Cantare le storie
Un altro canto è possibile?
“Un altro mondo è possibile” sosteneva il più celebre degli slogan nel movimento che ebbe la sua grande esposizione nella tragica manifestazione del luglio 2001 a Genova. A un decennio di distanza mi confermo nella convinzione che “questo mondo” sia impossibile. Pare però più che mai difficile condividere la consistenza reale di quell’altro mondo “possibile”.
L’amara nostra vittoria morale, la giustezza delle critiche che, da un punto di vista libertario, abbiamo sempre mosso al socialismo scientifico e al marxismo nelle sue molteplici incarnazioni, non mi consola del desolante panorama che ci attornia. Chi canta, chi scrive, chi prova a pensare fatica a dialogare col presente e con quella rabbia che pure sente crescersi attorno.
Provo a cantare l’anarchia, e ho l’impressione di avere in mano la chiave, ma di non trovare la porta.
Guardo con orrore crescere la violenza del potere che schianta individui per strada (Federico Aldrovandi, per non fare che un esempio), nelle prigioni (Stefano Cucchi), nei letti della contenzione psichiatrica (Franco Mastrogiovanni). Il fascismo e tutto il suo corollario razzista, negazionista, anti-islamico, antisemita si manifesta senza veli: non più i tristi figuri che, in combutta coi servizi segreti, deponevano bombe stragiste, vagheggiavano ipotesi golpiste, e poi rientravano protetti e nascosti nelle fogne statali, ma per la strada vedo più di qualche camicia bruna e teste rasate e parecchie camice verdi e delirii celtici.
Voglio cantare la vita per combattere tutto ciò, ma è difficile accordare la chitarra all’estrema frammentazione dei punti di vista. Gli inni che promettono una sortita collettiva, una redenzione, una catarsi globale non convincono più nessuno, forse nemmeno chi li canta. Oggi è più che mai necessario testimoniare singole storie a singoli individui. Oggi sento il bisogno di un cantastorie. Se mi assiste la memoria è a quella fonte che tocca abbeverarsi per avanzare nel futuro guardando in faccia la realtà.
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Cicciu Busacca |
Cicciu Busacca
Cicciu Busacca da Paternò (CT) è unanimemente ricordato come uno dei più grandi cantastorie del ‘900, forse il più grande perché seppe affrontare il confronto con una grande tradizione, bruciata dai nuovi tempi, dalla televisione, dagli schiamazzi, dalla musica imposta ovunque, dalle piazze espropriate all’arte popolare e alla libertà d’incontrarsi e confrontarsi con la Storia.
Cicciu Busacca da Paternò ci sopravvive oggi attraverso pochissimi frammenti, che – allo stato attuale – è pure difficile mettere assieme: pochi dischi fruscianti, poche immagini, quasi nessun filmato (a meno che qualche archivio televisivo non si apra, rivelando tesori sconosciuti). Però la sua potenza espressiva è tale che balza fuori anche dal poco o niente che ce lo tramanda.
Cicciu Busacca da Paternò essendo nato nel 1926 ed essendo morto nell’hinterland milanese nel 1989, ha affrontato – nel corso della sua vita – le molte difficoltà di aderire a un mestiere che lo affascinava: cantare le storie. Era un mestiere da poveretti. Non solo un mestiere della miseria, ma un mestiere dell’afflizione. Lo facevano in linea di massima gli orbi, gli storpi, gli sciancati… persino Orazio Strano – il grande maestro riconosciuto da Cicciu, altro grande innovatore della tradizione – aveva gli arti inferiori paralizzati da un’artrite reumatica contratta durante il servizio militare, eppure a dorso di mulo, o su una vecchia balilla riadattata a camioncino, girava la Sicilia, la Calabria, le Puglie.
I cantastorie prima di Busacca usavano passare col piattino a raccogliere la questua. Basta guardare gli occhi leonini di Cicciu, agitati dalla fiamma di un invincibile orgoglio, per capire che la nascita in povertà era per lui una medaglia, ma che mai si sarebbe abbassato a chiedere l’elemosina a chicchessia. Abolì dunque il piattino e riempì le piazze. I proventi gli erano assicurati dalla vendita delle musicassette e dischi autoprodotti.
