Il mio plastico.
Auguri al mondo
di Fulvio Abbate
Al centro mi piacerebbe
ci fosse il ritratto di Durruti.
Cara “A”,
mi chiedi un contributo per te stessa. Riflessioni sparse, dai.
Prendendo atto dell’impossibilità di costruire un discorso compiutamente tale, dopo essere stato visitato da alcune possibilità dialettiche (tutte regolarmente cestinate un istante dopo la loro rivelazione) sono giunto alla conclusione di fare dono ai compagni e ai lettori di un lungo elenco di oggetti che, almeno nei miei intenti, dovrebbe prima o poi rappresentare l’ampio corpus di una riflessione poetica sul secolo delle rivolte – il Novecento, certo, ma anche i giorni che ancora ci attendono, a meno che noi si voglia rinunciare, cosa cui non credo, alla rabbia – sulla possibilità di issarci, come già King-Kong sul pennone della soddisfazione erotica e rivoluzionaria.
Se ho citato il gorilla, la ragione c’è, e riguarda il nostro comune amore per la Spagna libertaria. C’è infatti la foto di un blindato della Cnt-Fai in cima al quale, mani ignote, hanno pitturato in modo assai visibile e marcato le referenze anagrafiche del divo hollywoodiano, il più struggente, il più puro di cuore. King-Kong, appunto.
Dimenticavo: l’altro giorno ha ascoltato l’ultimo discorso di Salvador Allende, pronunciato da Radio Magallanes sotto i colpi dell’aviazione golpista l’11 settembre 1973. Salvador, parlando al futuro, a coloro che sarebbero un giorno venuti ad ascoltare la sua storia, a sapere della sua sconfitta, pronunciava se stesso, il suo fantasma imminente attraverso “il metallo tranquillo della mia voce”, anzi: “…el metal tranquilo de mi voz”. Ma sto rubando tempo all’ideale plastico della soddisfazione storico-poetica che ho appena promesso.
Bene, al centro del plastico mi piacerebbe ci fosse il ritratto di Durruti, in omaggio all’Eroe ma anche alla mia ormai leggendaria emittente che gli rende onore – www.teledurruti.it – così come è venuto fuori dai pennelli di un pittore amico siciliano, Francesco Sarullo. Durruti, liberato dall’abisso d’ogni ombra sullo sfondo giallo della leggenda.
E, subito accanto, allo stesso modo del “primo cent.” che Paperon de’ Paperoni custodisce alle spalle della scrivania, una banconota “anarchica” della comunità di Binefar-Huesca, autentico gioiello di una numismatica stellare, astrale. Perdona l’insistenza con la terra iberica, ma proseguirei con una minuscola foto che mostra i volti di tre faccette del 1936, le stesse cui ho dedicato questo distico: “Tre ragazzine nel vento della Spagna repubblicana del 1936, l’adolescenza della rivoluzione. Un romanzo fotografico in pochi centimetri, un capolavoro, le nostre pupille sul lavoro delle modiste, le nostre pupille sulla trinità del candore. Ovunque voi siate, vi giunga un bacio di riconoscenza”.
Aggiungerei ancora il modellino della statua di Picasso che si trova a Chicago: un cavallo, sia pure stilizzato, è lì che si conclude l’avventura dell’auto dei Blues Brothers nel film di John Landis del 1980, inutile aggiungere che l’uso cui è destinato presso di me, nel mio plastico, è di semplice fermacarte, sotto il quale, almeno in questo momento, viene salvato dalle mani del vento un minuscolo foglietto che porta scritta una frase che di solito attribuiamo a Albert Camus, “Quello che conta tra amici non è ciò che si dice, ma quello che non occorre dire.”.
Ovviamente, il mio plastico è un’opera aperta, intanto però penso possano bastare queste righe che sono servite a presentarlo.
Auguri a tutti noi, auguri al mondo.
Gli ebrei anarchici
(e soprattutto le ebree)
di Furio Biagini
Per Emma Goldman, i diritti e la libertà dell’individuo dovevano essere al centro di ogni politica libertaria.
Abbiamo spesso narrato, anche sulle pagine di questa rivista, del movimento anarchico ebraico negli Stati Uniti, ma mai abbastanza del ruolo che le donne vi svolsero. Storiograficamente il contributo delle donne anarchiche ebree è stato associato al nome di Emma Goldman, anche se le sue posizioni ideologiche non coincisero con quelle della maggioranza delle sue compagne. Per la Goldman, i diritti e la libertà dell’individuo dovevano essere al centro di ogni politica libertaria, politica che non doveva invece dare priorità alle lotte per l’emancipazione dei lavoratori, come sostenevano le militanti delle organizzazioni anarchiche ebraiche.
