Il paese di Vanna Marchi. È questa l'immagine dell'Italia che emerge dalle recenti elezioni politiche. Non sono rintracciabili nelle scelte degli elettori né un disegno politico né una valutazione riconoscibile dell'operato del governo passato in relazione alle molte emergenze che pressano all'interno e all'esterno dei nostri confini. Negli ultimi giorni della campagna elettorale sia lo schieramento di destra che quello di sinistra si sono continuamente scavalcati sugli sgravi fiscali, sulla riduzione dell'IVA e sulle sovvenzioni da elargire ai più bisognosi, alle famiglie numerose, ai pensionati, senza minimamente curarsi di rendere credibili le proposte con le risorse effettive della finanza pubblica, la cui reale situazione è tutta ancora da scoprire, taroccata come è stata da voci di bilancio virtuali e inattendibili emergenti dalle ultime finanziarie. Non sappiamo ancora se abbiamo gli occhi per piangere e ipotizziamo di acquistare occhiali costosi. Promesse come quelle ripetutamente fatte di un recupero dell'evasione fiscale per finanziare emergenze reali ed improcrastinabili, quali quelle ineludibili per far ripartire la produzione della ricchezza e agganciarla alla ripresa dell'economia europea, sono promesse destituite di qualsiasi fondamento, in primo luogo perché, ammesso che si voglia procedere in questa direzione, occorrerebbero tempi lunghi e impieghi di risorse per potenziare e rendere efficiente il sistema di controllo e di recupero, sui quali abilmente si sorvola. Le aree dell'evasione sono così vaste in tutta la penisola che, per ottenere risultati significativi, occorrerebbe ripartire da molto lontano, dalla razionalizzazione del sistema normativo, un sistema che attualmente consente un'infinità di scappatoie all'evasore, totale o parziale che sia, il quale è certo di poter contare sull'ultimo condono per sanare la sua lunga pratica di renitente all'obbligo fiscale.
Una ripresa produttiva potrebbe veramente trasformarsi in ricchezza nazionale qualora tutte le aree regionali ne fossero investite e ne cogliessero le opportunità. Basta soffermarsi per un attimo sulla diversità e distanza delle condizioni di partenza delle varie regioni per rendersi conto che ci si troverà a governare una realtà economico-sociale estremamente variegata, con territori dotati, alcuni, di infrastrutture adeguate, altri assolutamente carenti, altri ancora che, alla mancanza di infrastrutture anche minime, aggiungono il fatto di essere sotto il dominio di potentissime organizzazioni malavitose che riducono i governi locali, quando addirittura non organici ad esse, a pure facciate di un governo del territorio del tutto fittizio.
A mio modo di vedere, anche a voler prescindere (e non si può) dalla naturale diffidenza di noi anarchici verso qualsiasi forma di governo democratico o meno che sia, c'è nella classe politica italiana un cinismo, una carenza assoluta di valori morali, che rende improponibile qualsiasi prospettiva di rinnovamento, anche parziale, del declinare la politica. E, a supporto di questi squallidi dilettanti che riempiono gli scanni del parlamento, alimentano le burocrazie dei partiti, occupano del tutto indegnamente posti di enorme responsabilità nelle istituzioni patrie, alle spalle di questi figuri che hanno paludato e tuttavia paludano le mura delle nostre città con enormi cartelloni che ne riproducono gli sguardi vacui e il sorriso ebete di chi tenta la scommessa della sua vita, un terno al lotto sulla ruota di un paese infelice e mortificato, dietro a tutta questa schiera di scommettitori, c'è un popolo che non ama le regole, che è insensibile a qualunque richiamo ad una morale credibile e condivisa, che ama gli imbonitori e l'azzardo della roulette, fidando sulla sorte che, prima o poi, può mostrarsi benigna.
Messaggi ambigui
e indegna gazzarra
Di questo scenario deprimente è stato testimonianza illuminante il tour de force che ha portato all'elezione del presidente del Senato. In quei due giorni di fine aprile si è visto di tutto: dai messaggi ambigui e ricattatori che circolavano nello schieramento di centrosinistra, all'indegna gazzarra orchestrata dalla destra contro Luigi Scalfaro, chiamato ad oltre ottant'anni a regolare un'accolita di scalmanati, nelle cui fila militavano e militano gli eredi di quegli assassini che avviavano vecchi, donne e bambini, senza alcuna pietà umana, nelle camere a gas. In quella paludata sede di Palazzo Madama, a mio giudizio, si è consumata la tragedia di una classe politica cinica e senza alcun ritegno morale. Non c'è quindi da chiedersi se Prodi, ammesso che sia in grado di farlo, governerà meglio di Berlusconi: c'è solo da domandarsi come si possa mandare a casa per indegnità tutta questa gente che ammorba l'Italia. Ed è questo un interrogativo dal quale non possiamo chiamarci fuori e che, attualmente, purtroppo, è al di là del livello di analisi e di prassi politica dell'intero movimento libertario.
Dobbiamo ammettere con chiarezza che ci siamo arenati in una spiaggia solitaria che non favorisce il dibattito sugli architravi di una impostazione teorica, prima ancora che pratica, che consenta di affrontare con coerenza i grandi mali che affliggono, non solo il sistema Italia, ma l'intera comunità umana del XXI secolo. So che quello che mi appresto a fare è un discorso difficile, per molti versi annichilente, che susciterà polemiche e contestazioni (magari così fosse!), ma più a lungo ci sottrarremo al condurlo con chiarezza ed entro i limiti delle idee-guida della nostra visione del mondo, più ridotte saranno le nostre capacità di sopravvivere in un mondo che macina in fretta esperienze e risorse intellettuali ed umane. Indicherò soltanto due di questi snodi ineludibili attraversando i quali dovremo compiere le nostre scelte di senso e la pratica quotidiana di lotta politica.
