discriminazioni
L’olocausto delle diversità
Un passato poco conosciuto (1)
di Roberto Tarditi (2)
Orientarsi nella letteratura prodotta sul ruolo e sul valore della persona con handicap nella storia della cultura è cosa piuttosto ardua: la documentazione è spesso frammentaria, poco omogenea, mentre i fatti storici sono spesso utilizzati dai singoli autori a sostegno di punti di vista personali.
Si suppone che nelle società primitive agricole e nelle prime ere cristiane le persone con handicap avessero un loro ruolo e una loro identità. Nella società rurale, infatti, così come ai bambini e agli anziani, anche alle persone con handicap e a quelle con disturbi psichici era riservato uno spazio preciso, dignitoso, all’interno della comunità. Nelle società più complesse e sempre più ‘organizzate’ secondo una logica delle istituzioni, invece, lo spazio delle persone con handicap intese come categoria si è spostato verso zone connotate costantemente dalla marginalità quasi totale, che si è concretizzata quasi sempre con l’esclusione e l’isolamento.
D’altra parte, a voler ripercorrere la storia delle teorie razziali ed eugenetiche, risulta evidente che esse sono antiche come il mondo. A Sparta gettavano dal monte Taigete i bambini nati con malformazione; ad Atene li abbandonavano; nell’antica Roma esistevano pratiche simili. E che dire del nostro filosofo Platone che, nella sua Repubblica utopica, vuole che non siano curati e allevati (e quindi lasciati morire) i bambini che nascono privi delle qualità ottimali? Così come prescrive che i malati inguaribili non vengano curati dal medico perché non farebbe altro che “rendere lunga e penosa” la loro vita.
Penso che questa storia sia nota a tutti, mentre non tutti conoscono una pagina della tragica storia dell’Olocausto, ancora oscura e misconosciuta benché a noi così vicina. Quella dell’eliminazione sistematica degli esseri umani più deboli e indifesi da parte del Terzo Reich fu infatti la fase iniziale della Shoah, una macabra prova generale di quello che sarebbe accaduto in seguito ai gruppi di razza inferiore come i rom, agli omosessuali, ai Testimoni di Geova, agli oppositori politici e – ovviamente – agli ebrei con la cosiddetta ‘soluzione finale’. Hannah Arendt, filosofo della politica, nel suo Le origini del totalitarismo, descrive con chiarezza le teorie razziali, affermando che “Il razzismo politicamente organizzato dal regime hitleriano esercitò negli anni trenta un’attrazione così straordinaria in Europa, e fuori d’Europa, perché le tendenze razziste, anche se non trasparivano dal linguaggio ufficiale dei governi, erano diffuse nell’opinione pubblica di ogni paese” (3). Così anche lo storico Giorgio Galli, curatore del volume “Il Mein Kampf” di Adolf Hitler (4), che nella introduzione scrive: “Nel testo hitleriano il razzismo antigiudaico (5) non è affatto la semplice ‘volgarizzazione isterica’ di una ‘impostura letteraria’, bensì l’approdo di una concezione razziale che affonda tutte le sue radici – anche quelle più estreme – nella cultura occidentale”.
Queste riflessioni parlano da sé, non c’è nulla da interpretare. Ma Hitler ha applicato quello che negli Stati Uniti d’America era attuato già dai primi anni del novecento, dove, oltre alle leggi razziali, era nato un vero e proprio movimento eugenetico con il compito di studiare l’ereditarietà di quei gruppi che si presumevano biologicamente inferiori. Non è un caso probabilmente che, dopo l’avvento al potere dei nazisti, nel 1933, i funzionari tedeschi ospitarono regolarmente eugenisti americani per scambiare opinioni in merito. E, d’altra parte, nel New England Journal of Medicine erano apparsi interventi a favore dei programmi nazisti e gli editori del giornale scrissero: “La Germania è forse la nazione più progressista nei programmi della fecondità tra i disadattati”.
