Noi e
il dissenso
I nostri amici e collaboratori Felice Accame e Carlo Oliva ci hanno consegnato due recensioni del medesimo libro, Il ‘dissenso’ nella sinistra extraparlamentare italiana dal 1968 al 1977 di Paolo Sensini (Rubbettino, Soveria Mannelli 2010, pp. 223, € 18,00).
Felice Accame
Non tutti tacquero
Premessa
Tra la seconda metà degli anni Sessanta e la prima degli anni Settanta, con il termine “dissenso” – al di là di quanto gli poteva conferire un comune dizionario della lingua italiana – si designava alcune realtà socio-politiche piuttosto diverse fra loro. Da un lato, c’era il “dissenso all’est” – vedi i casi di singole persone o di gruppuscoli che si contrapponevano alla logica autoritaria dell’Unione Sovietica. Dall’altro, c’era il “dissenso cattolico” – vedi i casi di singole persone o gruppuscoli che si contrapponevano, dall’interno del mondo cattolico, alla logica autoritaria delle gerarchie ecclesiastiche. E non mancava neppure – un battesimo linguistico per forzata analogia – un “dissenso” nella sinistra extraparlamentare nei confronti di chi della sinistra era e cercava di rimanere forza egemone. Marginalmente – molto marginalmente, tanto da rimanere ovattate in una sorta di impercettibilità sociale – tra il 1968 e il 1970, ci sono state anche due testate giornalistiche intitolate, la prima, a “Il dissenso” (1968-’69) e, la seconda – palesemente filiazione, o specializzazione, della prima – a “Il dissenso metodologico”. Le dirigevo con Carlo Oliva.
1.
Lo scrittore austriaco Joseph Roth viene inviato dal “Frankfurter Zeitung” in Unione Sovietica nel 1926, per un reportage (Viaggio in Russia, Adelphi, Milano 1981). Prima di allora Roth si era perfino firmato “Roth il rosso”, ma dopo questo viaggio lui avrebbe detto che era arrivato in Urss comunista e ne era ripartito monarchico.
Parlerà del comunismo sovietico come di una “beffa della storia” – una teoria che “dovrebbe liberare il proletariato, che ha come scopo la creazione dello Stato e dell’umanità senza classi”, dove viene applicata per la prima volta “fa di tutti gli uomini dei piccoli-borghesi”. Roth individua i segni inequivocabili dell’imborghesimento della rivoluzione – la dimostrazione dell’immortalità della borghesia – e del comportamento sociale opportunista.
2.
Il ‘dissenso’ nella sinistra extraparlamentare italiana dal 1968 al 1977 di Paolo Sensini (Rubbettino, Soveria Mannelli 2010, pp. 223, € 18,00) affronta il tema del dissenso nella sinistra extraparlamentare italiana dal 1968 al 1977 – un dissenso che ha come interlocutore principale il comunismo sovietico almeno nella misura in cui i partiti comunisti occidentali – e tra questi il Partito Comunista Italiano – possono essere “rappresentati” dal comunismo sovietico (per affiliazione, per obbedienza, per affinità ideologica). Sensini porta alla luce le ragioni di questo dissenso e le forme che questo dissenso ha acquisito – almeno in termini socialmente rilevanti.
Tuttavia, come possiamo dedurre ad abundantiam dai reportages di Roth del 1926 – e da molti altre testi, tra cui, citati da Sensini, l’opera di Bruno Rizzi, di Victor Serge o i diari di Arthur Koestler – era già possibile, prima del 1968, assumere un atteggiamento molto critico nei confronti del comunismo sovietico e del Partito Comunista Italiano pur rimanendo nella logica di un pensiero di sinistra – di opposizione al mondo capitalista.
3.
Nel 1968, io avevo assunto ormai da qualche anno un atteggiamento radicalmente critico e pur ho incontrato molte difficoltà a collocarmi in un qualsiasi raggruppamento politico che rappresentasse correttamente le ragioni della mia critica. La mia pregiudiziale antifilosofica mi teneva ben lontano dalla dialettica e dal materialismo – ma ciò avveniva soltanto dal 1964 in poi, ovvero dall’incontro con Ceccato e con l’analisi della funzione ideologica delle teorie della conoscenza..
Alla base del mio atteggiamento stavano anche altri motivi:
- la consapevolezza della falsificazione effettuata sulla rivoluzione ungherese del 1956
- la votazione dell’art. 7 della Costituzione da parte del PCI
- il disinteresse del PCI verso una politica antimilitarista (e il suo appoggio ad un generico pacifismo unilaterale)
- l’avversione del PCI per l’obiezione di coscienza
- l’avversione del PCI per una politica dei diritti civili – come il divorzio
- la soluzione del centralismo democratico per regolamentare la vita interna del partito
- forse, anche il culto della personalità – per il significato sostanzialmente autoritario che ha, a prescindere dal culto tributato a Stalin
- un sospetto diffuso e radicato – da parte del PCI – nei confronti delle emergenze giovanili (capelloni, Onda Verde, Provos, Beats, contestazione studentesca, ambizione di questa contestazione a connettersi con la lotta operaia).
Non estranei, poi, a questo vero e proprio processo di formazione almeno un paio di fatti diffusi dalla pubblicistica anarchica: la repressione della libera repubblica di Kronstadt, nel 1921, e l’affossamento più e meno volontario da parte dei sovietici delle forze repubblicane nella guerra di Spagna. Lo stesso patto di non belligeranza firmato con i nazisti poco prima dello scoppio della seconda guerra mondiale può venir annoverato nel medesimo processo formativo.
4.
Ecco perché mi sono ritrovato – per una breve quanto dolorosamente vana impresa – con Carlo Oliva nel Partito Radicale – partito di cui si parla nel libro di Sensini, come si parla dei diversi raggruppamenti che, in forma di partito-partitino, o di rivista, o di altre forme associative, hanno aggiunto la propria voce critica.
Tuttavia, come fa notare Sensini, non è neppure possibile parlare delle forme di questo dissenso come se si trattasse di una sola entità ben caratterizzata. In realtà, la gran parte di questo dissenso rimprovera all’Urss e al PCI una sorta di tradimento del pensiero di qualcuno eletto a caposaldo teorico indispensabile: Marx, Lenin, Mao, i più traditi. Ma anche Trockij aveva i suoi estimatori. Al contempo, questo dissenso, doveva mantenere difficili equilibri – ferma restando la pregiudiziale anti-borghese e quella anti-spontaneista (La Comune di Parigi, Sorel e lo sciopero generale in funzione politica, etc. – tutto da buttare, perché non sotto il diretto controllo degli intellettuali dei vari Comitati Centrali).