La prima organizzazione anarchica ebraica dal significativo nome Pionire der Frayhayt (Pionieri della libertà) fu fondata nel 1886 dopo i fatti di Haymarket Square e la condanna di August Spies, Gorge Engel, Adolph Fisher, Louis Lingg, Samuel Fielden, Justus Schwab, Albert Parson e Oscar Neebe. Affiliata alla Associazione internazionale dei lavoratori, era formata da una decina di giovani giunti dalle remote regioni dell’impero zarista. Non si deve, infatti, dimenticare, che la nascita del movimento anarchico ebraico è indissolubilmente legata alla corrente migratoria proveniente dall’Europa dell’Est. Gli anarchici reclutarono principalmente nei quartieri popolati dagli ebrei immigrati, dove la povertà e lo sfruttamento erano la realtà quotidiana. Tra i vicoli spaventosamente sporchi e le case spesso ridotte in rovina non mancava una riserva illimitata di manodopera a buon mercato composta in prevalenza da donne e bambini. Nel nuovo mondo la donna ebrea portava con sé, unitamente al suo materasso di piume, ai candelieri e alle pentole, le sue doti orientate alla sopravvivenza, energia, robustezza, pragmatismo, indispensabili in Europa orientale per far sopravvivere se stessa e la propria famiglia. L’ingresso delle donne nel mondo del lavoro, a cui del resto erano abituate, le emancipò dal controllo maschile e le mise in contatto con la dura realtà dei sweat-shop che significò supersfruttamento in locali insalubri, dall’alba al tramonto, in condizioni igieniche pessime e per un salario da fame. Emma Goldman, Rose Perotta, Marie Ganz, Mollie Steimer e molte altre avevano lavorato in quei terribili opifici.
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Emma Goldman |
All’interno dei popolosi rioni dell’East Side newyorkese, oltre a dare un efficace contributo alla organizzazione sindacale di un proletariato arretrato e indisciplinato, le donne furono particolarmente attive nei progetti educativi rivolti ai bambini e agli adulti, sul modello della Scuola Moderna di Ferrer, per favorire lo sviluppo delle singole potenzialità al fine di preparare i membri della futura società anarchica. Lo stesso «Di Fraye Arbeter Shtimme» (La libera voce del lavoro) ospitava una rubrica femminile, dove le donne potevano liberamente esprimersi, a cui dettero il loro contributo Anna Margolin, Fradel Shtok e Yente Serdatzky. Come ricorda Hadassa Kosak «le donne ebree anarchiche erano in prima fila nelle campagne organizzate dai gruppi di difesa delle libertà civili per limitare gli abusi del potere statale. Pauline Turkel organizzò una manifestazione al Madison Square Garden per conto di Tim Mooney e Billings Warren nel 1917. Perotta fu alla testa della campagna per la liberazione di Mooney dal carcere nel 1934. Molte altre le iniziative che videro la loro partecipazione, inclusa la campagna per l’amnistia per gli anarchici russi promossa dalla Anarchist Red Cross. Hilda Adel aiutò a fondare il Political Prisoners’ Defense and Relief Committee nel 1918 per aiutare i manifestanti che erano stati arrestati per essersi opposti all’intervento degli Stati Uniti nella Prima guerra mondiale. Rose Pesotta, Emma Goldman, Rose Mirsky, e molte altre hanno lavorato instancabilmente per la difesa di Sacco e Vanzetti nel 1920».
La propaganda contro la prima guerra mondiale, la difesa della Rivoluzione russa e l’opposizione all’intervento americano contro la repubblica dei soviet, che trovò spazio sulle pagine di «Der shturm» (La tempesta) e di «Frayhayt» (Libertà), vide la partecipazione di Mary Abrams, Mollie Steimer, Hilda Adel, Clara Rotberg Larsen e Sonya Deanin.
Nel decennio compreso tra la fine della prima guerra mondiale e l’inizio del New Deal, il movimento anarchico ebraico andò lentamente indebolendosi, principalmente per la repressione poliziesca del governo, ma soprattutto per l’affermazione del comunismo sovietico che fece impallidire il prestigio rivoluzionario dell’anarchismo. Da quel momento la sua storia è quella dell’invecchiamento dei suoi militanti e della sua lenta perdita di influenza dovuta anche alla progressiva integrazione delle minoranze etniche nella società americana, sempre meno tentate dalle speranze rivoluzionarie e sempre più attirate dalla sicurezza e dal benessere economico. Tuttavia, piccoli gruppi anarchici con le loro pubblicazioni continuarono a sopravvivere fino agli anni settanta del secolo scorso, ma restarono marginali anche quando la lotta per la liberazione sessuale fece di Emma Goldman l’icona del movimento femminista.
