Bío Bío chiama sorelle le nubi, e parla loro del suo corpo svuotato, prigioniero della diga. Pewen Ñuke e Pewen Wentru, gli alberi araucaria araucana, chiamano sorelle le nubi e parlano loro dei loro corpi abbattuti da macchine moderne. Mawida, la montagna, chiama sorelle le nubi e parla loro del saccheggio delle sue viscere. Mapu Ñuke, la Madre Terra, ferita e ammalata, sente il dolore dei suoi figli e figlie le cui vite sono state rubate (1).
Questo libro parla di un popolo fiero e della sua lotta a oltranza per l’identità e la dignità nelle sue relazioni con i due stati nell’angolo più a sud del Sud America, l’Argentina e il Cile. Parla della lotta intrapresa per parlare la propria lingua, la “lingua della terra”.
I Mapuche sono un popolo orgoglioso, che ha resistito agli invasori spagnoli per più di tre secoli fino a che, negli ultimi decenni del XIX secolo, capitolò di fronte a un attacco a tenaglia da parte degli eserciti delle due nuove nazioni.
Dalla capitolazione in poi hanno subìto un ridimensionamento; una letterale “riduzione”, visto che le riserve in cui furono deportati dopo la conquista erano note come reducciones. E in effetti sono stati ridotti in molti sensi e modi: ridotti alla lotta per la sopravvivenza nelle loro comunità rurali, minacciati da proprietari terrieri e da multinazionali senza scrupoli, obbligati a guadagnarsi da vivere ai margini delle città come braccianti o domestici.
Insieme all’orgoglio, un altro aspetto del carattere Mapuche è la sfiducia nei winka (i non Mapuche), e i diversi motivi verranno esposti più avanti. Scrivendolo da winka, mi sento privilegiato che molti Mapuche abbiano avuto sufficiente fiducia nel sottoscritto da affidarmi i loro pensieri e punti di vista, le loro speranze e paure, perché fossero inserite in questo libro.
Perché dovremmo imparare la lingua della terra?
“Lingua della terra” è la traduzione di mapudungun, il nome che i Mapuche danno alla propria lingua. La parola mapuche stessa significa “popolo della terra” (mapu-terra, che-popolo).
Cosa strana per noi, sempre alle prese con il dilemma di quale classificazione ci si adatti meglio. Le idee su quali etichette appiccicarci addosso – etichette razziali, culturali, religiose, geografiche o ideologiche – sono tante quante siamo noi. Per i Mapuche la questione è invece molto semplice: loro sono la gente, la gente della terra, alla terra inestricabilmente legati, e la loro lingua sgorga dalla loro connessione con la terra. Non la terra intesa puramente come suolo ma, in senso esteso, il territorio con tutto ciò che era, è e sarà associato ad esso.
Philip Wearne lo spiega bene nel suo libro Return of the Indian:
I popoli indigeni del continente americano definiscono se stessi essenzialmente mediante la loro relazione con la terra. Mentre i nomi che danno a se stessi – Inuit, Kayapó, Runa (Quechua) – spesso significano semplicemente “gente”, i nomi che danno ai loro territori per lo più denotano il concetto di “terra”. Le due cose sono inseparabili. Come rimarcò nel 1985 il World Council of Indigenous People (Concilio mondiale dei popoli indigeni), una federazione globale che ha sede in Canada: «Il modo più sicuro per uccidere noi popoli indigeni, oltre a spararci, è di separarci dalla nostra porzione di terra». […] La terra è identità – passato, presente e futuro. La terra è, in senso sia letterale che figurato, la casa degli antenati, della gente che ha dato la vita alla generazione attuale e che chiede venerazione secondo i riti e i costumi tradizionali. La terra rappresenta, secondo le parole di un attivista indigeno, «le pagine viventi della nostra storia non scritta» (2).
L’identità dei Mapuche risiede nella terra, con la quale hanno una relazione profonda. Noi, dall’altra parte, siamo moderni e sofisticati cittadini del mondo. Cosa avrebbe a che fare la loro lotta con la nostra vita? Ci spostiamo in scatole metalliche e viviamo in ambienti con aria condizionata, guardiamo il mondo attraverso vetrate, il cemento ci protegge da quello stesso mondo. Rischiamo di passare la maggior parte della vita senza il contatto con quella terra dalla quale veniamo e alla quale inevitabilmente torneremo.