Scaturigini attuali del dissenso – oltre a ciò che proveniva inesorabile dal passato – nel 1968, furono l’invasione sovietica della Cecoslovacchia, poi i vari casi di dissenso interno – in Urss – come i casi di Sacharov, Solgenitzin, Evtuscenko, il giudizio su Stalin dopo la destalinizzazione di Kruscev, il movimento di Solidarnosc in Polonia.
5.
Sensini dice che non venne assunto e analizzato nella sua portata il tema delle libertà civili nei Paesi posti oltre la “Cortina di Ferro”; venne raccontata la storia negli stessi termini della storia borghese (l’imbalsamazione di Lenin, Mao, Stalin eletto a “piccolo Padre”, etc.); non si seppe distinguere il piccolo-borghese dal rivoluzionario nei movimenti dell’Est; non si seppe capire che questo o quel difetto storicizzatosi nel comunismo non era tanto da ascrivere a Qualcuno in particolare quanto alle Funzioni politiche che essi erano chiamati a svolgere in un progetto sostanzialmente e ineludibilmente autoritario.
Aldo Giannuli, nella Postfazione al libro sostiene che le colpe della nuova sinistra – o della sinistra del dissenso – furono comunque molte (per esempio, manifestando troppo timidamente il dissenso verso l’Urss) – e che, sotto il peso di queste colpe, perdura tuttora “una diffusa afasia”. Andrebbe chiarito: incapacità di parlare ? O incapacità di analisi, di pensiero, prima che di parola – a volte non è solo questione di coraggio. Da tutto ciò, beninteso – Sensini è il primo a riconoscerlo – c’è chi si è esentato. C’è chi metaforicamente “afasico” non lo è mai stato. Gli anarchici tra questi – e, perché no? – anche il sottoscritto e l’amico e sodale Carlo Oliva, che, ancora oggi – come tutti – delle carenze di quelle analisi soffrono le conseguenze.
Felice Accame
Carlo Oliva
Ma il pensiero
critico dov’era?
Sarà bene chiarire subito che il “dissenso” di cui si tratta nel bel libro di Paolo Sensini va inteso in un’accezione molto particolare, come d’altronde sottolineato, nel titolo stesso, dalla presenza delle virgolette. L’autore si occupa esclusivamente dei giudizi che i vari gruppi di nuova sinistra ebbero a esprimere a proposito dei paesi del blocco sovietico e dei vari movimenti di opposizione politica culturale che ivi faticosamente si andavano sviluppando. Di altre forme di dissenso non si tratta ex professo.
Una qualche forma di limitazione, d’altronde, era inevitabile (e vedremo come questa non escluda un discorso generale sulla politica e l’ideologia di quei gruppi, né invalida il valore della ricerca di Sensini e l’importanza del suo lavoro). Il dissenso in generale, senza virgolette, è stato una componente essenziale della sinistra extraparlamentare italiana, che è nata proprio dalla volontà (o dalla necessità) di dissentire dal clima di conformismo politico e culturale che gravava sul paese e trattarne compiutamente avrebbe richiesto uno sforzo di ricerca e di organizzazione delle fonti quasi disperato. La sinistra extraparlamentare era nata come una galassia giovanile diffusa e disorganizzata e le sue prime fasi (quelle della cosiddetta “contestazione” dei tardi anni ‘60, si esaurivano quasi interamente nella volontà di dissentire sempre e comunque dalle proposte di quello che si chiamava, tenendosi un po’ sul vago, il “sistema”. Di più, il movimento aveva una dimensione soprattutto culturale ed esistenziale (spesso su base generazionale) e si manifestava, più che a livello di azioni organizzate e documentate, su quello dei comportamenti e dell’improvvisazione: la dimensione politica non era assente, ma non la si poteva considerare predominante, mentre la produzione teorica era appannaggio di pochissimi individui, talvolta isolati. Non si poteva certo dire che abbondassero le proposte costruttive e nel complesso, per usare un termine tecnico, regnava un discreto casino, ma erano anni molto vitali, di cui un giorno o l’altro bisognerà decidersi a riconoscere l’importanza. Il che certo non rende più facile farne la storia, se non per singoli temi ed episodi.
Solo in seguito (dopo il cosiddetto “autunno caldo” del ‘69), la nascita dei gruppi organizzati della nuova sinistra – caratterizzati tutti, quale più quale meno, da una spiccata tendenza a tramandare su carta i propri punti di vista – avrebbe riportato al centro dell’attenzione la dimensione politica. Questo avrebbe comportato la riproposta dei classici strumenti di analisi della tradizione marxista leninista, che non sarà forse, come suggerisce il nostro autore, una forma di conoscenza esoterico iniziatica (p.14), ma rappresenta comunque una maniera di pensare piuttosto rigida. In questo senso, la politicizzazione del movimento si può considerare un tentativo (abbastanza riuscito) di normalizzazione. L’enfasi, ormai, non cadeva più sul dissenso, ma sulle forme costruttive, o presunte tali, dell’attività politica. Non si parlava più di spazzar via i partiti in quanto strutture autoritarie ed eterodirette, ma si insisteva fino all’ossessione sulla necessità di “costruire” il partito, riprendendo, con rare eccezioni, forme organizzative e ideologiche già largamente note alla sinistra. Le uniche ovvie eccezioni, quelle degli anarchici, dei radicali e dei situazionisti avevano, ahimè, carattere affatto marginale.
La cosa comportava un ovvio cambio di atteggiamento, da antagonistico a concorrenziale, nei confronti della sinistra, in sostanza il PCI, cui si imputava, ormai, di non essere più se stesso, di aver perso per via le caratteristiche rivoluzionarie primigenie, con l’implicita pretesa da parte dei vari gruppi di porsi come il “vero” partito comunista, di incarnarne, pur in una dimensione momentaneamente e provvisoriamente ridotta, la forma originaria. Pretesa, va detto, condivisa anche dalle organizzazioni che meno di altre vi erano qualificate, come Lotta Continua e Potere Operaio, nel cui DNA ideologico erano presenti robuste componenti anarchiche e anarcosindacaliste, nonché la tradizione, affatto estranea al PCI ufficiale, dell’operaismo alla “Quaderni rossi”.