Anarchia
della comunicazione
di Gaia Raimondi
Il linguaggio, uno dei tanti strumenti della vastissima gamma comunicativa, ha un forte potere costruttivo.
Nel mondo attuale la comunicazione è forse il più grande e complesso veicolo che l’essere umano possieda per poter interagire e plasmare la realtà. Proprio in virtù del suo potere Creativo – poiché quando pronuncio una parola nella mente dell’altro ne sto effettivamente creando un’immagine, associata ad un suono – facilmente arriva a trasformarsi in strumento di controllo e di dominio.
Grazie al potere poliedrico del linguaggio, grazie ai molteplici piani interpretativi su cui può rimbalzare un messaggio, modificandone il suo contenuto a seconda dell’intenzione dell’interlocutore, dell’interpretazione che l’ascoltatore ne dà e quindi dal piano in cui il messaggio approda, la comunicazione ha al contempo una vivida componente subliminale, per cui non esiste mai, o quasi mai, un solo significato per un messaggio trasmesso.
Preziosa risorsa la polifunzionalità, ma anche temibile arma a doppio taglio, con effetti disastrosi; il più grave fra tutti, più della menzogna, la facoltà appunto di assoggettazione e persuasione dell’altro.
Chi vuol vedere sorgere “il sol del qui e ora” e non dell’avvenir, dovrebbe dunque mettersi a ragionare e studiare anche questo aspetto fondante delle relazioni sociali, cercando di costruire ponti contro le insidie e le barriere comunicative conseguentemente culturali, perché il mondo della comunicazione è un prodotto culturale per eccellenza, che può essere utilizzato al fine di attuare una reale mutazione nella mente degli individui.
Il linguaggio, uno dei tanti strumenti della vastissima gamma comunicativa, ha un forte potere costruttivo; proprio perché funziona grazie ad un’astrazione condivisa di concetti e alla creazione di idee ad essi associate dovrebbe, se ben messo in funzione e se stemperato con i colori delle nostre utopie, far nascere altrettante pennellate, sprazzi di luce e di idee in chi ascolta, che ridiano vita al grigio piatto e impastato della lobotomia massmediatica insita nei cervelli del mondo, per gran parte dominati da mezzi e da linguaggi fuorvianti.
In altre parole, dobbiamo continuare a parlare dell’anarchia, a raccontarla, testimoniarla, renderla concetto pieno e ricco nell’immaginario collettivo perché il dominio, per annientarla subdolamente, tenta sempre di relegarla a mero contenitore di stereotipi, frammenti deviati, immagini distorte e ritagliate ad hoc per denigrare e sminuire un’idea esagerata di libertà.
Non a caso gli anarchici hanno subito storicamente una repressione pesante nella propaganda e nei molteplici progetti di comunicazione. Clandestinità per stampa sovversiva, arresti e conseguenti migrazioni, periodici italiani stampati all’estero, in gran segreto, ne sono stati un esempio. Perché la comunicazione, come l’anarchia, tesse rapporti, stimola e sprigiona emozioni, suscita idee e provoca strani sussulti che talvolta trovano risvolti inaspettati. Per questo bisogna alimentare un’anarchia della comunicazione che sappia farci esistere nel mondo, che ci racconti, che dia alle persone la possibilità di immaginarci, di chiedersi il perché delle nostre affermazioni, dei nostri desideri, reali, che renda il sogno utopia e l’utopia azione e creazione, che possa diffondere i nostri bacilli di mutazione culturale.
Un’anarchia della comunicazione si fa, fra l’altro, continuando a far vivere A-rivista, scrivendoci dentro le proprie idee, raccontando di esperienze vicine e lontane, rendendola scenario dei tanti mondi possibili che ci circondano, leggendola, regalandola o meglio ancora vendendola a squarciagola fuori dalle stazioni delle grandi metropoli, per far sobbalzare incuriosito chi sta correndo a prendere il suo treno dopo la schiavitù salariata e ci inceppa quasi per sbaglio, in questa bomba che non esplode ma che spalanca la mente a chi ignaro, fino al giorno prima, aveva continuato a correre senza A-rrivare.
Diritti sindacali
e strapotere delle Corporate
di Gianni Alioti
È l’unica strada per frenare il potere crescente del capitale.
Dagli anni ‘80 i sindacati in tutto il mondo sviluppato, hanno fatto i conti con il loro declino: riduzione della base associativa e del potere negoziale. Ciò ha indotto a parlare, forse troppo sbrigativamente, di fine del sindacalismo. Sarebbe stato giusto parlare di trasformazioni e “spiazzamento” del ruolo sindacale, per effetto della globalizzazione e dei cambiamenti nei sistemi di produzione e nella catena del valore.