Il primo snodo è quello della scelta del soggetto storico che dobbiamo impegnarci a individuare e a contribuire a far crescere, perché senza peculiare, accurata radiografia delle forze che si oppongono al modello di sviluppo avviato e condotto dal capitalismo, non troveremo mai le strutture muscolari in virtù delle quali veicolare le nostre idee. Il referente del pensiero illuministico fu la borghesia francese del Settecento, così come il proletariato urbano lo fu delle teorie socialiste dell'Ottocento. Nel Novecento né l'immaginazione marcusiana né la fantasia al potere degli studenti d'oltralpe contribuirono ad alimentare e a razionalizzare in Europa la rivolta dei figli contro il mondo dei padri, e la fiammata si spense molto prima che i figli di allora diventassero a loro volta padri e ripercorressero, nella sostanza, le vie dei genitori.
Rispondere che i nostri referenti naturali sono gli sfruttati, significa accontentarsi per quieto vivere di una soluzione consolatoria troppo generica e, di fatto, senza alcun significato politico concreto. L'esasperazione della competizione nel mondo del capitalismo maturo ha trasferito lo sfruttamento dal conflitto di classe al rapporto quotidiano tra gli uomini, qualunque fosse la loro estrazione sociale. Paradossalmente oggi il lavoro precario e non garantito è praticato di meno nella grande industria che dal macellaio dell'angolo della strada, dal piccolo negoziante d'abbigliamento e dalla piccola impresa a conduzione familiare.
In un contesto di rarefazione delle risorse, assorbite e, di fatto, bruciate dal gioco dell'accumulazione a fini speculativi (la finanziarizzazione dell'economia), in un contesto in cui sempre più risorse umane vengono espulse dai processi produttivi per ragioni diverse, alcune delle quali inevitabili, la lotta per la sopravvivenza prevale sulla coscienza di classe, ammesso (e niente affatto concesso) che questo termine abbia ancora un significato. E la ratio dell'homo homini lupus trascende i tradizionali paesi del capitalismo maturo e si estende a grandi nazioni asiatiche come la Cina e l'India che mostrano di volerci seguire sulla strada che percorriamo e che, non soltanto secondo noi anarchici, ci porta inevitabilmente verso un'era di conflitti permanenti e la sorte ce lo risparmi verso il definitivo annientamento nucleare.
Invertire i processi della globalizzazione
I movimenti di contestazione della nostra epoca, variegati e pittoreschi, non sembra abbiano prodotto alcun segnale di una presa di coscienza del livello dello scontro e si limitano a riempire periodicamente le piazze, seguendo agende stabilite dalle istituzioni nazionali o internazionali: il potere non ha mai negato un momento ludico a nessuno. Finito il frastuono, ammainate le bandiere c'è sempre in agguato dietro l'angolo la faccia proterva di chi sa di poterci ricondurre sui binari della nostra disperazione quotidiana. Malgrado, infatti, le grandi mobilitazioni per la pace, che hanno raccolto milioni di manifestanti nelle più diverse latitudini del pianeta, Blair si sente turbato, ma, in definitiva, se ne fotte e continua la sua politica di guerra; Bush si appresta ad aprire un altro fronte in Medio Oriente, e Berlusconi per poco non rivince le elezioni in Italia.
Il secondo snodo è quello della transizione, cioè dell'individuazione del punto di partenza, che non sia velleitario, per invertire i processi della globalizzazione e dell'omologazione generalizzata, formazioni cancerogene che vanificano qualunque tentativo dell'uomo di riappropriarsi del proprio destino e di esercitare il diritto alla libertà. In larga misura questo problema, gigantesco, è legato alla soluzione dello snodo precedente, perché avviare un dibattito di questa portata significa aver già individuato un aggregato di coscienze vigili e sensibili che il problema se lo sono già posto ma lo hanno accantonato per mancanza di interlocutori.
Ai problemi strettamente economici legati alla logica altra della produzione della ricchezza ed alla sua redistribuzione, alla sopravvivenza o alla diversa filosofia d'impiego della moneta, si aggiungono quelli del governo del territorio e dei nuovi assetti sociali che consentano la costituzione di fonti decisionali che non creino conflitti e che non passino sulla testa dei cittadini. A citare solo questi tra i moltissimi problemi che già si pongono o che, per necessità, si porranno, ce n'è a sufficienza per condurre il singolo individuo che vi fa mente locale, alla neurodeliri. Ma il dilemma non è se metterli o no in agenda, considerata la loro smisurata dimensione: occorre stabilire se si tratta di questioni reali oppure di forzature della nostra fantasia distorta.
È ovvio che io non ho alcuna soluzione da offrire ai due principali quesiti qui posti; e se anche ritenessi di averne qualcuna, me la terrei per me, ove non potessi discuterla e confrontarla con la comunità dei compagni.
Penso solo che, in armonia con quanto hanno detto e scritto i compagni in questo secolo e mezzo di presenza politica, occorrerebbe trovare dei messaggi, delle parole d'ordine che riescano a richiamare attorno ai nostri luoghi di lotta e di dibattito individui che, come noi, ritengono insostenibile e doloroso l'esistente e non si lascino annichilire dall'imponenza dell'intrapresa.
Altro non so aggiungere se non esortarmi ed esortarvi a svegliarci dalla greve sonnolenza che grava non soltanto su di noi.
Mi sovviene una parabola non ricordo se birmana o laotiana che narra di un vecchio saggio che, stanco dal lungo cammino, si sdraiò sotto un folto faggio e si appisolò. Dimenticò di svegliarsi e morì.
E allora ben levati, compagni!