Il saggio di Paolo Sensini è strettamente legato a questa problematica.
Della realtà del PCI era parte cospicua ed essenziale il complicato rapporto con l’Unione Sovietica, non più vista come potenza guida e mito di massa, ma sempre punto di riferimento essenziale, ideologico e organizzativo. Militanti e dirigenti di quel partito, vivevano, con apparente disinvoltura, ma non senza intimi crucci, la contraddizione tra l’adesione ai valori e alle prassi della democrazia occidentale (come enunciato da da Togliatti già nel 1943 e puntualmente riaffermato in seguito) e la condizione piuttosto grama in cui quei valori versavano oltre cortina. Di fronte ai tentativi sempre crescenti di manifestare e organizzare qualche forma di opposizione in URSS e nelle “democrazie popolari” (è questo, naturalmente, il “dissenso” con le virgolette di cui nel titolo di Sensini) non erano più possibili, nel PCI, condanne schizofreniche e autocontradittorie come quelle pronunciate nel 1956 a proposito dei fatti di Ungheria, ma a condannare comunque si continuava, non foss’altro per ragioni amministrative. Cresceva, se mai, il numero delle distinzioni e delle sfumature di cui si tendeva a usare e abusare. Durante la crisi cecoslovacca del ‘68, così, si poté assistere al notevole tentativo di appoggiare il “nuovo corso” di Praga senza mettersi in contrapposizione con Mosca e quando l’occupazione militare avrebbe reso inevitabile una dissociazione la si formulò in termini tanto cauti da risultare quasi incomprensibili. La successiva radiazione del gruppo del “Manifesto”, che aveva messo in discussione appunto tale cautela, fu tipica mossa da panico, presa di chi temeva di veder andare a pezzi il faticoso compromesso raggiunto tra le due esigenze opposte.
La nuova sinistra, d’altronde, non aveva rapporti organizzati con l’URSS e ostentava la propria originalità di fronte alla prassi dei partiti comunisti tradizionali. Almeno in teoria, non poteva non pronunciarsi sull’argomento. In pratica, le cose andavano piuttosto diversamente. Quella tematica, a quanto ricordo, non era particolarmente sentita nelle varie organizzazioni (gruppo del “Manifesto” a parte). In fondo, dirigenti e militanti, proprio come quelli PCI e per motivi non molto diversi, avrebbero preferito non occuparsene affatto. Quando lo facevano, vi erano, in un certo senso, costretti: il tema era uno di quelli centrali nella definizione identitaria del partito (di ogni possibile partito leninista) e occuparsene significava affrontare il problema ineludibile del rapporto dei vari gruppi, oltre che con PCI, fra di loro. Anche dal loro punto di vista, insomma, era una questione di identità. Il che spiega, sia detto di passaggio, la strana contraddittorietà dei testi raccolti da Sensini, che appaiono da un lato evidentemente partecipati, come si addice a trattazioni in cui si parla di se stessi e della propria sopravvivenza, mentre dall’altro si rivelano profondamente tediosi, come capita spesso quando ci si occupa di problemi che, in fondo, non interessano veramente.
Sensini non parla di “gruppi”, ma, genericamente, di “sinistra extraparlamentare”. Quarant’anni dopo la semplificazione è lecita e doverosa. All’epoca, comunque, si imponeva una distinzione tra le prese di posizione dei gruppi organizzati, specialmente maggiori (AO, LC e simili) e quelle più influenzate dalle figure intellettuali cui l’intera area faceva riferimento: le redazioni del “Manifesto” e dei “Quaderni Piacentini”, nonché personaggi come Rossana Rossanda, Franco Fortini, Edoarda Masi, Lisa Foa, Lelio Basso e altri. Ovviamente in quest’area la libertà di analisi era maggiore e si discutevano tesi che gruppi, in piena sindrome da Realpolitik, non potevano neanche azzardare, a costo di suscitare reazioni violente al proprio interno, come successe a Lotta Continua a proposito del caso Solgenitsin). Persino i gruppi che si rifacevano ideologicamente ai vari lacerti della IV Internazionale dimostravano una certa qual riluttanza a sposare le tesi del “dissenso” antisovietico. Ed è abbastanza interessante, comunque, che le argomentazioni adottate si rivelassero, alla fin fine, molto simili tra loro.
Perché, insomma, c’era (c’è) dissenso e dissenso. Quello alla Solgenitsin interessava poco, anzi era oggetto di una profonda diffidenza. Oltre a Lotta Continua (che sarà costretta a far marcia indietro dalla reazione della base), soltanto il “Manifesto” farà un tentativo di contestualizzarlo e di darne una lettura abbastanza articolata. (pag. 30 ss.). Gli altri non facevano complimenti. Sul bollettino del Movimento Studentesco della Statale di Milano il romanziere russo è annoverato tra gli “spiritualisti parafascisti” (p.61); secondo “Servire il popolo” gli intellettuali come lui “rappresentano contraddizione interna a privilegio di casta” (pag.69); in un documento di Avanguardia Operaia (pag. 104) le sue posizioni rappresentano quelle della “intelligencija piccolo borghese sovietica”. E così via.
Il dissenso, in effetti, è una forma di contraddizione, ma non tutte le contraddizioni hanno la stessa importanza. L’unica che conti veramente, nella vulgata marxista semplificata impiegata su questi fogli, è quella tra padronato e la forza lavoro, una contraddizione che, magari a prezzo di forzare un po’ i dati storici e socialogici, si tende ad applicare anche alla realtà del “socialismo reale”, assimilata a quella del campo antagonista attraverso la categoria, un po’ sbrigativa, del “capitalismo di stato”.