Nel mondo globalizzato i capitali, le tecnologie, i prodotti e i servizi, sono liberi di muoversi attraverso le frontiere, al contrario delle persone. Siamo di fronte a un “capitalismo itinerante” che impone le regole del gioco. Sono le imprese transnazionali, le grandi reti di logistica e distribuzione commerciale a determinare i flussi degli investimenti e i luoghi di produzione e lavoro, mediante la sub-contrattazione dei fornitori, i processi di de-localizzazione e la “produzione parallela” su scala mondiale.
I Governi (compresi quelli comunisti) competono nell’offrire vantaggi agli investimenti delle imprese transnazionali. Quanto accade, ad esempio, in Cina, in Malesia o nelle “zone economiche speciali” disseminate, soprattutto, in Asia e nell’America centrale, ci riporta alle condizioni di sfruttamento del lavoro operaio conosciute nel XIX secolo: salari inferiori ai minimi vitali lavorando fino a 72 ore settimanali; straordinari obbligatori senza alcuna stabilità occupazionale; punizioni degradanti e nessuna tutela sindacale.
Nel mondo sono centinaia di milioni i lavoratori privi del diritto fondamentale alla libertà sindacale. Inoltre, mentre le imprese transnazionali sono attori globali, la forza lavoro – anche quando è organizzata sindacalmente – lo è su base nazionale o aziendale e la contrattazione collettiva di settore o impresa avviene dentro le frontiere nazionali. I sindacati e i rappresentanti dei lavoratori hanno, pertanto, uno scarso o inesistente controllo, e nessuna influenza sulle scelte internazionali delle imprese. Per di più, le costanti minacce di delocalizzazione, disinvestimento e ristrutturazione obbligano i sindacati a giocare in difesa e, spesso, ad accettare salari più bassi e orari di lavoro più lunghi in cambio di garanzie occupazionali.
John Kenneth Galbraith aveva intuito, sin dagli anni ’60, che le imprese transnazionali, in assenza di controlli, esercitano uno strapotere e che, pertanto, era necessario articolare istituzioni sociali che fossero in grado di controbilanciare il peso e il potenziale predominio delle Corporate.
La democrazia per essere effettiva, in una società caratterizzata dal pluralismo di interessi, ha bisogno di un contrappeso tra i poteri e ciò deve valere anche per le Corporate. Per frenare e controbilanciare questo potere, affinché non si arrivi agli eccessi della Foxconn in Cina e allo stritolamento dell’individuo, deve svilupparsi la cooperazione transnazionale dei sindacati. Del resto, sin dalle sue origini il movimento operaio si era appoggiato a un’idea di cooperazione e solidarietà internazionale. A maggior ragione, oggi, è un imperativo sviluppare reti sindacali mondiali nelle imprese transnazionali, promuovendo la solidarietà, coordinando azioni su scala globale, impedendo la concorrenza tra i lavoratori. È l’unica strada per frenare il crescente potere del capitale che, negli ultimi 30 anni, ha ridotto la quota del PIL destinata ai salari e aumentato la disuguaglianza dei redditi.
Piacere e libertà
di Gianni Mura
A differenza di molti personaggi di spicco, Veronelli non ha mai raccontato barzellette.
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Luigi Veronelli |
Non era previsto il microfono, quando a Massenzatico gli anarchici reggiani hanno scoperto una lapide in ricordo di Luigi Veronelli, Gino per gli amici, e cadeva una pioggia leggera. Ma c’era abbastanza gente, le solite belle facce che già avevo visto a Gualtieri. Allora s’intitolava a Veronelli la saletta di una trattoria-osteria specializzata in uva fogarina. Le facce le avevo già viste, non tutte uguali ma simili, ai funerali di Gino, a Bergamo. E mi sono chiesto, a Massenzatico e anche dopo, se il ricordo di Gino fosse una particolarità di un pezzo d’Emilia più tenace oppure meno smemorato. Tanto per dire, perché non gli dedica una strada Milano, dov’è nato, o Bergamo, dove ha vissuto gran parte della sua vita?
Pioggia leggera, niente microfono e le parole dei relatori (meglio: amici) talvolta erano coperte dal rumore di grossi trattori che trainavano carri colmi di cassette d’uva. Bellissimo, ho pensato, questo sovrapporsi della vendemmia a Gino sarebbe piaciuto più di una sinfonia di Dvorak. Era la terra a stabilire le precedenze. Per lui, che aveva definito la vigna il canto della terra verso il cielo, i conti tornavano.
