Trentatré
anni fa il dott. Luigi Calabresi, commissario della squadra
politica della questura di Milano, veniva avvicinato da alcune
persone che dichiararono in seguito di averlo fatto nell’intento
di “scambiare quattro chiacchiere come si usa tra amici”.
Alle contestazioni mossegli da costoro, circa le sue palesi
responsabilità nell’assassinio dell’anarchico
Giuseppe Pinelli, il commissario negò decisamente ogni
addebito. Ma quando, per tendergli un trabocchetto, gli fu
detto: “Calabresi confessa, che il tuo amico Allegra
ha parlato”, il commissario, dopo essersi sbiancato
in volto, mormorò: “È la fine della polizia
di stato”, poi con mossa felina (il gesto fu talmente
repentino che nessuno riuscì a fermarlo. Solo uno dei
presenti riuscì a togliergli la terza delle due pistole
che aveva con sé) afferrava una pistola e si sparava
un colpo in testa.
Una rapida inchiesta archiviò subito il caso come morte
accidentale (non volendo usare il termine suicidio che risultava
essere un tantino forte), ma le patriottiche coscienze non
potevano accettare una simile tesi e l’inchiesta fu
così riaperta, dimostrando che non di morte accidentale
(o suicidio) si era trattato, bensì di malore attivo:
infatti il Calabresi alla notizia della confessione di Allegra
sarebbe dapprima impallidito, poi, colto da malore attivo
(malore che invece di provocare un accasciamento nel colpito,
provoca in lui un raptus attivo) afferrò, senza rendersene
conto, la pistola d’ordinanza e, sempre inconsciamente,
si sparò il famoso colpo alla testa.
Il
commissario Luigi Calabresi durante un’udienza del processo
che lo vide contrapposto a Pio Baldelli,
direttore del giornale
“Lotta Continua”
Sotto le finestre della questura
Questa ricostruzione dei fatti è ovviamente fantasiosa
e non risponde certo alla realtà dei fatti, come fantasiose
e non rispondenti alla realtà dei fatti furono le varie
versioni sul “volo” di Pinelli date dalla questura
e le due inchieste che ne archiviarono la morte, prima come
“morte accidentale” (??!!) e poi come “malore
attivo”.
Come non ci convinse allora la tesi del suicidio (troppo spudorate
furono le menzogne della questura e di quella magistratura
che queste menzogne aveva fatte sue), non ci convincerà
in seguito, ne ci convince tuttora, la ridicola tesi del malore
attivo, tesi partorita nel clima politico di “compromesso
storico” (l’inchiesta fu chiusa nel 1975) che
sempre più si stava facendo strada, tra le forze politiche
istituzionali, nella seconda metà degli anni ’70.
Pinelli cadde a piombo sotto le finestre della questura. Un
malore attivo lo avrebbe dovuto portare (lui alto 1,67) ad
oltrepassare con un balzo il davanzale di una finestra che
(con l’aggiunta di una piccola ringhiera) misurava ben
94 cm. Salto abbastanza difficile da attuare se si pensa che
avrebbe dovuto compierlo da fermo, stando vicino al davanzale
e senza prendere nessun tipo di rincorsa. In più il
corpo in caduta avrebbe dovuto descrivere una parabola, che
avrebbe allontanato il suo corpo di qualche metro dal muro
dell’edificio, e non cadere a piombo come un oggetto
inerte. Un’altra cosa: in quale paese “democratico”
si è mai visto un inquisito che, durante l’interrogatorio,
viene lasciato libero di avvicinarsi ad una finestra aperta,
senza che venga presa la benché minima precauzione
onde evitare tentativi di suicidio derivanti dalla durezza
dell’interrogatorio?
Milano,
via Fatebenefratelli, Questura: La freccia indica la finestra
su un cortile interno dalla quale è “volato”
Giuseppe Pinelli
Vasta montatura
Calabresi, che oggi la stampa ha rivestito degli “abiti
nuovi” di poliziotto democratico che fa il suo dovere
per il bene della collettività, fu tra gli artefici,
insieme al giudice Antonio Amati, all’allora questore
di Milano Marcello Guida, al capo dell’ufficio politico
della questura Antonino Allegra, al giudice Ernesto Cudillo,
al pubblico ministero Vittorio Occorsio, al giornalista del
“Corrierone” Giorgio Zicari e ad altri meno noti
ma ben più pericolosi, di una vasta montatura tendente
a screditare i movimenti di emancipazione e della “nuova
sinistra”, nel tentativo di giustificare una involuzione
autoritaria del sistema. Montatura che ebbe le sue punte massime
nell’addossare, contro ogni evidenza e ragionevolezza,
la responsabilità delle bombe del 25 aprile (Fiera
Campionaria e Stazione Centrale), dell’8 e 9 agosto
(attentati a vari treni) e la strage di stato del
12 dicembre 1969 agli anarchici.