Onde la valorizzazione di tutte le forme dissenso riconducibili in qualche modo a una dimensione operaia (e la cancellazione delle altre). Così, il “Manifesto” darà una lettura operaista della crisi cecoslovacca (pag. 21); Potere Operaio interpreterà (pag. 40) le proteste degli studenti jugoslavi come una lotta alla “borghesia rossa” (p. 45) e vedrà come un fatto eminentemente operaio anche la crisi polacca (p. 41). Con un’accentuazione un poco diversa (maoista, almeno a parole) il Movimento Studentesco di Milano (pag. 58) leggerà i vari fatti di dissenso come la prova del fatto che i “paesi legati all’URSS hanno imboccato sotto varie forme la via del capitalismo e della restaurazione borghese”; per Lotta Continua (pag.73) “i proletari polacchi sono sfruttati che lottano per stesse cose per cui lottiamo noi” e per Avanguardia Operaia (pag.103), le lotte in Polonia “costituiscono l’esplosione di una nuova fase del regime revisionista polacco” contro le “misure antioperaie poste in essere dalla borghesia monopolistica di Stato”, per cui l’unico modo “di lottare nell’Est contro il dominio borghese burocratico” è quello di “riferirsi alla classe operaia, ai suoi interessi storici, alla sua ideologia” (pag. 105). Si potrebbe continuare, ma non si troverebbe molto di diverso. Anche le analisi degli intellettuali accettano, tutto sommato, la tesi dei fondamenti operai del dissenso all’Est, magari con qualche cautela in più (Lucio Magri, pag. 33; Rossana Rossanda pag. 32), ma, in sostanza, con fiducia.
Oggi possiamo renderci conto quanto tutto ciò fosse futile, di quanto fosse profondamente intriso di wishful thinking. Il crollo dei regimi dell’Est europeo non ha lasciato spazio a una qualsiasi forma di gestione operaia della società e del lavoro, ma a una spietata restaurazione capitalistica. Al di là di quella che era stata la Cortina di Ferro avrebbero trovato degli alleati soltanto quelli che allora si definivano i nemici di classe.
Resta da chiedersi come mai, in un ambiente in cui avrebbe dovuto allignare il pensiero critico, questo genere di discorso non solo trovasse spazio, ma sembrasse ragionevole ai più (e devo confessare che fino a un certo punto lo è sembrato anche a me). Forse le spiegazioni possibili sono due: possiamo leggere in quella tenace illusione la dimostrazione di un limite ideologico insuperabile (come si suggerisce nella postfazione di Aldo Giannuli) o trovarvi la conferma di quanto, nonostante tutto, fosse forte la componente utopistica in un movimento che con le utopie credeva di avere definitivamente chiuso. In fondo è un destino storico della sinistra quello di volgere in utopia le proprie sconfitte. Ma questo naturalmente è un altro discorso.
Carlo Oliva
In miniera
e nel mondo
«Parlami dell’anarchia, ch’è meglio».
«Qui a tavola? Non è mica roba che si mangia».
«Allora a che ti serve, a bere l’olio di ricino?»
[…] «L’anarchia la direi la coscienza della vanità del tutto, meno il piacere di vivere con gli altri e rendersi utile».
Così il toscanaccio Ferriero Dondi risponde a Luisu che però ci pensa su e replica: «ma questo lo dice anche il parroco».
Contro-replica: «Quelli come il tuo parroco chiudono un occhio sui mali del mondo […] e dicono che giustizia e libertà non sarebbero di questo mondo. Ma l’anarchia, in fondo, è svolgere un servizio, farlo anche per gli altri, essere utile, indispensabile magari, e trarne piacere».
Indispensabile magari; come sarà per il giovane Luisu l’incontro con quell’uomo ora serissimo e ora burlone: Ferriero «renitente alla leva» ma spedito a Carbonia (per sudare e rischiare in miniera) dall’Ovra, la polizia politica del fascismo.
Il dialogo citato sopra avviene quasi alla fine del bellissimo romanzo Doppio cielo (178 pagine per 16 euri) di Giulio Angioni, pubblicato a settembre da Il maestrale. A quel punto del libro, Luigi Melas – detto Luisu, di Fraus, «classe 1922, figlio unico maschio di madre vedova, incorporato minatore militarizzato» – ha già scelto da che parte bisogna stare e lo ha dimostrato con i fatti. Però gli fa piacere sentirsi ri-dire da Ferrero che «l’anarchia libera tutti, ricchi e poveri, bianchi e neri, uomini e donne, tutti cittadini della repubblica mondiale degli uguali, dei liberi e dei giusti».
Tre anni dopo La pelle intera, Giulio Angioni (una vita da antropologo e poi un’altra da scrittore) ci riporta nell’Italia devastata dal fascismo e dalla guerra; lì era il Piemonte del 17enne Efis Brau che non sa più chi è amico e chi nemico mentre qui siamo a Carbonia, «40mila persone in pochi anni» perché il Duce, «Mascellone» lo ha detto, dopo le sanzioni: «l’Italia deve badare a se stessa, in pace e in guerra».
Laggiù, a Tb 1, «Traverso Banco Uno» – 176 metri sotto terra – si sono ritrovati servi pastori e pescatori siciliani, montanari abruzzesi e braccianti padani. Ma «Doppio cielo» è soprattutto l’incontro tra Ferriero e Luisu nel terribile 1943, cioè nell’epoca in cui, più del solito, «il lavoro è la prosecuzione della guerra con altri mezzi».
Lì «si sta sotto due cieli […] il povero cielo della miniera sulla testa, cielo doppio, cielo di sotto nero e basso, sicché si può sempre toccare il cielo con un dito, poco bene nostro, cielo che può cadere. Il cielo qui bisogna assicurarlo, tenerlo su». Ed esiste un doppio tempo, quello «corto» sotto la terra e il lungo quando si esce.
Ferriero sarà amico e maestro per Luisu. Gli insegnerà come avere «un corpo da minatore», i trucchi del mestiere, l’anarchia ma soprattutto perché nelle gallerie bisogna essere uniti. Il pericolo maggiore si cela sotto una parola «franzosa» (dunque proibita dall’autarchia del regime), il grisou che per i minatori è «il peto del diavolo». Lo si dica alla francese o all’italiana... le gallerie scoppiano se non si scoprono per tempo le sacche di gas. A caccia del grisou va «un penitente» come Tziu Macis (reduce di Russia), «Sant’Antonio del fuoco». Spiegherà il perché del soprannome raccontando – «per istruire il giovanotto» – come avvenne la scoperta del fuoco per merito di un bambino e del santo che, accompagnato da una scrofa, lo rubò ai diavoli; storia memorabile, degna dei miti più famosi o, se preferite, dell’ironia di un Eduardo Galeano.
