Che un padre ammazzi una figlia che si ribella alla sua autorità rappresenta, per la nostra sensibilità corrente, un episodio raccapricciante, meritevole di commenti sdegnati e dell’intervento immediato dell’autorità giudiziaria. Quando poi il fatto si verifica all’interno di una comunità d’immigrati, come è successo a Brescia l’agosto scorso, può essere un’occasione preziosa per discettare sulla barbarie di quegli stranieri (pakistani, nel caso, di fede islamica) e sulla loro incapacità di integrarsi nella nostra società e di far propria la sua superiore cultura. Con un po’ di buona volontà il concetto potrà essere esteso a tutti gli immigrati di qualsiasi etnia e cultura, o, a seconda degli interessi in gioco, a tutti i pakistani, a tutti gli islamici, a tutti i “diversi” e a tutti coloro, in definitiva, su cui si desideri esercitare uno stretto controllo e cui si voglia precludere, se non l’accesso e il soggiorno del nostro paese, visto che della loro presenza si ha, purtroppo, una certa necessità, almeno l’uguaglianza di diritti con noi indigeni. Ovvie le possibilità di controbattere invitando a tener conto delle varie specificità dell’episodio, delle peculiarità della situazione, dell’inopportunità di compiere generalizzazioni forzate, della necessità di organizzare meglio l’accoglienza nella prospettiva di una società multiculturale e di quant’altro suggerisce una visione buonista, o almeno un po’ meno trucida, del problema. Il dibattito oggi non è più di strettissima attualità, perché, alla fin fine, non è che di quanto succede a una famiglia pakistana di Brescia interessi poi moltissimo a tutti, ma non mancheranno, temo, le occasioni di riprenderlo, calibrando di volta in volta a piacere i toni patetici, le argomentazioni socio-politiche e le (inevitabili) proposte di esclusione. Tanto, di fronte a efferatezze del genere, è sempre piuttosto difficile avere completamente torto.
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Hina Saleem |
Anche la Chiesa
cattolica…
Nessuno, naturalmente, si prenderà la briga di esaminare le motivazioni del padre omicida. Le motivazioni, dico, non le attenuanti, quali possono essere il disagio del proprio vissuto e l’irritazione di fronte alla pervicacia di una figlia ben decisa a farsi, come si dice, i fatti suoi. A questi disagi e a queste irritazioni (comunissime, peraltro, nei padri di tutto il mondo) chiunque, in Italia come in Pakistan, è formalmente tenuto a resistere. Le motivazioni di quell’orribile gesto sono una cosa ben più seria e tutt’altro che condivisa. Perché il padre, in definitiva, non pretendeva di imporre alla figlia dei comportamenti, per così dire, assurdi, non voleva che si adeguasse a chissà quali sue personalissime, incomprensibili pretese: esigeva semplicemente il rispetto del sistema di valori vigente nella sua comunità di appartenenza, in cui i padri – di fatto – sono tenuti a controllare le figlie, a impedire che si esibiscano in tenute che tutti considerano sconvenienti e a operare affinché si uniscano in matrimonio con correligionari di gradimento della famiglia. Tutte pretese, da un certo punto di vista, assai ragionevoli e abbastanza condivisibili, tanto è vero che, anche al di fuori della comunità pakistana, non mancano certo, a Brescia e altrove in Italia, i padri e le madri che, a modo loro, le condividono. Per non dire che l’obbedienza ai familiari, la modestia nei costumi e il matrimonio con i correligionari sono caldamente raccomandati anche da un organismo autorevole e rispettato come la Chiesa cattolica, che sull’ultimo punto è disposta a fare eccezione solo se entrambe le parti assumono l’esplicito impegno di adeguare la loro futura vita matrimoniale ai propri precetti.