Bella e asciutta, ossia di poche parole, la lapide in marmo bianco di Carrara. Insegnò al mondo il piacere della libertà e la libertà del piacere. Libero, libertario e libertino Veronelli lo è stato davvero, e questa è la risposta alle domande che mi facevo sul pezzo d’Emilia, su Milano e Bergamo. In questo mondo, o meglio in questa palude che è diventata l’Italia, libertà è una parola che fa paura, a maggior ragione se inflazionata da chi ha il potere, che addirittura l’ha inserita nella sigla del partito. Piacere è una parola che dà fastidio. Le due parole collegate sono estremamente pericolose, se non sovversive. Ergo: niente vie da dedicare ai sovversivi, e bei tempi quando si poteva dare il foglio di via.
A differenza di molti personaggi di spicco, Veronelli non ha mai raccontato barzellette. Sono contento che sia morto prima di vedere (anzi, di sentire, perché era quasi cieco) lo sbando, lo smottamento, lo sprofondo. Se n’è andato col cruccio di non aver tradotto Apollinaire. Rimpiango il suo spessore umano, non la sua morte. E penso che un giorno, chissà quando, qualcuno si occuperà di restituire a Veronelli quello che gli spetta: la qualifica di intellettuale a pieno titolo, di artigiano del pensiero, al di là del lavoro (pure importantissimo) svolto nel campo del mangiare e bere, che sono una parte non esigua della nostra vita e strettamente connesse alla storia, all’economia, all’etica, all’ecosistema. “Luisin distingue gli angeli al primo batter di piume” scrisse Gianni Brera. Sì, aggiungo, ma in un paese che non riesce a distinguere i giganti nemmeno guardando le impronte che lasciano.
Indipendentismi
e anarchismi
di Gianni Sartori
La maggiore capacità del sistema tecno-industriale-militare dominante di strumentalizzare i movimenti di liberazione.
Considero l’indipendentismo uno degli sbocchi possibili delle lotte per i diritti e per l’autodeterminazione dei popoli. Possibile, non inevitabile o necessario. Ritengo inoltre che si possa parlare legittimamente di “movimento di liberazione” quando la lotta va anche contro il sistema economico responsabile dell’oppressione coloniale (capitalismo, imperialismo, neoliberismo, capitalismo di stato...). E questo esclude automaticamente dall’interessante dibattito partiti come l’Adsav bretone, i nostalgici fiamminghi neonazisti o la Lega Nord. Esclude anche il caso del Katanga degli anni Sessanta o di Santa Cruz nell’odierna Bolivia.
Per quanto riguarda la possibilità di un rapporto organico, “fisiologico”, stabile e strutturale tra anarchismo e indipendentismo di sinistra, personalmente sono sempre stato scettico. E questo nonostante i “casi della vita” mi abbiano portato a solidarizzare con irlandesi, baschi, corsi, curdi e altre “nazioni senza stato”, in quanto vittime di una forma di oppressione, una delle tante che devastano questa “valle di lacrime”. Tuttavia la Storia ha registrato lotte comuni contro il franchismo, contro l’imperialismo, contro il nucleare, in difesa dell’ambiente, dei diritti umani e dei prigionieri.
Non sono poi mancate reciproche contaminazioni, biografie familiari e personali che si sovrappongono, osmosi tra gruppi libertari e indipendentisti di sinistra. Vedi in Catalogna i rapporti del MIL di Puig Antich e Oriol Solé con l’OLLA (Organitzaciò de La Lluita Armada) e il caso, tragico ed emblematico, di Monteagudo: dalla FAI a Terra Lliure, all’Eta.
Qualche esempio, alla rinfusa.
Il patriota italiano Carlo Pisacane era un seguace di Pierre-Joseph Proudhon e sua figlia intervenne a favore degli anarchici arrestati per i moti insurrezionali del Matese (1877).
In Ucraina Nestor Makhno è diventato un eroe nazionale per aver combattuto, oltre che contro i reazionari “bianchi”, contro gli invasori austro-tedeschi e i bolscevichi, visti come espressione dell’occupazione russa.
Lo scultore anarchico basco Felix Likiniano fu l’ideatore del “Bietan Jarrai”, il serpente attorcigliato all’ascia, simbolo di Euskadi Ta Askatasuna, come raccontava l’etarra José Manuel Pagoaga (“Felix Likiniano, miliziano de la Utopia”). Alla fine degli anni settanta in Euskal Herria era presente un gruppo indipendentista libertario denominato “Askatasuna” (Libertà). In seguito, secondo José Antonio Egido “alcuni si sarebbero integrati in Herri Batasuna”.