Il toscanaccio inizierà Luisu anche al sesso, portandolo al bordello. Mentre il ragazzo si chiede se sia una bella esperienza scopre Ferriero «beato fra le donne […] a leggere e parlare di anarchia […] con gli accorgimenti del caso perché il casino è il luogo delle spie». Prima un po’ di Pittigrilli, «poi magari Madame Bovary» e passando per «Germinale» di Zola e Tolstoj ecco spuntare Pietro Gori, Errico Malatesta, Michele Schirru, Sacco e Vanzetti.
Capisce molto e parla poco Luisu eppure anche lui insegnerà all’altro. E non solo di Sardegna.
Luisu si abitua a tutto anche «al fatto di avere sulla testa una montagna». Duro lavoro e rischi, politica, solidarietà e sogni piccoli (una bici, un mandorlo) ma anche il silenzioso amore per «Marialuisa, un bel nome d’erba». Scoprirà il ragazzo che le donne sanno più di quel che dicono e che gli uomini hanno paura a dire quel che è importante. Mentre lui cerca le parole giuste per Marialuisa, intorno le città sarde sono «bombardate a tappeto dalle fortezze volanti» e in miniera il grisou uccide. «Dio lo stramaledica» s’arrabbia Ferriero: «vorrei vederlo quel proto-cripto anarchico di Francesco D’Assisi cantare “Laudato sia missignore, per fratello grisou”»; intanto raccomanda a Luisu di impararne almeno una più del demonio e gli fa leggere una pagina di Giulio Verne, meglio che un manuale da minatore.
Un finale indimenticabile; ma anche «lu carusu di la citalena», il funerale che diventa corteo, «la preghiera antica a santa Barbara e a san Jacopo», le battute, le molteplici definizioni dell’anarchia, il paragone fra Mitridate e un cardellino, il cavallo Baieddu, «gli occhi del culo», il pranzo alla siciliana con in tavola «l’erba della paura» resteranno a lungo nella memoria di chi legge. Chi sa poco di storia scoprirà le tragedie di Monongah o di Courriéres oppure che nelle miniere sarde finì, per punizione, pure un papa. I molti invece che ricordano cosa accadde il 25 luglio 1943 impareranno, grazie ad Angioni, a viverlo in mezzo ai minatori, nel pieno di una tragedia: «nel giorno delle cose rovesciate» importa più che sia caduto il dittatore o quel corpo sparito in miniera di cui si ritroveranno solo le scarpe?
«Tutto è stato già detto, si sa. Ma tutto è ancora da dire, e questo si sa di meno». Così sentenzia Ferriero Dondi, quasi all’inizio del libro. Ma lui stesso si correggerà verso la fine: «Già tutto è stato detto e ridetto, molto meno fatto».
«Doppio cielo» avvince dalla prima all’ultima frase. Ha la semplicità delle grandi storie, il coraggio di scavare nell’Italia dimenticata. Se ci sono libri che lasciano un segno e cambiano chi li legge questo di sicuro lo è.
Daniele Barbieri
Il premio Grazia Deledda
all’editore anarchico
Giuseppe Galzerano
«Noi due siamo la Squadra Schirru» dice Ferriero a Luisu quando il ragazzo ancora non ha sentito parlare di Michele, «morto ammazzato dal tiranno».
Mentre finivo di leggere Doppio cielo, la migliore Sardegna ricordava quel suo coraggioso figlio, tornato dall’America per togliere di mezzo il dittatore. A ottobre 2010 il premio Grazia Deledda è stato infatti assegnato a Giuseppe Galzerano, autore-editore di Michele Schirru. Vita, viaggi, arresto, carcere, processo e morte dell’anarchico italo-americano fucilato per l’intenzione di uccidere Mussolini. Avrebbero detto lì sotto, in miniera: «perché i morti restano tra noi del tutto vivi a modo loro anche se non si vedono».
Viva la squadra Schirru e morte ai tiranni.
Daniele Barbieri
Dialoghi (e monologhi)
di Simone Cristicchi
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Le conversazioni con Simone Cristicchi, raccolte da Massimo Bocchia (La cattiveria della creatività. Dialoghi incivili, di Simone Cristicchi, con Massimo Bocchia, Eleuthera, Milano 2010, pagg. 144, € 16,00, con CD “Monologhi incivili”, 30’) in un lungo itinerario estivo assemblato pedinando le date del tour del cantautore, somigliano a un puzzle concettuale dalle molteplici possibilità di lettura. Dialoghi incivili, infatti, è un testo-mappa che non si propone di esaurire il «Cristicchi pensiero», o tratteggiare un profilo biografico del più originale cantautore italiano della sua generazione. Bocchia ha piena consapevolezza dello scarto tra testo-parlato e testo-scritto, e gioca con ingegno, con approccio quasi dadaista e metalinguistico, a inseguire il suo amico Simone sia letteralmente, nei trasferimenti come negli appuntamenti dei suoi pre e post concerti, sia lateralmente, con un «pensiero laterale » che non suggerisca mai risposte preconfezionate, ma inviti all’apertura, all’imprevisto, al cambio di prospettiva. Bocchia e Cristicchi coltivano decisamente, in questo ricco libro/itinerario e nella vita, un pensiero antidogmatico.
Cosa significa per un cantautore, un artista, uno scrittore, un poeta, un autore, coltivare un pensiero anti-dogmatico se non «fare il suo mestiere» di artista? Una volta entrato nel circuito principale della comunicazione, cioè in un sistema di produzione complesso (major discografica internazionale, attenzione di media e network nazionali, eventi televisivi di massa, ma anche nicchie di «biodiversità musicale»), Simone ha saputo adattare regole, ingranaggi, meccanismi di quel circuito alla propria idea di arte, di musica, di ricerca poetica, di impegno civile, legando tutti questi elementi insieme in una proposta che è apparsa subito, e a tutti, originale. Il perseverare in questo atteggiamento, i cambi di direzione fuori dalle rotte più battute della discografia dei «fabbricanti di canzoni», gli hanno dato, in seguito, un elemento raro e di grande valore: la credibilità.