In questo preciso momento, dall’altra parte del pianeta, i Mapuche stanno combattendo per riconquistare la loro terra, che gli è stata tolta un secolo, un decennio, oppure mesi, settimane o giorni fa.
Così come stiamo perdendo contatto con la terra, stiamo perdendo anche contatto con i suoi ritmi. La ciclicità del tempo dall’alba al crepuscolo e poi di nuovo all’alba, e i sottili cambiamenti delle stagioni, sono del tutto indifferenti per noi; dai tempi del canto del gallo, attraverso i rintocchi dell’orologio della fabbrica, siamo infine approdati alle cifre digitali sullo schermo di un pc.
In contrasto con il tempo ciclico della natura, con la sua intrinseca attesa di un rinnovamento e di un ritorno, la moderna lancetta del tempo non si muove in cerchio ma inesorabilmente in avanti, e questo noi lo definiamo progresso. Con l’orologio digitale sono sparite anche le lancette e il loro girare. Ora il tempo è un numero che cresce sempre.
I Mapuche fanno parte degli “eretici” (3) che rifiutano simili concezioni di un tempo piatto e lineare. La loro celebrazione dell’anno nuovo, che si tiene il 24 giugno, è chiamata Wiñoy Tripantu, “il ritorno dell’anno”, quando il ciclo ricomincia.
Viene naturale concludere che noi, nel mondo “sviluppato”, abbiamo perso il senso di unione con la terra e la percezione del tempo ciclico che deriva da questo legame; scordando tutto ciò, ha perso di significato il nostro posto nel tempo e nella storia. Forse questo non significa niente per chi è costantemente abbagliato da un mercato ricco di possibilità di acquisto, da tutte le informazioni a disposizione ventiquattr’ore su ventiquattro, o dal ronzìo di una comunicazione istantanea globale. Ma se avete un minimo sentore che il cosiddetto “progresso” per ogni guadagno procura una perdita, allora potreste volermi accompagnare insieme ai Mapuche nel loro viaggio di riscatto.
In Argentina e in Cile durante alcuni periodi gli insegnamenti di storia sono stati impartiti con grande fervore, e la glorificazione dello stato promossa con zelo. Nel momento in cui stavo rimuginando sull’idea di scrivere un libro sui Mapuche, trovai per caso un testo di storia su una bancarella di libri usati a Buenos Aires; una scoperta che contribuì a mettermi davanti ad una tastiera. Sfogliando le pagine che trattavano della “necessità” della Conquista del deserto (nome con cui si indica il ruolo ricoperto dall’Argentina nell’azione a tenaglia anti-Mapuche), lessi queste parole:
Eravamo praticamente senza possesso di gran parte del nostro paese. I reparti di frontiera avevano penosamente fallito nella loro missione di contenere il selvaggio che occupava una vasta area del territorio argentino e che costituiva una minaccia e una vergogna nazionale4.
Argomentazioni di questo tipo non sono affatto insolite in Argentina e in Cile anche al giorno d’oggi; coloro che venivano considerati selvaggi sono ancora visti da molti come una “vergogna nazionale”.
Simili “libri di storia”, e i pregiudizi sottesi di chi li ha scritti, non lasciano alcuno spazio per un punto di vista differente. In un certo senso questo mio libro è il tentativo di rivendicare quello spazio.
Ascoltate. Voi siete la gente della montagna.
Mi sentite? La vostra lingua è morta. È vietata.
Parlare la vostra lingua della montagna
non è permesso in questo luogo.
Non dovete parlare ai vostri uomini.
Non è permesso. Capite?
Non dovete parlarla. È bandita.
Voi potete parlare solamente la lingua della capitale.
Quella è l’unica lingua permessa in questo luogo.
Se tentate di parlare la vostra lingua della montagna
in questo luogo verrete puniti severamente.
Questa è la sentenza del governo militare.
È la legge. La vostra lingua è vietata.
