Vi sono città e paesi in cui le persone,
di tanto in tanto, hanno il sospetto di altre cose;
in generale, questo non ne cambia la vita;
soltanto, vi è stato il sospetto,
ed è sempre qualcosa di guadagnato.
(Albert Camus, La Peste)
Quest’incontro scaturisce dal desiderio di confrontarsi, al di là delle discussioni pratiche che si fanno ogni giorno, sulle prospettive del nostro agire, come anarchici, come rivoluzionari, come amanti della libertà in un’epoca che vede il tramonto di ogni desiderio di trasformazione sociale di segno libertario.
Quello che proponiamo non è un astratto argomentare che si scinda, con un’operazione di taglia e cuci, dalle asperità dello scontro sociale nel quale siamo immersi, ma mira a cogliere, nel vivo della lotta, le possibilità e le prospettive per una narrazione di segno libertario che non eluda il caos ma vi si immerga per trovare un lessico che sappia ri-farsi comune.
Ci siamo nutriti di universali – i classici che hanno aperto la modernità: libertà/uguaglianza/solidarietà – definendone il senso e la struttura conflittuale – quelli più recenti – che della triade assiologica illuminista hanno distillato i succhi – diversità/molteplicità – ma oggi non sono (più) le leve che definiscono il nostro mondo. L’anarchismo ha puntato sulla possibilità che la cesura moderna potesse essere portata alle estreme conseguenze. Morto dio e tagliata la testa a chi, per diritto divino, si arrogava il potere di dominio assoluto, la critica al potere in quanto tale, anche nella forma morbida della democrazia rappresentativa, pareva a portata di mano. Un’illusione, figlia di certo afflato escatologico difficile da eludere, ma pericoloso nella sua capacità incantatrice, come ogni storia che voglia una sua filosofia. D’altro canto l’idea egualitaria, astrazione giuridica che, sin sul piano formale, ha faticato a conquistare l’universalità pretesa dall’assunto assiologico, lungi dal assurgere alla materialità della relazione sociale, tende a scomparire persino dalla formalità del diritto.
Realtà sociale frammentata
L’inattualità dell’anarchismo è consacrata dallo svuotarsi della modernità che ha trasfigurato i propri postulati nell’estasi della merce, bilanciata da pulsioni identitarie che rimettono in pista gli orrori della nazione e della razza.
L’ipermercato e l’ampolla leghista alle sorgenti del Po sono specchi di una realtà dove libertà è l’accesso alle merci, uguaglianza è la comunione dei simili che si riconoscono escludendo l’altro da se.
Viviamo una realtà sociale frantumata, di cui è cifra la guerra tra poveri, la guerra come orizzonte permanente, quasi senza pareti tra conflitti interni ed esterni.
La trincea della paura ne è il segno distintivo, la metafora più convincente. In trincea non si scorge altro orizzonte che quello segnato dal filo spinato oltre la sponda, dove i nemici sono pronti ad affondare le baionette nella carne viva. Il nemico diventa nemico assoluto, irriducibile ad ogni possibile riconoscimento nell’universalità dell’umano. La stessa nozione di “diritto umano”, sulla quale si giocano formali partite sulla misura della altrui civiltà, diviene alibi di guerra, pur rivestita dalla maschera dell’intervento salvifico, intrinsecamente super partes.
Credere agli incubi può far sì che si realizzino. Viviamo un pianeta dove le risorse disponibili sono dissipate in un delirio d’onnipotenza nell’eternità di un oggi senza domani, immaginato nel continuo ritorno della novità della merce, dove il nuovo è mera tecnica comunicativa che non ambisce ad una proiezione futura. Se a ciò si aggiunge che in grande maggioranza coloro che vivono questo nostro stesso pianeta sono irrimediabilmente esclusi dall’accesso alla merce nella sua materialità ma parimenti investiti dal suo intollerabile portato simbolico, l’immensità del baratro nel quale stiamo scivolando diventa immediatamente attingibile.
Non basteranno gli eserciti, le bombe, le torture, lo sterminio da malattie curabili, i muri armati a difesa della frontiere ad impedire che la guerra arrivi sulle soglie delle linde case di chi abita i luoghi dove ci si ammala perché si mangia troppo.
La peste
è alle porte
Quando la peste arriva non si può far altro che rimboccarsi le maniche e lottare con le unghie e con i denti per fermarla, soffocando la tentazione di fuggire dai suoi miasmi ammorbanti. Il nostro agire rischia tuttavia di farsi semplice resistenza, senz’altra prospettiva che quella di rallentare, inceppandolo qua e là, il meccanismo. Se il capitalismo diviene pervasivo come una seconda natura, se lo Stato, ed in generale la gerarchia, definiscono l’orizzonte del possibile e del desiderabile, se oltre non c’è che la follia religiosa, è giocoforza agire sui frammenti di una realtà sociale dimidiata dalla guerra, incapace di nutrire “il sospetto di altre cose”, quel sospetto che forse non trasforma la vita, ma senza il quale non è neppure immaginabile il cambiamento.