Perché Simone è credibile a Sanremo, come sul palco del concertone del Primo Maggio, come in una trasmissione TV domenical-popolare o in una giovanilistico-musicale, come su un palco davanti a tremila o a trecento o a trenta persone a recitare un monologo in romanesco in ottava rima, come nel ricostruire in un documentario la realtà manicomiale italiana o nel recuperare canzoni popolari con un coro? Dialoghi incivili restituisce più di una risposta a questa domanda; rende, cioè, il senso della credibilità conquistata da Simone attraverso le idee che stanno alla base delle sue scelte e dei suoi percorsi artistici. Le idee (musicali, poetiche, politiche, storiche, documentaristiche, teatrali, comiche, drammatiche) del «cespuglio pensatore » che è Simone Cristicchi sono ciò che lo rende «Simone Cristicchi» artista.
Se è vero che all’origine del «cogito» vi sia un co-agitare tra loro i pensieri insieme, non vi è immagine più falsa del pensatore, rodiniano, posato nella posa di chi pesa il senso, il senno e il peso che appunto si ritrova nel suo pensoso ponderare. Chi pensa àgita, ed è agitato, agìto dai pensieri che rimesta insieme. Simone, come Massimo, è un «agitato» tranquillo, e la sua ricerca artistica è, etimologicamente, un «delirare», vale a dire un continuo «uscire dal seminato»: dello show-biz, del politically correct, del conformismo, del perbenismo, dell’impegno di facciata. Penso che Simone ridefinisca in senso nuovo e moderno l’idea del cantautore «impegnato». Poiché esiste una retorica dell’artista impegnato (engagé) e, ormai, anche la parodia dell’artista «impegnato», Simone è impegnato nel senso che ha molti impegni (molte date, molti spettacoli diversi portati in tour contemporaneamente) e, soprattutto, nel senso che si impegna sempre nel documentarsi a fondo sui perché, sui motivi, sui moventi che lo chiamano a testimoniare un impegno di tipo civile, umanitario, politico.
Queste conversazioni rendono conto di questa dimensione «laica» (ed esteticamente sostenuta) dell’impegno. Non è un caso se proprio la coppia Cristicchi-Bocchia abbia firmato nel 2007 una delle più belle, a mio modo di sentire, canzoni «politiche» scritte negli ultimi anni, Legato a te. La canzone, dedicata a Piergiorgio Welby, è – in prima lettura – una struggente dichiarazione di amore/odio verso un macchinario necessario a rimanere in vita. Una canzone, un fatto artistico, esteticamente riuscito perché ci fa reagire, ci commuove, ci cambia, ma che diventa anche un gesto politico forte, netto, all’interno del dibattito, tanto spinoso nel nostro paese, sul «fine vita». Impegno è non rinunciare alla propria poetica, alla propria estetica in nome di una testimonianza civile che, invece, vive e riesce solo là dove risulta indistinguibile dall’arte che la comunica. Che «cattiveria» sia uno degli anagrammi di «creatività» dice qualcosa del rapporto tra le varie anime che vivono nella musica di Simone, tra tutte quella di Rufus (alter ego irascibile e nascosto di Cristicchi).
La creatività è la cattiveria di sovvertire gli ordini precostituiti, è una forma di ribellione, un istituire connessioni nuove là dove sono vietate, o ancora impensate. La cattiveria della creatività sta nello scuoterci dalle comodità del consueto, del già sperimentato, da quei «playback del pensiero» (per usare un’espressione solitamente usata da Massimo) ai quali, più o meno volontariamente, aderiamo. Simone teme e scansa le scorciatoie, teme che anche uno strumento tanto potente e sofisticato come l’ironia – che attraversa molte sue canzoni e che è componente essenziale delle sue capacità di entertainer – possa diventare, alla fine, una via di comodo, un’uscita di sicurezza che lo allontani da quella reazione autentica del pubblico che lui ricerca. Le scelte compiute hanno preservato, così, proprio il lato più comico/ironico di Simone da un facile deterioramento e «targhettizzazione » commerciale (il cantante-comico condannato a ripetere hit singole di stampo comico-satirico), lasciandogli ancora intatte le potenzialità che commedia, ironia, comicità hanno dal punto di vista espressivo. Le sue doti di attore naturale riusciranno a portarlo sempre (vedi Li Romani in Russia) a toccare le corde del tragico e del comico all’interno di una stessa gamma espressiva.
Infine, se l’amicizia fosse una forma d’arte, Massimo e Simone ne sarebbero grandi interpreti, e questo testo che ci hanno consegnato è una testimonianza viva di un percorso d’amicizia che è anche sodalizio artistico e creativo.
Matteo Pellitti
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Sta a noi
scegliere
Paolo Pasi (1963, milanese) è giornalista Rai e scrittore. Ha vinto la prima edizione del premio giornalistico Ilaria Alpi e, nel 2005, il premio Giallomilanese. Nel novembre 2000 ha esordito con la raccolta di racconti Ultimi messaggi dalla città (ExCogita di Luciana Bianciardi, prefazione di Dan Fante). Altre raccolte di racconti sono Storie senza notizia (sempre per ExCogita) e Le brigate Carosello (ExCogita, prefazione di Fernanda Pivano). Nel 2007 è uscito il suo romanzo L’estate di Bob Marley (Tullio Pironti Editore). Memorie di un sognatore abusivo (Edizioni Spartaco, 2009) è il suo secondo romanzo. Paolo Pasi è anche chitarrista e scrive canzoni.
Siamo nel 2035 e il nuovo Governo di tipo dittatoriale (chiamato Comunità) detta legge anche in fatto di sogni, imponendo una tassa sull’attività onirica dei poveri per esentare l’insonnia dei ricchi. Per fortuna, il protagonista si ribella all’IVO (Imposta sul Valore Onirico) e decide di raccontare le sue avventure di rivolta e presa di coscienza in uno psicodiario. Bob, questo il suo nome, metterà così sulla carta i sogni, i sentimenti e le sensazioni che si susseguono fino alla definitiva ribellione all’orrido sistema totalitario.