“Faccio il cantastorie: prima di me c’era Orazio Strano, quello sì che era un cantastorie! E prima di lui ce n’era un altro ancora che me lo ricordo da bambino. Forse ascoltando loro io sono riuscito a fare il cantastorie, forse perché ce l’avevo nel sangue, perché avevo tanta rabbia contro i padroni. Di fatti le mie storie sono contro i padroni, contro tanti preti, contro la mafia che da bambino mi hanno succhiato sempre il sangue, allora mi sono sfogato così. L’ho fatto con passione, ci sono riuscito”. Così dice Cicciu in una preziosa intervista dell’inizio degli anni ’80. Il cantastorie si sentiva allora forse sconfitto dalla televisione?
“Non credo. Io posso dire, anche se magari si può pensare che sono chiacchiere, oggi se c’è qualcuno che si può interessare a tampinare le piazze, una piazza ogni sera, però libera, senza rumore di macchine e senza niente e senza che i signori… quelli che io chiamo sbirri: marescialli, questura… se mi danno il permesso io sono capace di guadagnare più di quello che guadagna Celentano – non sto scherzando – vendendo le cassette con le mie ballate!”
Era un mestiere antico e regolato da misteriosi processi di comunicazione. Il cantastorie arrivava nella piazza, montava il cartellone con la storia dipinta per quadri (sorta di fumetto senza scritte) e una rudimentale amplificazione. I canti erano lunghi: mezz’ora, un’ora, giocati sulla medesima melodia, e alternavano versi recitati e versi cantati. Il gesto sobrio, una mano aggrappata alla chitarra, l’altra a fendere l’aria e ricadere sulle corde. La potenza dello sguardo che vaga e cattura la folla. Una sorta di ghigno nel grugno da cui sgorga una pasta di voce e si sgrana, con una medesima verità nel parlato come nel cantato: pensate a volte che stridente differenza che c’è nei cantanti professionisti quando parlano e quando cantano.
I versi scritti magari da un grande poeta popolare quale Ignazio Buttitta, vengono intercalati da commenti improvvisati via via che la storia procede “ascoltate… perché c’è da ascoltare!”
E poi un’emozione sempre totalmente vera e perfettamente dominata. Mi ha raccontato Paolo Ciarchi – che ha avuto la ventura di conoscere e lavorare con Cicciu – che quando eseguiva Lu trenu di lu suli, una straziante storia di emigrazione che terminava nella tragedia mineraria di Marcinelle, Busacca piangeva vere lacrime e si asciugava platealmente gli occhi col fazzoletto. Un giorno, non avendo con sé il fazzoletto, si rifiutò di eseguirla.
Cicciu Busacca da Paternò, oltre il tempo, coi suoi zigomi pronunciati e la bocca intagliata, ci guarda e ci insegna come cantare senza fronzoli, perché la storia è l’unica cosa importante e nulla ci può distrarre dalla realtà di una narrazione.
Cicciu Busacca da Paternò che seppe rinnovare il suo mestiere, un attimo prima che un’ultra moderna solitudine voluta dal potere glielo espropriasse, ci dice che quando i canti non riferiscono i soliti stantii fatti di sangue e d’onore, ma si allargano a una tragedia che ha dimensioni collettive, parlano del presente.
Come la storia di Turi Scordu di Mazzarino, zolfataro andato a lavorare e morire in Belgio. Come Salvatore Carnevale, il sindacalista ucciso dalla mafia. Come la favola morale del miliardario che cerca di comprarsi anche la morte a suon di miliardi.
Quanto è rimasto oggi del cantastorie? Pochissimo, verrebbe da dire, gli “eredi” accreditati del genere che sono ancora in attività – Nonò Salomone, Franco Trincale, Tano Avanzato e qualcun altro – sono dei preziosi testimoni, ma vivono la loro personale avventura artistica in un certo isolamento.
