Nell’immaginario stereotipato rappresentano la Sardegna, i vacanzieri italiani se li ricordano sulle spiagge affollate d’agosto in pantaloni di velluto vendendo pecorino, la politica istituzionale li ritiene produttori di serie b, anche rispetto ai loro “colleghi” del nord. Ma Pino Masi, in un lontano 1970, aveva fermato la loro immagine nell’inno di Lotta Continua, cogliendone l’essenza di soggetti sfruttati ma ribelli. Erano e sono i pastori sardi.
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Occupazione del porto di Olbia, dopo averne bloccato
precedentemente l’aeroporto.
Il blocco portuale, insieme a
quello di Porto Torres, mirava a porre l’attenzione
sull’importazione
di carne estera “spacciata” poi come sarda |
Un’economia di dipendenza
Raccontare la mobilitazione del Movimento “Pastori Sardi” non risponde né al desiderio di farne la cronistoria né di dare un giudizio su una lotta che, al momento in cui viene scritto questo articolo è ancora in atto e i cui risultati sono incerti; risponde piuttosto allo stesso fine che ci aveva portati nel numero di novembre a guardare a sa zustissia con gli occhi del pastore sardo: comprendere come la crisi di un fondamentale settore produttivo della Sardegna non sia il frutto né di mala politica né di congiunture internazionali, ma di un progetto solido e di antica data che mira ad impoverire, rendere dipendente e infine smantellare il settore portante dell’economia e della cultura sarda.
Bisogna guardare come sempre al passato per capire come lo Stato abbia capacità e pazienza quando in gioco c’è la trasformazione di una società a partire dai suoi settori produttivi fondamentali. Inizia, infatti, alla fine degli anni cinquanta il processo che lentamente trasforma gli agricoltori da coltivatori diretti a salariati agricoli, da produttori a manovali. Lo strumento è quello del contributo pubblico che spinge gli agricoltori ad abbandonare le culture non considerate produttive rispetto alle necessità stabilita oltre mare, ma soprattutto porta gli antichi protagonisti del ciclo produttivo a vestire i panni di una semplice comparsa. E così negli anni ottanta oltre 15.000 ettari di vigneti vennero espiantati dagli stessi agricoltori per godere degli incentivi europei, sradicando così una consistente parte della produttiva tradizione vinicola sarda e trasformandosi definitivamente in dipendenti dallo Stato.
Una sorte simile toccò ai pastori, con una variante in più, poiché per loro lo Stato aveva in mente un progetto diverso, capace di seguire il processo di scollamento tra produzione e territorio avvenuto con gli agricoltori, aggiungendovi lo svuotamento del sistema culturale su cui il settore della pastorizia si appoggiava. Anni sessanta, la Relazione Medici (1), espressione della lettura statale del contesto socioeconomico sardo, sosteneva la tesi secondo cui il retroterra della criminalità sarda, debitamente pubblicizzata nella veste del bandito, era costituito dalla pastorizia, detentrice di una concezione della comunità e della giustizia estranea, finanche antagonista, allo logica dello Stato.
Sradicare il banditismo, quindi, divenne la bandiera sotto cui governo centrale e classe dirigente sarda si strinsero in nome di una rinnovata società che nell’industria pesante vedeva il suo fiore all’occhiello. Posti di lavoro, si diceva, ma anche e soprattutto messa in discussione delle strutture economiche su cui le frange che mal sopportavano l’azione dello Stato gettavano le proprie radici storiche, culturali e produttive. Il pastore, da protagonista del sistema produttivo che dall’allevamento, passava alla lavorazione del latte fino alla sua trasformazione in prodotti caseari, vestiva la casacca dell’operaio o dell’emigrato, costretto ad abbandonare quella cultura del lavoro “circolare” che concepiva la filiera produttiva come un tutt’uno con le risorse e i bisogni del territorio. Era il passo che avvicinava in modo irreversibile il pastore alla concezione capitalista del lavoro che rompe la catena e te la gira intorno ai polsi.
Passarono gli anni e le industrie, già fuori mercato al tempo del loro insediamento, iniziarono a chiudere: le “cattedrali nel deserto”, come veniva chiamata Ottana, si trasformarono in città fantasma con tassi di disoccupazione da record.
E così, dopo i proclami di stampa e governo sul futuro occupazionale legato all’insediamento industriale, la società sarda si guardava allo specchio, scorgendovi i segni di un’economia assistita: popolo di questuanti, “di bidelli, addetti alla pulizia delle basi militari, delle abitazioni di militari, politici e turisti in vacanza” (2). Il processo messo in atto, quindi, si basava su un principio tanto semplice quanto radicale: non eliminare una parte importante dell’economia isolana, ma asservirla, renderla dipendente dalle elargizioni statali e mantenerla in una perenne condizione di crisi in cui il proprio stato di sopravvivenza dipenda dalle politiche proveniente dall’alto. Trasformare l’economia di una terra, che da questa nasce e si sviluppa secondo lunghi processi storici, significa quindi trasformare una società, la sua concezione del lavoro, del rapporto con il territorio e, ovviamente, con lo Stato.