Nei movimenti indipendentisti catalani degli anni ottanta (Moviment d’esquerra nacionalista, Crida a la Solidaritat...) le istanze libertarie erano presenti. Forse perché, come spiegava Carles Riera, parecchi militanti erano figli o nipoti di cenetisti e faisti. La scrittrice di origini catalane Eva Forest, incarcerata e torturata dopo l’attentato a Carrero Blanco, ha collaborato senza problemi, lei libertaria e figlia di un militante della FAI, con i movimenti indipendentisti baschi. Qualche modesto segnale anche in Irlanda. Nel programma politico di un gruppo repubblicano dissidente (v. Ruadhri O’Bradaigh) si parlava esplicitamente dei consigli operai come modello di liberazione citando Kronstadt (quella del 1921). In Bretagna poi c’erano gli anarchici-nazionalisti della CBIL (Coordination pour une Bretagne indépendante et libertaire).
Conclusioni? Negli ultimi anni ho dovuto prendere atto di alcuni cambiamenti. In particolare, la sempre maggiore capacità del sistema tecno-industriale-militare dominante (il vecchio “imperialismo fase suprema” etc. etc.) di strumentalizzare i movimenti di liberazione. Anche questo è un “effetto collaterale” della globalizzazione? L’indipendentismo ormai è diventato una variabile che si usa o si getta a seconda del caso. Come in Kossovo, Bosnia, Kurdistan, Timor Est, forse anche Irlanda...
Con “A” gli anarchici
son tornati a Lugano
di Gianpiero Bottinelli e Edy Zarro
Si tornava entusiasti da Milano con i numeri di A-Rivista, dal taglio giovanile e con stimolanti riflessioni.
Una domenica di dicembre del 1973 una cinquantina di giovani si ritrovarono in un esercizio pubblico di Lugano, nei pressi del fiume Cassarate. Il passaparola e volantini diffusi in Ticino (allora non c’erano né telefonini, né internet né social network) invitavano a un incontro anarchico. Dopo una discussione di un paio d’ore fu fondata l’Organizzazione anarchica ticinese, OAT, di fatto una unione che riuniva individualità e gruppi già attivi sull’onda della contestazione del ‘68. Il movimento anarchico “organizzato” nella Svizzera italiana riprendeva vivacemente, dopo quasi tre decenni di vuoto.
Infatti, rari erano i compagni delle due generazioni precedenti rimasti in Ticino: Carlo Vanza, Antonietta Peretti, Clelia Dotta... e nonostante le buone relazioni, sussistevano reciproche diffidenze tra i “giovani capelloni” e la “vecchia guardia”.
Altri contatti proficui di quegli anni, ma irregolari, erano rivolti fuori cantone, in particolare con il CIRA di Losanna e con alcuni compagni giovani ed anziani di Ginevra.
Ma privilegiate erano l’Italia, per motivi di idioma, e Milano, per motivi di vicinanza: si approfondirono quindi i contatti con “quelli della Rivista” e la libreria Utopia.
Si tornava entusiasti da Milano con i numeri di A-Rivista, dal taglio giovanile e con stimolanti riflessioni, Umanità Nova e Volontà, dall’aspetto un po’ vecchiotto, con volantini, libri e i fascicoletti dei mitici “pacchi propaganda” di Franco Leggio. Si allestivano banchetti nelle piazze ticinesi per diffondere l’idea anarchica, si partecipava alle diverse iniziative locali della sinistra extraparlamentare. Ma lo stimolo e l’aiuto dei contatti con i “milanesi” non si fermò lì: l’OAT iniziò nel 1975 la pubblicazione di Azione Diretta, “mensile di propaganda anarchica”, cessata dopo 12 anni, nel 1987.
Nel 1976, in occasione dei preparativi per i festeggiamenti del centenario della morte di Bakunin, incontro svoltosi a Zurigo, si approfondirono i contatti con i gruppi anarchici e libertari svizzeri. E si conobbero altri compagni italiani della FAI come Umberto Marzocchi (presente come relatore) e Alfonso Nicolazzi.
Due anni dopo, venne fondata la casa editrice La Baronata di Lugano, che da oltre trent‘anni continua a diffondere pubblicistica anarchica e libertaria.
Le attività, terminata l’esperienza dell’OAT, sono proseguite con altre iniziative come il Circolo Carlo Vanza di Locarno, nato nel 1986, che – oltre alla fornita biblioteca – propone annualmente una decina di incontri culturali.
Ma gli stimoli non hanno viaggiato solo in direzione sud-nord, dal Ticino sono giunte le spinte a utilizzare internet per far conoscere le idee libertarie, e da parecchi anni la versione online della rivista è ospitata sul server svizzero di anarca-bolo.ch.
