L’argomento, in un certo senso, è di provenienza ufficiale: lo ha impiegato per la prima volta, che io sappia, padre Federico Lombardi, portavoce ufficiale della Santa Sede, in un intervento secondo il quale tutto il cancan che si andava facendo da un po’sulla diffusione della pedofilia tra il clero non aveva, tutto sommato, una vera ragione di essere. Il fenomeno era certamente riprovevole, “data la responsabilità educativa e morale degli uomini di Chiesa”, ma la questione era molto più ampia, per cui “concentrare le accuse solo sulla chiesa” significava soltanto falsare la prospettiva. Di pedofili, insomma, era pieno il mondo e solo uno spirito malizioso – e afflitto da una qualche deplorevole forma di anticlericalismo – avrebbe considerato la loro presenza e la loro attività come un problema specifico della Chiesa cattolica.
Il ragionamento, per quel che vale, è stato ripreso da Vittorio Messori in un articolo apparso sul “Corriere della Sera” dell’11 marzo scorso e intitolato, abbastanza significativamente, Il Vaticano sembra il solo a fare notizia. Anche il noto scrittore di cose religiose non si capacita dell’impostazione aprioristicamente anticlericale con cui la questione viene generalmente affrontata. Per cui, oltre a citare le parole di padre Lombardi, le integra con certe sue singolari reminiscenze. Quando, fresco di laurea, cercava un impiego, gli era capitato di vedersi offerto un posto di assistente in un internato. “Lo stipendio era esiguo” gli avevano spiegato i futuri colleghi “e il lavoro impegnativo, ma, in cambio, c’erano vantaggi, c’erano benefit riservati che compensavano i sacrifici.” Ovvero, per citare le parole di un non meglio precisato “cinquantenne” impiegato in un collegio di “ricchi virgulti borghesi”, di giorno si sarebbe dovuto lavorare molto, ma di notte... eh, di notte le stanze del personale erano accanto a quelle dei ragazzi. Nulla di diverso, assicurava l’autore (pur ovviamente scandalizzato dall’offerta), di quanto succedeva nei manicomi, in cui non solo le ricoverate, ma anche i ricoverati minorenni “erano un ‘bottino’tanto appetito da scatenare lotte accanite tra medici e paramedici”, con il silenzio assenso dei sindacalisti, che, anzi, “in una di quelle case, si erano riservati un diritto di prelazione sugli imberbi”. E non parliamo di quanto gli aveva raccontato a tavola un capitano di mare “un po’alticcio” a proposito della sorte che “toccava, e tocca, ai quindicenni imbarcati come mozzi”. Tutta colpa del Sessantotto, naturalmente, anzi della “sessantottarda ‘liberazione sessuale’”, di cui, com’è noto, sono stati apostoli “non pochi di coloro che si atteggiano a inflessibili moralizzatori”. Capirete, liberalizza oggi, liberalizza domani, si finisce per liberalizzare tutto: “libertà di sesso, per chiunque e con chiunque! Bambini compresi, anzi questi per primi, per educarli da subito a una ‘prospettiva non repressiva’e a un ‘eros liberato’”.
Colpa del ’68?
Lì per lì non avevo dato importanza a quell’articolo, pur tanto sgradevole, per almeno due motivi. Innanzi tutto perché i dati e le date non quadravano: Messori appartiene più o meno alla mia generazione, è nato – mi sembra – nel 1941, e ai tempi di cui racconta la “liberazione” de qua era ancora, in gran parte, da venire e mi sembrava comunque un po’incongruo attribuire a quel movimento la responsabilità di quanto accadeva nei manicomi (alla cui futura chiusura, se mai, la cultura del ’68 non sarebbe stata estranea) e nelle marinerie dei sette mari. Inoltre, il tutto culminava in una invettiva particolarmente disdicevole contro l’aborto. “Guai dunque a chi tocca i bambini già nati. Ma guai anche a chi volesse difendere i bambini non ancora nati”, si sdegnava l’autore, perché “un certo sdegno liberal non è eguale per tutti: infanzia protetta, certo, ma solo quella scampata all’ecatombe”. Che mi era sembrata non soltanto una equazione assai dubbia, ma un modo particolarmente scorretto di chiudere una discussione dando indiscriminatamente dell’assassino a tutti i propri contraddittori. Ciascuno, naturalmente, è libero di pensarla come vuole, ma tanto l’aborto quanto la pedofilia rappresentano dei problemi troppo seri per liberarsene in quel modo.