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Occupazione e blocco dell’aeroporto di Alghero |
Dietro le istanze sindacali, il discorso politico
Tempi moderni, si dirà, bisogna adeguarsi ai nuovi sistemi produttivi, ai nuovi immensi ma famelici mercati europei, trasformare il retrogrado passato in sviluppo: il processo di destrutturazione in atto diventava così, sotto il pennello della retorica del tempo, un necessario passaggio dal vecchio e desueto a favore del nuovo e del progresso. Allo stesso modo oggi si critica l’arretratezza del settore agropastorale (condizione denunciata dagli stessi pastori, la cui voce però è da tempo inascoltata) sottolineandone la mancanza di competitività e motivando l’attuale condizione con la risposta che va bene un po’ per tutti i problemi: la Crisi, quella con la c maiuscola che, messianica, si è abbattuta sui paesi capitalisti.
Eppure le esportazioni dei formaggi crescono, soprattutto all’estero, il latte si importa mentre quello isolano stagna con i prodotti caseari nei magazzini e agli agnelli sardi si preferiscono quelli spagnoli. Cosa accade? Accade che lo Stato investe, ma nei settori dove le clientele possano ricavare i loro guadagni; sostiene economicamente, ma grandi potentati economici e quindi politici; concede sovvenzioni ed agevolazioni, ma solo a chi sostiene un’economia di dipendenza che crei salariati, non produttori autonomi. Quando i pastori, quindi, denunciano gli incentivi per la Fiat, quando protestano nei luoghi simbolo del turismo d’élite della Costa Smeralda, ricchezza per gli investitori esteri e briciole per il territorio; quando bloccano i porti da cui arrivano le carni estere, quando tutto ciò avviene, i pastori non stanno chiedendo un’altra elemosina, stanno smascherando un sistema di rapina di cui la Regione Sardegna è solo il valvassore. Basta leggere i punti della piattaforma stilata e diffusa ad ogni manifestazione dai pastori sardi per capire che ciò che si propone è un nuovo modo di concepire il proprio settore, da assistito a produttivo, con un prezzo del latte al di sopra dei costi di produzione, centri di stoccaggio, abbattimento dei costi di trasporto, uso dell’acqua a costo zero nelle terre irrigue, costruzione di mattatoi comunali contro il monopolio di pochi commercianti, uso delle energie rinnovabili “non per costruire serre ma per dare energia a tutte le aziende agro-pastorali”.
Insieme a tutto ciò, c’è anche la richiesta di attuazione della norma “De Minimis”, strumento finanziario per erogare importi alle aziende, nodo su cui si è centrata la discussione pubblica e politica spostando, ancora una volta, la questione su un piano di economia assistenziale. Non è un caso, infatti, che gran parte dell’attenzione mediatica sia andata a concentrarsi su questo aspetto poiché significa reimpostare la lotta dei pastori come una vertenza sindacale che ruota intorno al classico gioco del tira e molla sui finanziamenti e annulla ciò che più spaventa: la dimensione politica e sociale che tale istanza può assumere poiché, che i pastori lo vogliano o meno, che ne siano più o meno coscienti, ciò che si è messo in luce è la logica con cui lo Stato opera in Sardegna, portando alla coscienza quel filo rosso che lega l’insediamento della petrolchimica allo smantellamento della pastorizia.
Una paura, questa, ben mostrata dal partito sardista della coalizione di centrodestra, il Psd’az, nelle parole di un suo esponente storico, Paolo Maninchedda che, dopo l’occupazione di una sala della Regione da parte del Mps, sostiene come “quando un movimento sindacale rinuncia ai propri obiettivi sindacali e anzi impedisce l’attività dell’unico organo che è in grado di soddisfarli almeno in parte, allora dichiara una strategia politica anti-istituzionale, una strategia destabilizzante, una strategia antagonista e sostanzialmente rivoluzionaria” (3). Gli spettri dell’antagonismo e della violenza istituzionale evocati nel titolo dell’articolo di Maninchedda servono, per conto suo, ad isolare i pastori dal generale consenso dell’opinione pubblica e, di fatto, non corrispondono in nessun modo alle intenzioni del Movimento, ma involontariamente mettono in luce una verità: denunciare il sistema che ha reso i pastori schiavi di un sistema produttivo a loro alieno e che ha radicato un’economia estranea agli interessi del territorio significa mettere in discussione il progetto di spoliazione dello Stato in Sardegna.
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I pastori bloccano i camion che trasportano
carni e bestiame
proveniente dall’estero per
controllare le bolle di provenienza |
Dietro il paravento
A chiusura di questo articolo è giusto sottolineare un aspetto che, sicuramente, da qui ai mesi a venire alimenterà discussioni e rappresenterà motivo per spargere giudizi al vento. Come il lettore ha notato, non ci siamo soffermati né sulle trattative attualmente in atto, né su pronostici e giudizi sui risultati a cui questo movimento giungerà. La ragione è semplice: non ci interessa.
Ciò che ci interessa, invece, è guardare dietro il paravento del discorso istituzionale per ritrovare le radici di un processo storico e leggere, dietro le rivendicazioni, le istanze politiche. Infine notare come in tempi in cui spesso le lotte sono imbrigliate nei canali istituzionali o nella retorica sindacale, un settore poco sindacalizzato come quello dei pastori sia stato in grado di bloccare porti e aeroporti, strade e centri del turismo di rapina, portando intere comunità nelle strade e scoprendo i nervi del sistema politico in mesi di mobilitazioni che, invece di rincorrere le scadenze fissate dallo Stato, hanno saputo imporne delle proprie.