Non è per nostalgia che si può parlare di un personaggio urgente e attuale quale Cicciu Busacca. A lui dobbiamo piuttosto rivolgerci per interrogare la sua parabola, per cercare nel suo esempio qual’è il modo di cantare la realtà, per sconfiggere il potere della comunicazione di massa attraverso un confronto più umano delle esperienze.
La narrazione come strumento di lotta
Oggi vediamo risorgere la narrazione come strumento di dibattito politico e sociale nel cinema, nel teatro, nella letteratura, nel fumetto. La narrazione come specchio, come microscopio, come lanterna magica e bengala nel buio della nostra confusione. Dappertutto la narrazione… tranne che nella musica!
Vive una nuova primavera quella formula letteraria che mescola libro inchiesta, romanzo, giornalismo, saggio politico e documento storico. È un genere che in Italia ha un padre nobilissimo e insuperato, Corrado Stajano, i cui libri sono spesso divenuti celebri alla loro sortita, ma dei quali (forse) solo oggi si coglie il portato d’assieme: “Il sovversivo”, “Un eroe borghese”, “Patrie smarrite”, per non citarne che alcuni, sono libri aperti, che si rivolgono al lettore e al cittadino, promuovendone il senso di partecipazione, stimolandone indignazione e sete di verità. L’ultimo splendido “La città degli untori” è una summa che traccia un filo fra molte storie milanesi. Partendo dal processo di manzoniana memoria a Gian Giacomo Mora, “l’untore” ingiustamente e barbaramente condannato nel 1630, si dipanano molte vicende d’ingiustizia, stragi impunite e impazzimento brigatista, cui fa contrasto la pulizia della memoria operaia, sempre più negata dalla perdita di dignità del mondo del lavoro.
Oggi i libri di Roberto Saviano, Marco Rovelli, Daniele Bianchessi sono in evidente continuità col lavoro di Stajano. Forse non è un caso – e questa è una novità – che tutti e tre questi autori non si accontentino della scrittura, ma cerchino anche strade performative, teatro di strada o platee televisive, per comunicare i percorsi della loro ricerca.
Il teatro di narrazione percorre un binario parallelo, con artisti quali Marco Paolini ed Ascanio Celestini, che nei loro monologhi mescolano le suggestioni letterarie a un realismo a volte crudo a volte poetico, tinto di surreale e di reminiscenze popolari. L’intenzione di fondo anche qui non è lontana dal mestiere del Cantastorie.
Il fumetto intanto prova a promuovere una propria definitiva uscita dai confini di lettura infantile in cui lo si è voluto relegare per troppi anni, attraverso la proposizione di Grafic Novel, i romanzi per immagini che oggi occupano gran parte degli scaffali delle librerie. Una casa editrice quale Il becco giallo propone esclusivamente Narrazioni per immagini imperniate sui fatti di cronaca o biografie.
A fronte di questo risveglio editoriale e teatrale, proprio la musica popolare parrebbe aver smarrito ogni vocazione narrativa. Chiusi nelle canzonette da tre minuti o negli inutili assoli tutti uguali, i musicisti del nostro tempo hanno paura della parola, perché la parola compromette. La parola è musica, la parola è suono, ma la parola obbliga a un’adesione che non è solo formale. Chi usa le parole deve compromettersi col loro senso. Al cantastorie chiediamo un impegno e un rigore cui è duro sottostare. Il cantastorie gioca il proprio ruolo a tutto tondo, il distacco non gli è concesso. Per questo è un mestiere necessario.
A Cicciu Busacca da Paternò chiediamo di assisterci con la chitarra, con i quadri e con le sue storie per cantare sempre al presente, per ascoltare ciò che bisogna ascoltare, e vedere quello che c’è da vedere come faceva il suo bisnonno Omero, che forse era cieco, ma che cantava il suo tempo meglio di noi che non sappiamo più dove guardare.
Alessio Lega
alessio.lega@fastwebnet.it
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