Tratti sociali come l’alcolismo, la prostituzione o la povertà – che spesso derivava dalla disoccupazione e dalla malattia cronica – divenivano in sostanza imputabili a una degenerazione ereditaria, a sua volta accertata attraverso la misurazione del QI, e perciò del presunto potenziale intellettivo. Era dunque scientificamente provata la connessione tra scarsa intelligenza e comportamento degenerato, e da ciò discendeva una biologizzazione delle differenze tra le classi sociali, la cui diversa distribuzione di potere, funzioni e ricchezza tra le stesse era proporzionale al diverso livello di dotazione intellettiva ereditaria. La degenerazione tuttavia era attribuita anche a particolari razze e gruppi etnici, di cui si sosteneva l’inferiorità e perfino la tendenza criminale. Charles B. Davenport, fondatore del più importante centro americano per la ricerca e la diffusione della dottrina eugenetica, l’Eugenics Record Office, nel 1910 si fece promotore della sterilizzazione dei non idonei alla riproduzione, frenastenici e degenerati, considerando la propagazione delle tare ereditarie di costoro una minaccia per la società americana (6).
I provvedimenti più indicativi e radicali di sterilizzazione coatta furono comunque quelli nazionalsocialisti tedeschi degli anni Trenta, ispirati a una concezione biologica delle razze e dall’esigenza di preservare l’integrità e la purezza del sangue della razza ariana dal rischio di inquinamenti e contaminazioni. Questo programma d’igiene razziale fu attuato dapprima attraverso la sterilizzazione su larga scala di intere categorie sociali di indesiderabili e più tardi attraverso la loro sistematica soppressione fisica mediante eutanasia. L’uccisione ‘pietosa’ di vite indegne di essere vissute, handicappati fisici e mentali, malati incurabili e anziani, conseguentemente sfociò nello sterminio di massa di interi gruppi etnici ritenuti biologicamente inferiori e pericolosi per la purezza della razza nordica ariana. In Germania furono sterilizzati più di 400.000 tedeschi durante i 12 anni del regime.
In altri paesi europei la pratica della sterilizzazione eugenetica di determinate categorie sociali si diffuse superando ogni confine geografico e interessando trasversalmente sistemi politici e giuridici molto diversi, senza distinzione tra organizzazioni statuali liberaldemocratiche e regimi totalitari. Colpisce constatare come simile pratica si sia prolungata fino ad anni recenti.
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Per sensibilizzare la popolazione tedesca
sulla necessità
dell’eutanasia, la propaganda nazista,
riprendendo un argomento che circolava in Germania
sin dagli anni Venti, insistette sull’aspetto economico,
denunciando gli alti costi che le cure destinate ai disabili
comportavano per la collettività.
In questo foglio pubblicitario della fine degli anni Trenta
si invitava alla lettura del mensile “Neues Volk”,
strumento di propaganda degli Uffici di politica della razza
del Partito nazista, dichiarando: “Questo paziente affetto
da una malattia ereditaria costa,
durante la sua esistenza, 60.000 RM al popolo.
Connazionale, si tratta anche dei tuoi soldi” |
Se però è la Germania nazista a detenere nell’immaginario collettivo un posto di assoluta e non invidiabile predominanza, questo si deve al fatto che durante il Terzo Reich, ben presto, la sterilizzazione fu in larga misura sostituita dall’eutanasia quale mezzo di controllo dei cosiddetti inferiori. Si passò, dopo un’intensa campagna di sterilizzazione, all’uccisione sistematica dei bambini con handicap, attivando nel 1938 il programma di eutanasia. È illuminante a riguardo il libro di Henry Friedlander Le origini del genocidio nazista (7), accurata indagine archivista che mette in rilievo come il regime avesse eletto l’omicidio a sistema, non solo per gli ebrei ma anche per altre due categorie di esseri umani: zingari e persone con handicap. È su questo ultimo gruppo di perseguitati che l’autore si sofferma, per mettere in luce da un lato il contesto ideologico del genocidio – che, attraverso la teoria eugenetica e della razza, si fondava sul principio della sostanziale ineguaglianza tra gli uomini – dall’altro le politiche e le pratiche di esclusione e di soppressione adottate.
