I risultati delle ultime elezioni amministrative confermano sostanzialmente un andamento iniziato a ridosso di ‘mani pulite’, l’operazione di smantellamento del sistema dei partiti che aveva occupato la scena politica italiana, prima della caduta del muro di Berlino.
Nonostante il forte aumento dell’astensione e la diminuzione in voti assoluti dei ‘vincenti’, la sempre più spinta personalizzazione dello spettacolo elettorale è riuscita ancora una volta a convogliare alle urne gli individui-massa che si identificano nei loro leader e che si sentono parte integrante della partita (anche se non toccano mai palla...). È il risultato scontato di un sistema bipolare, costruito ad arte per superare il modello precedente, quel sistema proporzionale basato sul partito-comunità militante, distrutto da tangentopoli e dalla liquidazione delle esperienze legate al ‘vecchio’movimento operaio.
Un sistema che ha trovato nell’uso martellante ed aggressivo del mezzo televisivo lo strumento più idoneo per indirizzare le ‘scelte’, facendo leva su un’illusione di partecipazione, stimolata, sia a destra che a sinistra, da abili anchorman.
In questa rappresentazione non vi è dubbio che Berlusconi sia ancora l’attore più congeniale, sia per la forza dei suoi argomenti, governativi, economici e mediatici, sia per l’indiscussa capacità manipolatoria e seduttiva che sa esercitare su quanti si riconoscono nella sua visione del mondo e che ne fanno il polo di coordinamento di tutti quei settori sociali e politici interessati alla cementificazione del territorio, allo smantellamento di quel poco di welfare che resta, all’accaparramento della ricchezza sociale e alla mercificazione di ogni bene e di ogni rapporto.
Dietro l’ascesa della Lega Nord
Ma dentro il suo cono d’ombra sta crescendo la Lega. Una Lega che sta scendendo dal nord del paese, riprendendo il modello di partito-comunità, basato questa volta sull’identità territoriale, e che continua a presentarsi, nonostante il suo essere pienamente all’interno delle istituzioni e delle scelte governative, come forza antisistema, con i suoi ‘Roma ladrona’e le sue pulsioni secessioniste.
Ed è proprio grazie all’immaginario che essa continua a suscitare, di un fantomatico federalismo e di un altrettanto fantomatica autodeterminazione, che si può permettere di essere contemporaneamente partito di ‘slogan’e di governo: negli slogan che raccolgono gli umori di pancia raccattati nei bar, nel governo che persegue politiche centralistiche.
Una politica da doppio binario che si può permettere grazie alla sua struttura partitica assolutamente gerarchica, distribuita nel territorio, forte di un comunitarismo militante, basata sul culto del capo. D’Alema, a suo tempo, l’aveva definita ‘una costola della sinistra’. Chissà a quale ‘sinistra’faceva riferimento...
Certo è che la Lega pesca nei settori popolari, tra i lavoratori, magari incazzati con Berlusconi, ma assolutamente delusi da una sinistra che ha fatto della legalità e della lotta al deficit statale le sue principali bandiere. Ma che cos’è la legalità se non l’affermazione del potere dello Stato nei confronti dell’individuo? che cos’è la legge se non la codificazione dei rapporti di forza definiti da un parlamento nel quale gli eletti rispondono, più che ai loro elettori, ai propri interessi di gruppo, di casta, di classe? E cosa vuol dire ‘riduzione del deficit statale’se non aumento della tassazione diretta ed indiretta da parte di chi le tasse le ha sempre pagate – i lavoratori dipendenti – e riduzione delle spese sociali nei confronti degli stessi settori popolari?
Certo è che l’aumento di peso specifico della Lega non potrà avere che degli effetti sulle politiche generali, soprattutto nel campo che le sta più a cuore: la lotta all’immigrazione. Dobbiamo quindi aspettarci ulteriori restringimenti securitari, nuove campagne d’ordine, rinnovate palate d’odio xenofobo: da un punto di vista elettorale, evidentemente, sono strumenti che pagano. Ma quanto è il costo che l’intera società dovrà pagare per il clima velenoso e criminale che vanno propagando?
La lotta contro l’immigrazione clandestina
Nella società globalizzata la libertà di movimento vale solo per le merci; non vale per i lavoratori, sottoposti a politiche di controllo statale (frutto storico della commistione tra nazionalismo e sindacalismo riformista). Il capitalismo è nazionalista solo per opportunismo e subisce di fatto le politiche ‘protezionistiche’statali: per lui, importare lavoratori e metterli in concorrenza tra loro, è fondamentale. I lavoratori immigrati gli servono per tenere bassi i salari e per dirottare la collera dei locali, alle prese con la riduzione delle garanzie sociali, nei loro confronti. Senza ‘protezionismo’statale l’immigrazione sarebbe palese e possibile di sindacalizzazione, gli immigrati potrebbero muoversi con più facilità tra il loro paese d’origine e i luoghi di lavoro, potrebbero vivere e rapportarsi con più facilità con gli autoctoni. La clandestinità è invece funzionale all’esigenza del lavoro nero, a basso costo, dei settori più ‘marginali’dell’economia che scaricano gli enormi costi, derivati dal mantenimento dei canali criminali dell’immigrazione clandestina (mafiosi e scafisti), sull’intera società. Ricordiamoci sempre che l’immigrazione è sempre originata da domanda e non da offerta di lavoro.
In quest’ottica la lotta all’immigrazione clandestina è un tormentone puramente funzionale alla propaganda leghista – che ha le sue radici nelle regioni più produttive d’Italia –, ma è un tormentone che ha ricadute pesanti, insopportabili, sulla vita di tanti lavoratori, di tanti immigrati che, in regola con le carte o meno, devono sottostare a normative punitive, a burocrazie soffocanti, a pretese padronali senza limiti, a umiliazioni sbirresche. Il non fare fronte alle esigenze abitative, di scolarizzazione, sanitarie, di tante persone, scaricandole semplicemente sugli autoctoni, alle prese, da parte loro, con gli effetti di una crisi economica sempre più pesante, non può che generare insofferenza, xenofobia, razzismo: il terreno di cultura più favorevole allo sviluppo di regimi autoritari.
Sarà un caso che si fa un gran parlare di ‘presidenzialismo’a nomina diretta popolare?
Una nota di ottimismo potrebbe derivare dalla crescita impetuosa dell’astensionismo che pare caratterizzarsi non più e non solo come semplice disaffezione per diventare denuncia e protesta. Ma per non rimanere sulla carta come dato meramente statistico il popolo dell’astensione deve passare dalla diserzione dall’urna alla lotta aperta, all’autorganizzazione.
Saprà farlo? È questa la nostra scommessa per il futuro.