornale “Il Libertario”
ed al suo redattore Mario Mantovani – si era affacciata
una manciata di giovani, con i quali Pino – di almeno
un decennio più vecchio di loro – aveva subito
legato.
Lui che, finite le elementari, aveva dovuto andare a lavorare,
prima come garzone, poi come magazziniere, aveva però
colmato le lacune della mancata istruzione scolastica con
la lettura di centinaia e centinaia di libri, ammirevole esempio
di autodidatta.
E poi, nel ’44/’45, men che diciottenne, aveva
partecipato alla Resistenza come staffetta partigiana, in
uno dei vari raggruppamenti anarchici che operarono efficacemente
dentro e intorno alla metropoli lombarda.
Poi la Liberazione, l’entusiasmo per la ritrovata libertà,
il rapido gonfiarsi delle fila libertarie con l’afflusso
di tanti giovani. Tempo qualche anno e l’euforia del
dopoguerra è solo un ricordo: il riflusso dell’ondata
rivoluzionaria postbellica “sgonfia” il movimento
anarchico. Pino è tra i non molti giovani a rimanere,
convinto ed attivo.
Nel ’54, vinto un concorso, entra nelle Ferrovie come
manovratore. L’anno successivo si sposa con Licia Rognini,
incontrata ad un corso di esperanto.
Giuseppe
Pinelli nel 1968
Il circolo, la sua seconda casa
Nel ’63 si unisce ai giovani anarchici della Gioventù
Libertaria, due anni dopo è tra i fondatori del circolo
“Sacco e Vanzetti” – finalmente una sede
anarchica, dopo che per un decennio i compagni erano “costretti”
a chiedere ospitalità ai repubblicani o ad altri. Nel
’68, dopo che lo sfratto costringe alla chiusura il
“Sacco e Vanzetti”, il 1° maggio (pochi giorni
prima che scoppi… il Maggio) si inaugura un nuovo circolo,
in piazzale Lugano 31, a pochi metri dal ponte della Ghisolfa.
Il clima sociale è surriscaldato e tale rimarrà
anche per tutto l’anno successivo. Al circolo si succedono
cicli di conferenze, riunioni di studenti, assemblee. Vi si
riuniscono alcuni dei primi comitati unitari di base, i “mitici”
CUB che segnarono la prima ondata, in quegli anni, di sindacalismo
di azione diretta, al di fuori delle organizzazioni sindacali
ufficiali. Pino è tra i promotori della (ri)costituzione
della sezione dell’Unione Sindacale Italiana (USI) l’organizzazione
di ispirazione sindacalista-rivoluzionaria e libertaria.
Il circolo diventa per Pino la sua seconda casa (a volte la
prima, si lamenta Licia, che lo vede sempre meno). È
lui a promuovere l’organizzazione della biblioteca (e
poi, dopo tante arrabbiature, a mettere i lucchetti agli armadi
per farla finita con la “scomparsa” dei libri
– tutti con la loro copertina nera, tutti schedati ed
ordinati). Alla domenica mattina quando nel circolo si ritrovano
i “vecchi” (e qualcuno lo era davvero: 90 anni,
ed anche di più), Pino c’era quasi sempre: lui
che era il più vecchio – con Cesare – tra
i giovani, ma certamente un giovane tra quei vecchi spesso
attivi prima del fascismo, prima cioè che lui fosse
nato.
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Ma questa volta era diverso
Negli ultimi mesi della sua vita, poi, Pino è particolarmente
coinvolto dalle attività connesse con gli arresti dei
vari anarchici accusati delle bombe esplose il 25 aprile ’69
a Milano, alla Stazione Centrale ed alla Fiera Campionaria.
Ai compagni detenuti a San Vittore (saranno poi assolti nel
giugno ’71, dopo aver trascorso – alcuni di loro
– 26 mesi di carcere) Pinelli assicura l’invio
di soldi raccolti tra compagni ed amici, fa arrivare pacchi
di cibo, vestiario e libri che lui stesso porta alla portineria
del carcere. Nell’ambito della appena costituita Crocenera
Anarchica, si impegna nella costruzione di una rete di solidarietà
e di controinformazione, che possa servire anche in altri
casi simili.
Quando, verso le 7 di sera del 12 dicembre, Calabresi e gli
altri dell’ufficio politico piombano nella seconda sede
anarchica milanese – in fondo al secondo cortile di
via Scaldasole 5, nel cuore del quartiere Ticinese –
Pinelli è appena arrivato per lavorare un po’,
con un altro compagno, alla sistemazione dei locali, in vista
della prossima inaugurazione.
Pinelli viene invitato a seguire i poliziotti in questura,
anzi a precederli sul suo motorino. C’era già
stato tante volte, in via Fatebenefratelli: conosceva bene
le regole del gioco, interrogatori, lusinghe e minacce, richieste
di nomi, indirizzi, informazioni. Ma questa volta era diverso.
Tre giorni dopo, il corpo di Pino veniva scaraventato giù
dalla finestra di una stanza dell’ufficio politico,
al quarto piano della questura. Era la fine di una vita, l’inizio
di una tragica farsa politico-giudiziaria. Alla fine della
quale, lo Stato è uscito con l’immagine a pezzi.
Pino, invece, no.