La nostra nozione di eutanasia tende a dare al termine un significato preciso, quello di abbreviare la vita delle persone affette da malattie incurabili dolorose o terminali: la “dolce morte” (dal greco eu-tanatos). Invece, scrive Friedlander, “l’impiego del termine ‘eutanasia’ da parte dei criminali nazisti costituiva un eufemismo per dissimulare l’assassinio di esseri umani bollati con l’espressione vite che non meritano di essere vissute”. Questa ultima frase è spesso ripetuta dall’autore. E ancora: “l’eutanasia non era stato semplicemente un prologo, bensì il primo capitolo del genocidio nazista” (8).
Descrivere con distacco questa parte mi è particolarmente difficile. Raccontare le atrocità subite da neonati, bambini e adolescenti fatti morire di fame, usati nei vari esperimenti come cavie umane, colpevoli di essere nati con un handicap e/o di essere affetti da malattia o ancora, semplicemente, di essere bambini lenti ad apprendere o con problemi comportamentali, in nome della ‘purezza razziale’. Raccontare tutto ciò mi causa un blocco allo stomaco. Ma raccontare si deve. E allora: si deve dire della creazione del progetto Aktion T4. T4 sta per Tiergartenstrasse, 4, nome in codice per l’operazione di eutanasia e sede dell’apparato organizzativo, e di Aktion 14F13, quello ancora più selvaggio e segreto. Tra il 1939 e il 1940 – secondo la migliore stima – furono uccisi almeno 5.000 bambini tedeschi. La loro uccisione avrebbe portato un duplice vantaggio: porre fine alla loro sofferenza e consentire una distribuzione più razionale delle risorse economiche. Per le stesse ragioni vennero anche uccise – tramite le camere a gas – più di 70.000 persone adulte con handicap. Gli storici di Norimberga accertarono come questa cifra fosse inferiore ai dati reali visto che, guardando alle prove documentali, il calcolo si riferiva ai decessi avvenuti nei campi di uccisione senza contare le innumerevoli morti causate con iniezioni letali, prima e dopo le deportazioni di massa. Infine i malati mentali: solo in Germania tra il 1939 e il 1947 – sempre nel programma d’eutanasia Aktion T4 – furono uccise 275.000 persone all’interno di un progetto eugenetico realizzato dagli psichiatri. Molti furono gli psichiatri accademici che parteciparono fin dal principio alla pianificazione e all’attuazione del programma di eutanasia.
Secondo Agostino Pirella “un’analoga condizione si è verificata molto probabilmente in Italia nel corso dell’ultima guerra. (…) (9).
L’Italia però ha dato anche un contributo suo originale al discorso ideologico del razzismo. L’attività e il pensiero del brillante scienziato positivista Cesare Lombroso fornirono anche argomenti e forza all’ideologia razziale del regime hitleriano. Lombroso non si limitò infatti ad attribuire una criminalità atavistica a membri delle classi inferiori macchiatisi di crimini, ma giunse al punto di quantificare – scrive Friedlander – interi gruppi come criminali. Uno di questi gruppi era quello delle persone con disabilità. Pertanto egli definì l’epilessia ‘un segno di criminalità’, asserendo che “quasi ogni ‘criminale nato’ soffre in qualche misura di epilessia”.
Quando gli assassini nazisti elessero a bersaglio quegli stessi gruppi di vittime che Lombroso aveva giudicato criminali (zingari e disabili inclusi), impiegarono la sua stessa terminologia. In tal modo alcuni membri del sistema giudiziario presero in considerazione la possibilità di sopprimere quei criminali dichiarati colpevoli la cui “forma fisica non meritava più di essere definita umana” (10). È da notare che negli anni Venti, come nel resto dell’Europa e negli Stati Uniti, anche in Italia si discuteva pubblicamente dell’utilizzo dell’eutanasia. Ovviamente Lombroso era tra quanti proponevano misure eugenetiche.