Calabresi fu forse una figura di secondo piano all’interno
di questo vasto disegno reazionario, cionondimeno il suo nome
sarà di gran lunga il più tristemente famoso
di tutti e resterà per sempre e indissolubilmente legato
alla morte di Giuseppe Pinelli. Sarà sempre ricordato,
nella coscienza di molti che quei momenti hanno vissuto, come
uno dei responsabili (assieme ai poliziotti e carabinieri
presenti in quella stanza della questura: Panessa, Mucilli,
Mainardi, Caracuta, il tenente Lo Grano, …) della morte
dell’anarchico.
La
vignetta ricostruisce il “lacunoso” riconoscimento
di Valpreda da parte del tassista Rolandi.
L’unico a
non appartenere alle forze di polizia è l’anarchico
al centro
Ma cerchiamo ora, con l’aiuto di alcuni brani di scritti
contemporanei alle gesta del nostro eroe, di ridefinire il
più nettamente possibile, anche se per sommi capi,
un “profilo” che la stampa, a seguito della riapertura
delle indagini sulla sua morte, ha contribuito a rendere oltremodo
sfumato.
Nel ’69 viene trasferito a Milano giusto in tempo per
occuparsi a modo suo delle bombe del 25 aprile. In
tandem con il giudice Amati indirizza subito, e a senso unico,
le indagini verso gli ambienti anarchici e dopo aver fatto
passare molti anarchici al setaccio ne tratterrà alcuni
come colpevoli dei due attentati (Braschi, Faccioli, Vincileoni
e Corradini, ai quali si uniranno più tardi Pulsinelli,
Della Savia, Norscia e Mazzanti).
È curioso notare il metodo, da lui usato nel condurre
le indagini e che lo portano spesso a valicare i limiti del
suo specifico ruolo di semplice commissario aggiunto della
squadra politica.
Difatti (…). È lui che, sostituendosi ai
magistrati, va in carcere a far fare perizie calligrafiche
ai detenuti ed estrae il Braschi da San Vittore per fargli
riconoscere ad ogni costo la cava fatale (1):
è lui che notifica i mandati di cattura rabbiosamente
emessi da Amati dopo l’ordinanza della Corte d’Appello
(2). È lui che insieme
ai suoi tre fedelissimi percuote e minaccia Faccioli negli
interrogatori, è lui che, secondo le deposizioni e
le lettere degli anarchici, non lascia dormire il Faccioli
per tre giorni e tre notti e con un pretesto lo porta fuori
Milano in macchina per farlo scendere ed ordinargli di correre
avanti, mentre lui vien dietro a fari spenti (“Possiamo
romperti le ossa come niente, e poi dire che è stato
un incidente…”); è lui che, sempre secondo
le deposizioni degli imputati, picchia Braschi minacciando
di imprigionare sua madre e di infilargli della droga in tasca;
è in questo periodo che lo chiamano “il comm.
Finestra”; è sempre Calabresi che mette la sua
firma alla deposizione della Zublena “dimenticandosi”
di farla firmare a lei: la deposizione riguarda le responsabilità
dinamitarde degli imputati Corradini che in dibattimento la
Zublena dichiarava di non conoscere. (…) (3).
Il movimento anarchico cerca intanto di reagire a questa montatura
che non fa presagire nulla di buono. Cominciano le stesure
dei comunicati inviati alla stampa e da essa sistematicamente
ignorati, la stesura di documenti di analisi sulla situazione,
le conferenze, i sit-in davanti a San Vittore e al Palazzo
di Giustizia in solidarietà con gli anarchici arrestati,
gli scioperi della fame, le manifestazioni, ecc.
Ma se gli anarchici si muovono nemmeno Calabresi e i suoi
accoliti stanno fermi. Con ferocia aggrediscono a sberloni
gli anarchici che stazionano davanti al Palazzo di Giustizia
e distruggono diverso materiale di controinformazione. In
quest’opera di repressione sembra che uno dei più
attivi sia stato appunto Calabresi.
Il livore antianarchico di Calabresi è talmente palese
che durante una manifestazione del settembre, arriverà
persino, dopo averlo preso in disparte, a minacciare rabbiosamente
Giuseppe Pinelli: (…) a un certo punto a Pinelli si
era avvicinato Calabresi chiedendogli di sciogliere la manifestazione.
Non poteva scioglierla, dato che non era stato lui ad organizzarla,
aveva risposto il Pinelli; in più i manifestanti avevano
la sua solidarietà. “Pinelli, stai attento”
aveva ribattuto Calabresi, “ché alla prossima
occasione te la faccio pagare” (…) (4).