Scopro tuttavia che questo modo di argomentare è più diffuso di quanto credessi, anche ai più alti livelli. Persino il cardinale Ruini, in una delle sue molte interviste al “Foglio” (16 marzo), che trovo citata nel “Manifesto” di due giorni dopo, vede nelle accuse che corrono soprattutto “una campagna diffamatoria contro la Chiesa”, visto che si concentrano “sui casi di pedofilia dei sacerdoti cattolici, sicuramente non più frequenti di quelli di tante altre persone”. Si tratta, a suo avviso, di un vero e proprio “assedio etico al clero”, di “un tentativo di demolizione morale del cristianesimo che risale addirittura a Nietzsche”. E lasciando da parte Nietzsche, cui tocca, come spesso succede quando a parlare sono degli intellettuali di una certa età, una sorta di ruolo di capro espiatorio per qualsiasi possibile abominio del moderno, la colpa, naturalmente, è additata nel clima di liberazione sessuale che si respira di questi tempi.
Ora, il discorso è più grave di quanto sembra. Ruini, in fondo, non è un semplice giornalista, sia pure eminente. Non sarà il più il vicario del papa per la diocesi di Roma, né il presidente della CEI, ma resta, come, del resto, padre Lombardi, un pezzo grosso dell’istituzione ecclesiastica. E il fatto che un pezzo così grosso, mentre le accuse fioccano, i vescovi di mezzo mondo sono costretti a disseppellire dagli armadi curiali cumuli di scheletri e il papa, manifestamente angosciato, si barcamena come può, pensi di cavarsela con un semplice “ce l’hanno con noi” e un patetico “così fan tutti”, neanche fosse un Bettino Craxi qualsiasi, dimostra davvero che in Vaticano hanno perso la testa. Perché non basta ricordargli, come fa Marco d’Eramo su quel numero del “Manifesto”, che le “accuse credibili” rivolte ai preti americani, secondo il John Jay Report, che non è un libello anticlericale, ma un’indagine commissionata dalla Conferenza Episcopale statunitense, sono state, tra il 1950 e il 2002, ben 6.700, nei confronti di 4.392 sacerdoti, che, sui 110.000 in servizio nel periodo, fa il 4%, come a dire un prete su venticinque, una cifra che per i bravi cattolici dovrebbe essere piuttosto inquietante ed è ben superiore, comunque, a qualsiasi percentuale si possa rilevare nel mondo laico. Non basta neanche fargli notare che la Chiesa non ha il diritto di mostrarsi tanto liberale e assolutoria con se stessa, dopo aver demonizzato per secoli i problemi sessuali degli altri, nella indefessa e diuturna pretesa di controllare nei dettagli quell’aspetto della vita dei fedeli (e non solo di quelli) e di assoggettarla alle proprie normative, tanto da fare “della continenza sessuale la sua ragion d’essere” e la sua “indefettibile bandiera ideologica”. Bisogna, ahimè, affrontare il problema delle responsabilità specifiche sulle quali dovrebbe autointerrogarsi una società come quella ecclesiastica, una comunità di soli maschi, educati nella profonda diffidenza dell’elemento femminile, soggetti a una disciplina che confina qualsiasi approccio di tipo sessuale nell’ambito del divieto e della deprecazione, di maschi, cioè, che vivono nelle condizioni ideali perché qualsiasi devianza, questa compresa, si instauri e si diffonda.
“Sì, certo, lo fanno tutti”
Intendiamoci. Non voglio sostenere che la pedofilia sia un monopolio (o una specialità) della Chiesa. Esisteva prima che la Chiesa esistesse e oggi alligna anche in paesi che non sono mai stati soggetti alla sua influenza. E si tratta, indubbiamente, di un fenomeno difficile da trattare, più difficile di quanto, troppo spesso, si faccia. Come tutte le manifestazioni umane, come ogni frutto delle molte pulsioni oscure che agitano la nostra psiche, può essere giudicata in parecchi modi, ma va, innanzitutto, compresa. Non siamo più ai tempi dei roghi né a quelli dell’Antologia Palatina ed è molto probabile che oggi quanti vi indulgono, preti compresi, non la vivano tanto come un fatto di liberazione quanto come una condanna, che siano, cioè, altrettanto vittime delle proprie vittime. È un tema, questo, su cui anche chi la considera l’abominio degli abomini non può esimersi dal riflettere, se non altro per chiedersi come sia possibile che alcuni suoi confratelli in umanità siano caduti (e cadano) tanto in basso. Ed è parimenti necessario interrogarsi sulle conseguenze culturali e sociali di questa grave deformazione comportamentale da parte di personaggi che godono, in virtù del proprio stesso status, di un’ampia fiducia all’interno della comunità. L’unica cosa che non si può fare è ridurla a uno dei tanti fastidi del quotidiano, sbarazzarsene come di una specie di dolorosa normalità. Di un “sì, certo, lo fanno tutti” non si può accontentare davvero nessuno, cardinale, giornalista e uomo comune, e il vero abominio, in un certo senso, è quello di chi lo propone.