Nel nuovo millennio, una nuova generazione – tra cui attivisti del Molino, il centro sociale autonomo di Lugano – ha iniziato la pubblicazione del trimestrale LiberAzione (2003-2006). Poi, con l’allargamento della redazione a un gruppo di compagni (delle due generazioni), ma in diretta ed esplicita continuità, dal 2007 la testata diventa Voce libertaria, “periodico anarchico”, trimestrale sempre in attività.
Insomma le premesse per il proseguimento delle attività anarchiche e libertarie nella Svizzera italiana sembrano esserci ancora. E una mano sicuramente la diedero quella rivista e quei compagni e compagne con cui eravamo entrati in sintonia all’inizio degli anni Settanta.
Due che c’erano, ci sono e sperano di esserci... ancora per un po’.
Attualità di Luce Fabbri
di Gianpiero Landi
Pur non approdando mai a una concezione compiutamente e integralmente nonviolenta, ci arriva molto vicina.
Luce Fabbri rappresenta sicuramente una delle figure più affascinanti del pensiero politico libertario del Novecento. Intellettuale coltissima, ha lasciato un’impronta profonda – e una eredità culturale ed etica di cui forse non è stata recepita ancora del tutto l’importanza – sia nel campo della teoria politica che in quello della educazione e della formazione delle giovani generazioni. Sotto diversi profili Luce Fabbri rappresenta l’anello di congiunzione fra l’anarchismo classico e quello contemporaneo.
Figlia, come è noto, del militante e intellettuale anarchico Luigi Fabbri, a partire dal 1929 si stabilì con i genitori – esuli antifascisti – in Uruguay, dove trascorse poi il resto della sua esistenza. Docente di Storia nelle scuole medie superiori e poi – per oltre quarant’anni – di Letteratura Italiana all’Università di Montevideo, dopo la morte del padre diresse dal 1935 al 1946 la rivista “Studi Sociali”. Pubblicò inoltre numerosi libri e opuscoli sia in italiano che in spagnolo – di storia, filosofia politica, critica letteraria, poesia –, nonché innumerevoli articoli in giornali e riviste di vari paesi.
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Luce Fabbri |
Fin dall’infanzia ricevette in famiglia un’educazione improntata a ideali solidaristici e antiautoritari, che fece convintamente suoi e che seppe poi trasmettere a sua volta sia nell’ambito degli affetti privati e delle relazioni interpersonali, sia nella sua attività di insegnante. Erede della migliore e più qualificata tradizione libertaria, dimostrò di possedere una personalità di notevolissimo spessore, dotata di grande curiosità intellettuale e fino all’ultimo aperta a tutte le novità.
Non è questa la sede per ricostruire, sia pure in modo fortemente sintetico, la sua vita e la sua produzione intellettuale. Difficile sarebbe anche presentare, in poco spazio, tutti i motivi di interesse e gli spunti di riflessione presenti nei suoi scritti. Mi limiterò ad accennarne due o tre, che hanno avuto particolare importanza per la mia formazione personale, senza peraltro neppure tentare di svilupparli in modo adeguato.
Anzitutto la riflessione sulla democrazia. Per Luce, l’anarchismo si colloca “oltre” la democrazia, “più avanti” ma su uno stesso percorso. Ci sono circostanze in cui, di fronte al pericolo totalitario, l’anarchico deve impegnarsi a difendere la democrazia, salvaguardando quegli spazi di libertà – certo limitati e imperfetti – che essa comunque garantisce. Il totalitarismo è un nemico da combattere con tutti i mezzi e da abbattere. La democrazia la si può solo criticare nelle sue insufficienze, per poterla radicalizzare e superare.
Legata in certo modo a questa riflessione vi è l’analisi del totalitarismo, di cui Luce è stata una delle prime in assoluto ad occuparsi nei suoi studi, fin dagli anni Trenta, anticipando per certi aspetti teorici della politica come Hannah Arendt.
Un altro tema di grande rilevanza è quello della violenza. A Luce essa ripugna, e ne vede con lucidità i rischi autoritari anche quando si tratti di “violenza rivoluzionaria” degli oppressi. Su tale questione riflette a lungo e in modo sofferto. Alla fine, pur non approdando mai a una concezione compiutamente e integralmente nonviolenta, ci arriva molto vicina. La sua testa non ha mai cessato di ragionare, fino agli ultimi giorni, ma nel suo caso alla lucidità di una mente superiore si è sempre unito anche un grande cuore, incapace di restare indifferente davanti all’ingiustizia e alla sofferenza. Anche per questo la sua memoria ci è così cara.