Il nostro impegno, come anarchici che attuano ogni giorno la resistenza, non può fare a meno di essere volto a far sì che si manifesti “il sospetto”che vi sia dell’altro, che si possa andare oltre rompendo lo specchio che riproduce all’infinito il nostro oggi.
Stare dalle parte degli oppressi e degli sfruttati è normale, costitutivo del nostro essere anarchici, tuttavia il difficile è nella declinazione del come. Il linguaggio della resistenza è immediato e trova, qua e là, compagni di strada, gente disposta a non chinare il capo, a mettersi in gioco per ostacolare politiche razziste, classiste, sessiste, predatorie. Il conflitto sociale è regolato da strategie di controllo di stampo squisitamente disciplinare. Contrastarle fa parte di una lingua che facilmente si fa comune, che mostra ai più, a chi pensa che la partita sia persa in partenza che è sempre possibile fare qualcosa, è sempre possibile aprire nuovi sentieri. Sebbene il lessico della resistenza trovi qua e là consenso, tuttavia quello della rivoluzione, quello dei liberi ed eguali, delle libere ed eguali, si impantana sempre più.
Come individuare le sottili tracce nel bosco che portano alla radura dove si manifesta “il sospetto che vi sia altro”? Che non basti dirlo lo sappiamo, come sappiamo che le parole che lo dicono suonano false, prive di mordente, irrimediabilmente “passate”. Il nostro futuro, quello che abbiamo imparato ad amare, senza essere – quasi – mai stato attinto, è scomparso dall’orizzonte degli sfruttati e degli oppressi. Moneta fuori corso, usurata dal non uso, non seduce né appassiona. Solo gli artifici della retorica ne conservano una residua credibilità, spesso ancorata ad un narrare di ieri che mantiene un’aura di passione altrimenti sopita, dimenticata, scalzata.
Non ci sono scorciatoie
C’è chi ritiene che il lessico comune che si produce nell’immediatezza della resistenza senza andare oltre, sia un bene, perché in tal modo fonda – sia pur provvisoriamente – la propria irriducibilità alla logica del dominio. Il rischio serio è che fondi parimenti l’inattingibilità della prospettiva anarchica.
Ciò che apre o chiude un orizzonte è la sua desiderabilità, un suo parlare che si faccia narrazione, storia di uno e storia di tanti, humus in cui affondare radici e insieme ascia che taglia i rami morti. Ciò che mette in gioco o getta fuori dall’arena la rivoluzione non è la possibilità di farla, ma il desiderio che si realizzi. In altre parole serve una lingua comune che vada al di là dell’immediato, che sappia sedimentarsi e farsi energia di trasformazione.
Altrimenti si cade nell’illusione che la meccanica possa più della coscienza, che quest’ultima non sia che una derivazione della prima, che la rottura dell’ordine sociale sia la chiave di ogni possibile rottura dell’ordine simbolico.
Talora la materialità di certe fratture – la barricata, la rivolta, lo sciopero ad oltranza, la disobbedienza generalizzata, a volte basta un sasso, un no, un basta – spesso innesca accelerazioni impreviste ed imprevedibili anche sul piano simbolico, o contribuisce ad incrinare altri piani di oppressione, ma difficilmente questo avviene in assenza di una sia pur minima prefigurazione utopica di segno libertario.
Se non so dove andare, andrò in giro senza meta, forse arriverò da qualche parte o forse continuerò a calpestare la stessa polvere di cortile.
Se voglio che tutto cambi, perché sono sfigato, basterà che la sfiga finisca per poter sedere anch’io alla tavola imbandita, tirando calci a chi, come me ieri, sgomitava per arrivare alle briciole.
Chi invece non ha nulla da perdere, non necessariamente vuole far saltare l’assetto del mondo.
Se non voglio più nulla perché penso che tutto mi sia precluso, a volte sfascio tutto: macchine, cabine telefoniche, scuole e strade, la faccia dei poliziotti e quella di qualche sfigato diverso da me. Poi ci saranno folle di sociologi, politici destri e sinistri, che mi vorranno raccontare, infilzandomi nell’ordine dei loro discorsi. Ci sarà anche chi apprezzerà la mancanza di logica e su questo costruirà l’ordine del suo discorso, un ordine fatto di rotture, peccato che, anche lui, finisca con il parlare per me. Che non dico niente. Punto. È successo in Francia, domani potrebbe capitare anche da noi: sapremo evitare la retorica delle periferie in fiamme, la poesia sommessa del caos, per registrare che l’afonia non parla in linguaggio cifrato la rivolta contro lo stato e il capitale? E tanto meno la rivoluzione?
Non ci sono scorciatoie: se si vuole fare il pane occorre impastare acqua, sale e farina. Un’alchimia semplice ma che dice molto a chi sa ascoltarla. Per imparare a farlo occorre provare, per provare serve volerlo fare. Le storie – necessariamente plurali – le si racconta mentre le si fa, le si fa mentre le si racconta.
Non è molto ma forse non c’è altro modo per coniugare l’anarchia ai tempi della peste.