Nel libro, Paolo Pasi ha lavorato sull’analisi di un ipotetico sistema politico che strizza l’occhio a un totalitarismo di bassa lega. Filo conduttore del racconto è l’elemento satirico che segna le pagine della storia e che viene utilizzato in tutto il racconto. Durante la lettura pensiamo a quanto sia importante saper sognare in un mondo che ogni giorno ci toglie qualcosa e a quanto sia necessario che i nostri rimangano sogni liberi, selvaggi e ribelli. Pasi ci ricorda in questo romanzo che la libertà di pensiero, di espressione e di sogno è principio fondamentale della dignità umana. Soprattutto ci ricorda il diritto alla ribellione contro le norme decise da i pochi che dominano la vita di molti.
Memorie di un sognatore abusivo è un libro che elogia il dissenso ma soprattutto racconta la voglia di essere liberi da qualsiasi condizione o sistema che possa opprimere l’essere umano.
Tra schermi intelligenti, telecamere e multivisori di ogni tipo, (una finzione non troppo lontana se confrontata con le nostre moderne metropoli del controllo) ci guida in un mondo singolare, dove le voci e i pensieri metallici si sostituiscono a quelli romantici e reali delle persone vere.
Il protagonista, Bob, non si stanca mai di combattere per quello in cui crede, per la riconquista della libertà di sognare; non intende piegarsi al presente e cerca le ragioni di una rivolta necessaria.
Questa è la mia breve segnalazione del libro. Approfitto della sua disponibilità, per porgli tre domande.
Memorie di un sognatore abusivo, titolo interessante rappresenta l’autore.... raccontaci qualcosa di te della tua esperienza di giornalista televisivo....
Memorie di un sognatore abusivo accosta volutamente un termine dagli echi ottocenteschi, Memorie, con un aggettivo, abusivo, molto inflazionato nella cronaca attuale. Ci sono venditori abusivi, inquilini abusivi, cittadini abusivi.... Da questo contrasto tra passato e presente prende forma il l’immaginazione di un futuro in cui i sogni sono tassati. Il romanzo è la cronaca allucinata scritta in presa diretta da un uomo che non si adatta ai tempi. Un sognatore abusivo, appunto, impaurito ma non ancora rassegnato.
Così, prendendola alla lontana, arrivo alla mia esperienza di giornalista televisivo. In Rai sono arrivato 14 anni fa dopo aver superato un concorso per praticanti giornalisti. Da allora sono accadute molte cose. Ho avuto incontri importanti, primo tra tutti quello con Fernanda Pivano, ho acquisito uno stile di scrittura più attento alle immagini, ho lavorato su documenti preziosi dell’archivio Rai.
Oggi vivo una fase più tormentata con il lavoro. Considero la tv un osservatorio privilegiato sull’assurdo quotidiano, e basta farsi spettatori per capire. Avere a che fare con le notizie significa sempre più spesso maneggiare paure, come dimostrano certe parole abusate: emergenza, allarme, bufera, e così via.
Per me resta importante in un servizio mantenere il passo del racconto, senza toni alterati, con uno stile semplice e preciso. Ma la tendenza prevalente asseconda, a mio parere, altre logiche. In questo considero il lavoro televisivo una straordinaria fonte di ispirazione indiretta. Nel romanzo del sognatore, per esempio, immagino un reality show dell’informazione che si intitola Tg Anche Tu. La cosiddetta gente comune viene chiamata a leggere le notizie in studio su una poltroncina che sale o scende a seconda del gradimento del pubblico. Ovviamente viene premiata la lettura ansiogena e concitata dei fatti. Altro esempio: il cugino del protagonista, Ettore, lavora come guida turistica da sciagura, ovvero porta a spasso i curiosi nei luoghi resi tristemente famosi della cronaca nera. Si tratta di un’esagerazione proiettata nel futuro, purtroppo non così lontana dalla realtà. Come nasce l’idea di questo libro?
Il tema dei sogni mi ha sempre attratto. È una parte della nostra esistenza che sfugge al controllo, perfino di noi stessi, un’attività preziosa e rigeneratrice che ci mette a contatto con la parte più intima di noi. Ma il potere non ama gli eccessi di fantasia e gli imprevisti. Preferisce orientare stili di vita e di consumo. Così ho immaginato la subdola strategia di uno stato che nel 2035 propone ai cittadini uno scambio: l’abolizione delle tradizionali tasse in cambio di un’unica imposta, quella sui sogni, che nel romanzo ho chiamato Ivo, Imposta sul Valore Onirico. Da qui l’idea del romanzo, che nasce da un assunto non troppo ottimistico, perché la maggioranza accetta con un referendum lo scambio e sceglie di farsi controllare nel sonno.
Hai usato un futuro che non conosciamo per parafrasare un presente che ci opprime?
In gran parte è così. Credo che intorno a noi ci sia già un futuro che sta accadendo. Gli strumenti di controllo si affinano e stringono a tenaglia le persone, sia per dichiarate esigenze di sicurezza, sia per necessità pubblicitarie e di marketing. Lo dimostrano del resto alcune notizie che restano ai margini della cronaca, trattate al massimo come bizzarre curiosità, ma che sono, a mio parere, centrali: genitori che mettono all’asta il nome del bebè per trovare sponsor, ricerche per setacciare e scannerizzare i ricordi delle persone, telecamere poste dietro ai cartelloni pubblicitari per valutare la reazione dei consumatori. Ne ho fatto una rassegna stampa che leggo durante le presentazioni musicali del libro. Ma nel romanzo ho voluto spingere oltre la fantasia, immaginando per esempio sogni sponsorizzati. Credo sia stato un modo per esorcizzare la paura di un futuro ancora più insonne del presente. Spero ovviamente che le cose non vadano così. Sta a noi scegliere.
Andrea Staid
Come iniziò
la discesa agli inferi
All’interno della Shoah vi sono coni d’ombra ignoti a gran parte dell’opinione pubblica, uno di questi è rappresentato dal genocidio dei malati di mente e dei diversamente abili perpetrato dalla dittatura nazista. (Robert Jay Lifton.: I medici nazisti, Rizzoli, Milano, 2006 e Michael Tregenza: Purificare e distruggere, Ombre corte, Verona, 2006)
Credo che in una società che va sempre più verso il “culto del corpo e dell’immagine”, della perfezione, relegando, paradossalmente, proprio il corpo nell’oblio nei confronti del tempo, il tema dei “diversamente abili” e del loro rapporto con questa società sia profondamente attuale.