Una sostanziale
coerenza ideale
di Gianpietro “Nico” Berti
“A” è la fonte più completa per la ricostruzione della vita anarchica italiana degli ultimi trent’anni del Novecento.
Tre sono state le fasi della storia dell’anarchismo. La prima va dalla sua nascita alla prima guerra mondiale, la seconda si situa nel periodo dei totalitarismi, la terza coincide con gli ultimi sessant’anni. Nella prima fase l’anarchismo si muove entro il mondo operaio e socialista, nella seconda – soprattutto a seguito della contrapposizione con il movimento comunista – subisce un forte ridimensionamento politico, nella terza, infine, perde via via quasi tutti gli originari caratteri popolari, come dimostra la sua parziale rigenerazione in chiave libertaria ed esistenziale attuatasi alla fine degli anni Sessanta. La storia dell’anarchismo italiano degli ultimi cinquant’anni – come, del resto, quello europeo – coincide con quest’ultimo stadio e tutte le sue manifestazioni politiche, culturali, sociali, ecc., ne costituiscono le interne determinazioni. Tra queste, naturalmente, c’è anche “A. Rivista anarchica”.
La storia di “A. Rivista anarchica” può, a sua volta, essere suddivisa in tre periodi. Il primo copre gli anni Settanta, il secondo gli anni Ottanta, il terzo gli anni Novanta fino ai giorni nostri. Gli anni Settanta sono segnati dallo sforzo di rivitalizzare e riattualizzare il nucleo teorico anarchico più autentico. Gli anni Ottanta si caratterizzano per l’apertura di questo nucleo a tematiche non referenziali dal punto di vista ideologico. Gli anni Novanta vedono un ulteriore aprirsi alle rivisitazioni libertarie emerse nei due decenni precedenti. In ognuno di questi passaggi, la rivista ha mantenuto una linea comunicativa sostanzialmente coerente, nel senso che ha sempre conservato un carattere di medietà, vale a dire che essa non si è presentata come luogo di specifica riflessione teoretica tranne per il primissimo periodo), né come luogo di divulgazione “immediatamente” militante, ma, appunto, come linea di mezzo fra le due polarità. Questo carattere l’ha posta in una posizione centrale, nel senso che essa ha riflesso complessivamente il travaglio e il problemi sia dell’anarchismo inteso come specifico movimento militante, sia dell’anarchismo inteso come generale riflessione teorica e ideologica non univocamente legata alla militanza.
In conclusione, attraverso questo osservatorio privilegiato la lettura di “A” ci permette di seguire l’evolversi del processo generale dell’anarchismo italiano degli ultimi trent’anni in tutte le sue molteplici manifestazioni: lo storico di domani troverà certamente in “A” la fonte più completa per la ricostruzione della vita anarchica italiana degli ultimi trent’anni del Novecento.
Naturalmente non è possibile entrare nel merito delle innumerevoli questioni poste e affrontate dalla rivista nel corso della sua quarantennale esistenza. Possiamo, tuttavia, sottolineare alcuni problemi riguardanti il significato dei passaggi accennati sopra.
Il primo è quello relativo alla mutazione avvenuta tra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli anni Ottanta. Si tratta del passaggio più importante perché indica il senso della preservazione dell’identità anarchica. L’anarchismo non è più presentato come un blocco ideologico che critica e giudica la realtà esterna, ma come un discorso articolato che si confronta con altre realtà libertarie non ideologicamente conformi alla tradizione “ortodossa”. La conferma di questa trasformazione è data dal sostanziale abbandono – o, se vogliamo, dalla forte riduzione – delle tematiche presenti nel decennio precedente. La contrapposizione tutta politica e tutta ideologica fra Stato e anarchia – che negli anni Settanta si alimentava anche del clima (orrendo) rappresentato dal terrorismo e dalla lotta armata – si stempera in contrapposizioni più diversificate: l’ecologia, il femminismo, la pedagogia alternativa, le esperienze comunitarie, l’irriducibilità dei vari problemi personali.
Questo frantumarsi dell’ideologia in molteplici rivoli si amplia ancor più negli anni Novanta, cioè nel decennio che vede lo sbandamento generale della sinistra a seguito del crollo del comunismo. L’evento non può non coinvolgere anche “A” perché la sua contrapposizione radicale con l’ideologia del “socialismo reale” non annulla il fatto che essa, come tutto l’anarchismo europeo, si situa pur sempre nell’alveo storico della sinistra. Vi è quindi un contraccolpo indiretto che si rinviene in una maggiore presenza dei temi esistenziali.
Il fatto più notevole ravvisabile nella storia quarantennale della rivista rimane comunque quello della sua sostanziale coerenza ideale.