È morta. A nessuno è permesso parlare la vostra lingua.
La vostra lingua non esiste più.
Harold Pinter
La lingua della montagna |
Siamo ancora vivi!
Muriò la ultima ona! (È morta l’ultima ona!) è il titolo di un articolo apparso su «Clarín», il principale quotidiano argentino, nel 1999. L’articolo annunciava la morte di Virginia Choinquitel, 56 anni, verosimilmente l’ultima sopravvissuta degli Ona, o Selknam, le cui origini nella Terra del Fuoco risalgono a 9.000 anni fa. «Virginia era l’ultima indiana pura. Non parlava una parola di Ona, ma era fiera della sua razza. Conosceva la storia del suo popolo e la sua cultura meglio di chiunque altro»; queste le parole attribuite a Padre José Zink, prete cattolico e amico di Virginia (5).
Diversamente dagli Ona, i Mapuche sono ancora decisamente vivi.
Nel luglio 1999 ero a Buenos Aires e fui invitato da alcuni amici, che sapevano del mio interesse per le questioni e le lotte legate ai diritti della terra, a una conferenza di alcuni Mapuche arrivati da Esquel, nella provincia di Chubut in Patagonia.
La piccola sala riunioni del sindacato era gremita. Era una serata fredda – a luglio è pieno inverno in Argentina – e molti studenti e attivisti giunsero all’appuntamento sfoggiando kefiah bianche e nere, così come uno dei relatori. Erroneamente supposi che fosse per manifestare solidarietà con la causa palestinese, fino a quando qualcuno mi spiegò che ne erano arrivate in gran quantità e che venivano vendute a poco prezzo in tutta la città.
Salirono sul podio i tre relatori, tutte donne Mapuche: Evis e Graciela, del Comitato 11 ottobre delle comunità Mapuche-Tehuelche, ambedue sui vent’anni, e María Luisa, un’anziana signora della comunità Gualjaina, stanziata a circa 70 km da Esquel. Evis e Graciela erano werken (portavoci; letteralmente “messaggeri” in mapudungun) dell’Organizzazione 11 ottobre, e mi fu fatto capire che María Luisa era una machi (leader spirituale). Le machi vengono a volte screditate e sono spesso oggetto di offese da parte dei winka, poiché la loro centralità nelle cerimonie religiose Mapuche e le loro arcane conoscenze fanno sì che ancora oggi siano sospettate e accusate di stregoneria. Le tre donne avevano viaggiato per 1.200 km da Esquel alla capitale. Anche se in termini di mera distanza geografica io ero partito da molto più lontano, il loro viaggio era stato ben più lungo per due motivi: primo, tre biglietti di andata e ritorno in pullman fino alla capitale significavano uno sforzo notevole per un’organizzazione capace di grande dedizione ma dai fondi limitati; in secondo luogo, era necessario un enorme salto mentale per colmare la distanza fra Esquel, piccola città di provincia con meno di 30.000 abitanti, in larga maggioranza Mapuche, e Buenos Aires, moderna e tentacolare capitale cosmopolita con lo sguardo costantemente rivolto all’Europa e agli Usa.
Ciò richiedeva un aggiustamento di prospettiva maggiore di quello che veniva richiesto a me. Erano venute nella capitale per gestire un laboratorio sulla ceramica Mapuche e per parlare delle lotte del loro popolo per il riconoscimento e il rispetto. A prima vista potrebbe sembrare che le due attività non abbiano molto in comune; ma non era questo il caso, l’avrei scoperto di lì a poco.
L’ultimo giorno di libertà
Fu nel 1992, durante gli eventi connessi alla commemorazione dei 500 anni dal 12 ottobre 1492 – la data più luttuosa per i popoli nativi americani – che molti Mapuche in Argentina cominciarono a coltivare quella forza interiore che nasce dal sentirsi parte di una causa comune, e a farsi coinvolgere nel movimento di rinascita del popolo Mapuche.