Negli anni ’50 e ’60 del novecento la matrice ideologico-politica del razzismo è ancora evidente nel tentativo di eliminare le diversità dell’umanità tutta. In quegli anni infatti venivano, senza molta diversificazione, segregate in manicomi persone con disabilità, malati mentali, bambini enuretici o individui omosessuali. In questi luoghi si ripetevano le peggiori crudeltà già perpetrate dal regime nazista.
Ho già ripetuto in altre occasioni che i manicomi e gli istituti erano meri contenitori di umanità rifiutata dalla società. All’epoca sono state internate in vari manicomi non solo persone malate mentali ma anche persone con tipologie diverse di handicap. Alcune di queste avevano una disabilità fisica, ma con la loro forza si sono ribellate rifiutando la rassegnazione di matrice cattolica. Persone che, con la loro professione conquistata duramente, hanno contribuito al cambiamento epocale degli anni settanta. Eppure ancora oggi ci sono mura che tengono lontane persone da noi e noi da loro, e altre mura ottundono le menti di quei benpensanti che non troverebbero scandaloso costruire nuovi istituti, magari con modalità e nomi diversi ma che, nella sostanza, sono sempre contenitori di quella parte di umanità indifesa e improduttiva.
Il dolore non è fine a se stesso, ma diventa un dato di esperienza che deve essere testimoniato per evitare altre sofferenze. “Il dolore di uomini, donne, bambini – scrive Emilia De Rienzo – non si può riassumere in un discorso celebrativo, ma si fa evidenza nei tanti racconti che hanno reso quelli che hanno vissuto nei campi di concentramento. La shoah l’hanno raccontata con molta più efficacia Primo Levi, Wiesel e tanti altri scrittori e tante tante altre persone. Dopo la loro liberazione non hanno mai smesso di rievocare la loro esperienza nei libri, nelle scuole, nelle assemblee pubbliche. Una catena infinita di racconti che sono arrivati fino a noi perché non si dimenticasse, per rendere partecipi, per mobilitare le coscienze, ma soprattutto per affermare il diritto di ogni uomo nella sua singolarità e unicità di vivere una vita degna di questo nome. Una catena infinita di racconti perché si sappia che dietro ogni evento storico, ogni statistica si nascondono le sofferenze, i vissuti di individui, di persone: non un’unica sofferenza, ma tante sofferenze, vissute individualmente da ogni essere umano. Il dolore non è comunicabile, ma l’esperienza del dolore sì” (11).
Roberto Tarditi
Note
- Sintesi tratta da La Rivista Psichiatria / Informazione Associazione per la lotta contro le malattie mentali, 1/2007 numero 32.
- Presidente dell’associazione Mai Più Istituti di Assistenza di Torino.
- Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo, capitolo sesto: “Le teorie razziali prima dell’imperialismo”, Torino, Edizione di Comunità, 1999.
- Il “Mein Kampf”. Le radici della barbarie nazista, a cura di Giorgio Galli, Milano, Kaos edizioni, 2002.
- Galli annota che, “Benché ormai desueta e per lo più intesa nell’accezione religiosa, l’espressione antigiudaico è più pertinente di antisemita: infatti anche gli arabi sono semiti”.
- Giovanni Widmann, Breve storia del movimento eugenetico. La segnalazione bibliografica è tratta dal sito internet del Dipartimento di Scienze Filologiche e Storiche di Trento curato dal prof. Michele Nicoletti.
- Roma, Editori Riuniti, 1997. L’autore è professore di storia nel dipartimento di studi ebraici del Brooklyn College della City University of New York. Fu internato durante la seconda guerra mondiale in vari lager, fra cui Auschwitz. Emigrò negli Stati Uniti nel 1947.
- Op.cit., pp. VIII-IX.
- Cfr. A.S.S.E.Psi. A. Pirella, Psichiatria europea, “eutanasia”, sterminio, in “Fogli di Informazione”, n. 10, 1994, pp. 51-52.
- Friedlander, H., op.cit., pagine 6-7.
- Emilia De Rienzo ha recensito il libro di Michael D’Antonio La rivolta dei figli dello Stato, Roma, Fandango libri, 2005, in Prospettive assistenziali, n. 156, ottobre-dicembre 2006.
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