Difatti nella notte tra il 15 e il 16 dicembre…
Milano,
via Fatebenefratelli, Questura: Due momenti della ricostruzione
dell’episodio con il famoso manichino
Oltre
il normale fermo di legge
12 dicembre ’69: scoppia una bomba in piazza Fontana
ed è strage. Calabresi intervenuto subito dichiarerà
ai giornalisti presenti che per lui la strage è opera
degli anarchici.
In giornata vengono fermati 588 anarchici e militanti della
sinistra extraparlamentare e 12 fascisti (che saranno rilasciati
subito dopo). Il fermo dei fascisti è solo per fare
un po’ di polverone, per far vedere che si indaga in
ogni direzione senza alcuna prevenzione, ma la coppia Amati-Calabresi
ha già in mente su chi scaricare le responsabilità
di questa feroce carneficina.
Tra coloro che vengono fermati vi è anche Giuseppe
Pinelli, il quale sarà trattenuto oltre il normale
fermo di legge, senza che la magistratura venga informata
di questo prolungamento del fermo, diventando a tutti gli
effetti (se visto in un’ottica di formalità legale)
un vero e proprio sequestro di persona degno dei più
biechi stati di polizia che, negli anni ’60/’70,
costellavano il continente sudamericano e non solo. Pinelli
entrò in questura il pomeriggio del 12 dicembre e ne
uscì (passando per la finestra) a mezzanotte circa
del 15 e in questi tre giorni fu sottoposto a pesanti interrogatori
nei quali non mancarono, sicuramente, pestaggi, minacce e
violenze morali.
(…) Verso sera un funzionario si è arrabbiato
perché parlavo con gli altri e mi ha fatto mettere
nella segreteria che è adiacente all’ufficio
del Pagnozzi: ho avuto occasione di cogliere alcuni brani
degli ordini che Pagnozzi lanciava ai suoi inferiori per la
notte. Dai brani colti posso affermare che ha detto di riservare
al Pinelli un trattamento speciale, di non farlo dormire e
di tenerlo sotto pressione tutta la notte. Di notte Pinelli
è stato portato in un’altra stanza e la mattina
mi ha detto di essere molto stanco, che non lo avevano fatto
dormire e che continuavano a ripetergli che il suo alibi era
falso. Mi è parso molto amareggiato. (…). Io
gli ho detto: “Pino perché ce l’hanno con
noi?” e lui molto amareggiato mi ha detto: “Sì,
ce l’hanno con me”. (…). Verso le otto è
stato portato via e quando ho chiesto ad una guardia dove
fosse mi ha risposto che era andato a casa. (…).
Dopo un po’, verso le 11,30, ho sentito dei rumori sospetti
come di una rissa e ho pensato che Pinelli fosse ancora lì
e che lo stessero picchiando. Dopo un po’ di tempo c’è
stato il cambio di guardia, cioè la sostituzione del
piantone di turno fino a mezzanotte. Poco dopo ho sentito
come delle sedie smosse ed ho visto gente che correva nel
corridoio verso l’uscita, gridando “si è
gettato”. Alle mie domande hanno risposto che si era
gettato il Pinelli: mi hanno anche detto che hanno cercato
di trattenerlo ma non vi sono riusciti. Calabresi mi ha detto
che stavano parlando scherzosamente del Pietro Valpreda, facendomi
chiaramente capire che era nella stanza nel momento in cui
Pinelli cascò. Inoltre mi hanno detto che Pinelli era
un delinquente, aveva le mani in pasta dappertutto e sapeva
molte cose degli attentati del 25 aprile. Queste cose mi sono
state dette da Panessa e Calabresi mentre altri poliziotti
mi tenevano fermo su una sedia pochi minuti dopo il fatto
di Pinelli (…) (5).
Copertina
del libro curato dalla Crocenera edito da La Fiaccola
L’arresto degli ex militanti di Lotta Continua (Sofri,
Pietrostefani e Bompressi) fa pensare che sia in atto qualcosa
di più della semplice ricerca della verità sulla
morte di Calabresi, fa pensare che qualcuno intenda cancellare
e riscrivere la storia di un periodo, che culturalmente e
politicamente ha significato molto per l’acquisizione
di sempre più ampi spazi di libertà, riconducendolo
ad un semplice scontro violento e militare tra lo stato e
i suoi antagonisti, dove questi ultimi rappresentavano le
forze disgregatrici della “democrazia”. Parola
sempre pronta ad uscire fuori, e molto spesso a sproposito,
come il classico coniglio dal cilindro del prestigiatore.
Non solo. Nel frattempo si tenta di “riabilitare”,
di fronte a chi ha la memoria corta e non possiede memoria
storica, un personaggio che non potrà mai essere riabilitato.
Non vorremmo passare per gente che si è costruita la
sua bella “verità” preconcetta, ma pensiamo
che la verità sulla fine di Pinelli sia ancora presente
sui muri, e che basterebbe scrostare qualche strato di vernice
per trovarvi scritto sotto a caratteri cubitali: Pinelli
è stato assassinato!