Evis aprì l’incontro di Buenos Aires raccontando come la loro organizzazione si era formata nel 1992:
Non era né organizzato né pianificato; successe spontaneamente. Le celebrazioni ufficiali per il cinquecentenario si avvicinavano e non si parlava di fare un contro-evento, non era venuto in mente a nessuno. Eppure non potevamo permettere che tale opportunità venisse sprecata; dovevamo fare qualcosa. Così quattro di noi formarono un comitato per organizzare un festival. Ci denominammo Comitato 11 ottobre, per commemorare la data dell’ultimo giorno di libertà in America. All’evento parteciparono 500 persone; un numero enorme, se si considerano le dimensioni di Esquel. Furono coinvolti fratelli e sorelle delle comunità circostanti, e l’evento mutò da pura commemorazione dell’ultimo giorno di libertà a uno spazio aperto teso a denunciare le ingiustizie in cui si poteva prendere parte a diverse attività. Montammo un palco in piazza, la gente vi saliva per spiegare le ragioni per cui aveva deciso di unirsi a noi, per dire che cosa stava succedendo nelle loro comunità sparse intorno a Esquel. Non solo: i presenti si impegnarono a dare il loro appoggio e a cercare un modo per organizzare la lotta.
Il processo di denuncia delle ingiustizie giunse all’apice quando il pubblico di Buenos Aires venne a sapere dalle tre donne di Futa Huau, località in cui la scuola della comunità era stata espropriata da un latifondista locale che aveva recintato quella terra e la usava come pascolo. Conoscemmo anche la vicenda della comunità di Prane, espulsa dalla sua terra già nel 1938: da quando era tornata a reclamare i propri terreni, la comunità era stata minacciata dall’esercito che lì aveva iniziato a svolgere esercitazioni militari. Alcuni soldati una volta avevano addirittura inscenato una finta esecuzione per spaventare i membri della comunità e farli smettere di protestare.
E poi ci sono i Benetton, questi sedicenti campioni di armonia interrazziale, che oltre a sfrattare alcune famiglie, hanno deviato il corso d’acqua della comunità Vuelta del Río, privandola dell’accesso al fiume e causando così siccità e morìa di animali. Comunità e gruppi di solidarietà hanno tentato in infiniti modi di attirare l’attenzione delle autorità sugli abusi subìti dalle famiglie sfrattate. Politici e organi di governo hanno rifiutato di incontrarli, oppure hanno promesso di occuparsi della cosa ma poi non l’hanno fatto, o ancora – e forse questo è ancora più umiliante – li hanno lasciati nei corridoi ad aspettare per incontrare funzionari che poi non si sarebbero fatti vedere, costringendoli a tornare a casa a mani vuote.
Evis spiegò che l’articolo sulla morte dell’ultima Ona era emblematico di un modo di pensare tipico dello stato argentino e della sua élite metropolitana quando tratta la questione dei popoli originari dell’Argentina: e cioè considerarli un problema già risolto, dato che i sangue misto non sono puri, e i purosangue verosimilmente si estingueranno presto.
Per contrastare questo modo di pensare, il Comitato 11 ottobre stava per dar vita a un progetto denominato Petú Mogeleiñ (Siamo ancora vivi). Scopo del progetto, attirare l’attenzione sui problemi delle comunità, consentire ai Mapuche urbani di riscoprire la loro identità culturale – in verità, spesso, di scoprirla per la prima volta – e infine diffondere presso i winka la profondità e la vivacità della cultura mapuche.
Dopo la conferenza fui presentato a Evis, Graciela e María Luisa, e fui in grado di saperne di più sulle loro vite e sulle comunità di provenienza. Dissi che le loro parole avevano avuto un poderoso impatto su di me, e promisi che avrei fatto del mio meglio per aiutarle, magari fornendo loro una cassa di risonanza in lingua inglese. C’è voluto un po’di tempo, anni, ma nel 2007 uscì Language of the Land, il mio tentativo di mantenere quella promessa. Ora esiste anche questo libro in lingua italiana.
Il progetto, cominciato da un libro di seconda mano trovato su una bancarella, ha preso forma grazie all’incontro casuale con tre donne straordinarie, che recavano un messaggio davvero importante sulle lotte dei loro popoli dimenticati, e dalla consapevolezza che avrei potuto fare qualcosa per diffondere tale messaggio.