Il dramma di Hina, di suo padre e dei loro congiunti, in realtà, ci è molto più vicino di quanto non sembri a prima vista. E non basta, per risolvere l’implicita contraddizione, far notare che siccome c’è modus in rebus non era necessario, per punire la figlia ribelle, sgozzarla e seppellirla in cortile. L’episodio andrebbe giudicato, in questa logica, sotto la specie dell’eccessivo, una categoria derivata, che ha il difetto di lasciar supporre l’esistenza di una qualche ragione di fondo, come se sussistesse la possibilità che, ove avesse adottato verso la figlia qualche misura repressiva meno radicale (che so, picchiandola, mutilandola, recludendola o simili) l’individuo avrebbe avuto, in qualche modo, ragione. Sarebbe già, questa, una conciliazione di ben basso profilo. Ma anch’essa non è possibile: la tradizione delle comunità musulmane d’India (e di gran parte degli altri paesi, checché ne dica il Corano, che in argomento, come capita spesso alle summae dottrinali, riporta affermazioni divergenti, ambigue o contraddittorie) prevede proprio – o almeno non esclude – che le ribelli in questi casi siano punite con la morte e, al di là delle prese di distanza obbligate degli esponenti “ufficiali” della comunità, è lecito presupporre che non siano stati pochi i connazionali e i correligionari dell’omicida che, nel segreto della loro coscienza, non l’abbiano tacitamente approvato. Che poi questa legge feroce vada addebitata alla influenza dell’Islam, alla tradizione locale o – come sembra più probabile – al sostrato di fondo di qualsiasi società patriarcale (rafforzato, chissà, da quell’intrico di pulsioni spesso legate al rapporto padre-figlia-altro), è problema di scarso o nullo interesse. Diciamo che, con qualche margine di controversia, quel gesto trova spazio e giustificazione in quella cultura. Il che non significa, naturalmente, che ci si debba accodare a chi considera quel sistema di valori affatto incompatibile con il nostro, visto che il rispetto a ogni costo di certi principi tradizionali, come dicevamo prima, non viene richiesto soltanto all’interno della comunità pakistana di Brescia. Tito Livio, per fare un nome a caso, lo chiamava mos maiorum e lo considerava uno dei fondamenti della grandezza dell’impero romano e a molti di noi è capitato di dover tradurre dei racconti quasi altrettanto raccapriccianti di quello dell’uccisione di Hina come esercitazione di latino al ginnasio.
Un’occasione
per tutti
L’eminente storico, naturalmente, scriveva ai tempi di Augusto e non è considerato una delle fonti della nostra morale collettiva, per quanta influenza sulla tradizione civile e letteraria abbiano potuto esercitare le storie di Virginia e di Lucrezia. Quelle storie, tuttavia, valevano soprattutto come casi ultimativi esemplari e servivano a rafforzare il paradigma della famiglia come cellula base della società, un paradigma che in questa alba del terzo millennio non sembra particolarmente in crisi ed è oggetto, anzi, di un’autentica venerazione da parte di molte rispettabili forze politiche e culturali. La spinta, si sa, viene dalla Chiesa, ma molti ritengono che non c’è motivo perché i laici pensino di potersene esonerare, trattandosi di una componente, come fanno spesso notare costoro, della nostra identità. Ma il concetto di identità non è né assoluto né assolutorio e se la tradizione che esprime contiene, come contiene, dei gravi elementi di oppressione e violenza nulla dovrebbe impedirci di mettere in atto tutti gli sforzi possibili per liberarsene.
Naturalmente questo principio vale per tutti: per le comunità degli immigrati e per quelle di chi, con maggiore o minore consapevolezza, li accoglie. È solo nella scoperta di una comune esigenza di liberazione, nella volontà di fare piazza pulita di tutte le false contrapposizioni identitarie, che si può perseguire il progetto di una vera integrazione. All’ipotesi guida, un po’ contraddittoria, di una società multiculturale, con tutti i rischi di parcellizzazione e segregazione reciproca che comporta, dovremmo saper sostituire quella di un mondo capace di trasformare le differenze in identità. Un’utopia, certo, allo stato presente delle cose, ma una di quelle utopie che possono essere assunte, con un minimo di buona volontà, come progetto o, almeno, come obiettivo. Da questo punto di vista, anzi, la rottura degli equilibri etnici e culturali che la nuova immigrazione comporta può essere un’occasione per tutti. Altrimenti, dovremo mettere in conto uno stillicidio quotidiano di “scontri di civiltà”, una sorta di guerra di religione a bassa identità, che non potrà che produrre sempre nuove vittime. Come Hina e come suo padre.