Dopo Destini e avventure dell’intellettuale ebreo (1996) e dopo Passione e tragedia. Storia degli ebrei russi (2006), con Ebrei eterni inquieti (Mondadori, Milano 2007), Riccardo Calimani porta a compimento la sua trilogia dedicata ai contesti formativi degli intellettuali ebrei. Prendendo le mosse dall’Olanda, Calimani ha percorso via via l’Europa, occupandosi degli ebrei tedeschi, austriaci, praghesi e russi per concludere la propria analisi con i francesi e gli ungheresi. Le biografie di personalità come Durkheim, Mauss, Bergson, Bloch, Molnar, Lukacs o Koestler vengono sezionate con cura in cerca dei vari modi con cui, di propria volontà o per spinta degli eventi, si è data una soluzione al “problema” costituito dall’ebraicità in un mondo dove, alla faccia dei suoi vantati processi di civilizzazione, qualcuno è sempre pronto a indicare capri espiatorii in nome di tesi razziste di totale inconsistenza. Ne risultano soluzioni varie e a volte sorprendenti – magari non prive di contraddizioni –, singole testimonianze fin eroiche che, poste a confronto, per esempio, al comportamento dei tanti intellettuali italiani al soldo del regime fascista prima e lesti, al momento opportuno, nel cambiare padrone, risollevano l’animo di chi guarda alla storia scuotendo il capo con rassegnazione.
Dall’ampia mole documentaria tramite la quale Calimani contestualizza e seleziona queste vite difficili, traggo quattro argomentazioni che mi sembrano particolarmente rilevanti quanto mai soppesate a sufficienza.
La prima è quella relativa all’illuminismo. Chi da questo “periodo aureo” del pensiero umano ritenesse di poter cavare buone notizie in ordine alla liquidazione del razzismo si sbaglierebbe di grosso. Voltaire, per fare l’esempio più eclatante, si caratterizza per un antisemitismo rivoltante. Gli capita di accusare un tale generalizzando parecchio fino a dire che l’ebreo “non ha altra patria se non dove guadagna” e, in un’altra occasione – in analogia con gli schiavi neri –, gli capita perfino di sostenere che gli ebrei andrebbero marchiati con una scritta sulla fronte: “buono per essere impiccato”.
La seconda è quella relativa alla rivoluzione francese. È vero che nel settembre del 1791 un voto unanime dell’Assemblea nazionale concede agli ebrei il diritto di cittadinanza (a patto che prestino il giuramento civico “che sarà considerato come una rinuncia a tutti i privilegi (ehm) e le eccezioni introdotte in precedenza a loro favore” (mah), ma dopo lunghe trattative e non poche titubanze. Date le premesse “illuministiche”, d’altronde, la cosa non può stupire più di tanto. Non a caso, con Napoleone, i diritti degli ebrei francesi tornano in discussione.
La terza, più marginale, è quella relativa al comunismo utopistico di Fourier, che, spesso, viene offerto con leggerezza come insieme di tesi filosofiche e politiche dignitose. Nel 1821, l’autore della Teoria dei quattro movimenti, l’ideatore del salvifico “nuovo mondo amoroso” e della beata “società dell’Armonia”, vedeva l’emancipazione ebraica come “il più vergognoso” dei vizi da estirpare nella coscienza civile prima possibile.
La quarta, la più importante, è quella relativa alla possibilità o meno di capire in tempo dove avrebbe portato il nazionalsocialismo di Hitler. Checché ne dicano storici di regime (attuale) come Galli Della Loggia, checché ne dicano in Vaticano per difendere l’operato di Papa Pio XII, checché ne dicano i tanti italiani e non solo italiani (per esempio, i francesi di Vichy, i tanti collaborazionisti sui quali, come fa notare Calimani, il silenzio ha perdurato a lungo) che si sono girati dall’altra parte, chi voleva capire poteva capire.
L’esempio dell’Ungheria può aggiungersi ai tanti. Dal 1 agosto del 1919 – allorché si concluse la rivoluzione socialista di Béla Kun –, l’ammiraglio Miklos Horty iniziò la sua spietata repressione di ogni sentimento democratico per instaurare il suo regime autoritario e, utilizzando la popolazione ebraica d’Ungheria come capro espiatorio adottò tutta una serie di misure evidentemente antisemite.
Dal 1920, ai figli di ebrei venne proibito l’accesso all’università e molti di essi – si parla di 5000 – dovettero fuggire all’estero Inutile dire che nel 1938, dopo l’annessione dell’Austria alla Germania di Hitler, l’Ungheria si distinguerà ancora per l’approvazione di leggi che mirano a ridurre drasticamente la partecipazione degli ebrei alla vita sociale del paese.
Modello ungherese alla mano, dunque, la situazione era già chiara ben prima che Hitler giungesse al potere.
Felice Accame
P.s.: Sembra che, durante la rivoluzione, 32 commissari del popolo su 45,
18 su 29 membri del Consiglio Rivoluzionario e 32 su 35 commissari della Repubblica
Comunista d’Ungheria fossero ebrei. Nulla di più facile che identificare l’ebraismo con la democrazia socialista. Fra coloro che lavorarono al commissariato per l’Istruzione Pubblica, c’era Gyorgy Lukacs che, per l’occasione, decise di rinunciare una volta per tutte al “von” nobiliare che, fino a quel momento, aveva mantenuto fra il nome e il cognome. |