Franco e Franca Basaglia alla fine degli anni 60 riferivano così su di un’inchiesta televisiva: “Molti degli intervistati rispondevano che il problema psichiatrico dei manicomi poteva essere risolto uccidendoli tutti. La Germania nazista lo aveva già fatto, a tutela della purezza della razza, la nostra società non pensa di essere nazista e, purtuttavia continua ad abbracciare l’etnocentrismo come metodo di soluzione dei propri conflitti e delle proprie contraddizioni”. (1)
Le persone diversamente abili vivono continuamente una condizione ingiusta, quella che tutti noi viviamo, abbiamo vissuto, o vivremo, in condizioni di malattia, vecchiaia, o prossimità alla morte: l’isolamento, che si concretizza in una elevata visibilità, subito seguita dalla massima invisibilità.
I nazisti portarono alle estreme conseguenze una Weltanschauung che era comunque presente in molti altri paesi: le sterilizzazioni coatte dei diversamente abili erano iniziate negli Stati Uniti nel 1907, nello stato dell’Indiana e si erano rapidamente propagate ad altri 24 Stati dell’Unione nel 1925; seguirono poi la Norvegia, la Germania di Weimar, l’Islanda e la Svezia, dove la sterilizzazione proseguì fino al 1976! (2)
Piani e programmi nazisti per l’eutanasia e l’uccisione degli Untermenschen (“sottouomini”) cominciarono dai disabili per poi estendersi agli ebrei, agli zingari, agli slavi, agli omosessuali, ai testimoni di Geova, ai preti cattolici, ai pastori protestanti, agli oppositori politici, morali e religiosi, ai criminali comuni, ed erano previsti anche per cittadini tedeschi malati incurabili di cancro, malattie cardiache e polmonari.. Il culto del corpo e della sua purezza aveva assunto un tale livello nella mente dei nazisti, da renderlo “immateriale”, come se loro stessi, i loro cari non avessero dovuto ammalarsi ed invecchiare mai.
Questa discesa agli inferi iniziò proprio dai più deboli fra i deboli: i bambini, degno inizio di un regime che si era autoproclamato al di sopra del bene e del male e di ogni morale. Iniziare con i bambini significò avere meno problemi a tutti i livelli, dapprima furono eliminati i bambini già ricoverati in strutture sanitarie pubbliche o di enti di carità, successivamente furono prelevati quelli che vivevano in famiglia. I medici tedeschi, che erano stati incorporati in un nuovo ordine controllato strettamente dai nazisti, collaborarono attivamente e furono direttamente a capo del progetto; unici che si opposero fermamente furono il professor H.G. Creutzfeld, il prof. Karl Bonhoeffer padre del teologo Dietrich ed il dott. Edward Frank, direttore di una casa di cura per malati psichiatrici. (3)
Per i bambini furono usate dosi sempre più massicce di luminal, a volte associato con scopolamina e morfina; quando si passò agli adulti, il genocidio servì come palestra d’allenamento per quello che dopo non molti mesi sarà riservato agli ebrei, e furono usati vari tipi di gas.
Il legame che unisce l’Aktion t4 alla Soluzione finale, entrambi all’interno di quel disegno aberrante che i nazisti prevedevano per il mondo, certi che gli uomini attraverso la violenza e l’organizzazione potevano raggiungere ogni cosa ed oltrepassare ogni sentimento, può essere descritto solo, come diceva Hannah Arendt, con parole provenienti dall’oltretomba.
Alessandro Fiori
Note
- Franco e Franca Basaglia: Postfazione a Erving Goffmann: Asylums, Edizioni di Comunità, Torino, 2001
- Piero Colla: Per la nazione e per la razza, Carocci, Roma, 2004
- Robert Jay Lifton.: I medici nazisti, Rizzoli, Milano, 2006 e Michael Tregenza: Purificare e distruggere, Ombre corte, Verona, 2006.
Bruno Segre
personaggio scomodo
Inviso agli antisemiti (perché ebreo e perdipiù impegnato da sempre per la tolleranza e il dialogo), malvisto dagli ebrei tradizionalisti (perché non osserva i riti e difende la cremazione), il suo ritratto – biografico e autobiografico (Nico Ivaldi, Non mi sono mai arreso. Intervista all’avvocato Bruno Segre, prefazione di Alberto Sinigaglia, Torino, Lupieri, 2009, in-8°, 212 pp. 12 euro) – di uomo coerente di pensiero e azione non corrisponde affatto ai pregiudizi da lui suscitati.
Lo troviamo infatti sempre in prima linea in tutte le battaglie civili che hanno grandemente contribuito a forgiare faticosamente l’Italia democratica: la tolleranza religiosa (anche se si professa ateo), l’obiezione di coscienza (è stato il primo avvocato a difendere i rei di disubbidienza continuata al servizio militare obbligatorio menando una campagna sistematica che sfocerà poi nella prima legge del 1975, seguita da vari correttivi). la campagna divorzista (lui stesso si è liberato del giogo di un primo matrimonio sbagliato), il diritto alla cremazione (in barba a preti e rabbini, alleati per l’occasione), la diffusione del razionalismo ( il cui culto, anziché ai santi, è dedicato al martire del pensiero Giordano Bruno), la lotta contro la pena capitale (fortunatamente inserita nel codice civile), (la denuncia delle tangenti (anche quando sono di provenienza socialista) e l’elenco non si estingue qui.
Il libro si presenta come una lunga intervista di Nico Ivaldi, noto giornalista e scrittore, il cui merito è quello di saper rivolgere le domande opportune, in genere rispettando l’ordine cronologico, sviscerando tutte le sfaccettature della personalità dell’intervistato e inserendo talvolta aspetti aneddotici che ci portano spesso nell’intimità di Segre (ad esempio col succulento episodio dell’intervista a Josephine Baker).
Abituati a vederlo in toga nei tribunali ci si era dimenticati che la prima vocazione di Segre era quella letteraria (tesi di laurea su Benjamin Constant) manifestatasi attraverso un giornalismo lontano dal sensazionalismo della cronaca nera e di indole ambiziosamente culturale: interviste con divi dello spettacolo, come Anna Magnani, Isa Miranda, Totò, Mistinguette, Louis Armstrong o personalità politiche (come Umberto di Savoia all’epoca del referendum). La sua carriera giornalistica è breve ma intensa: all’Opinione i suoi colleghi portano nomi prestigiosi (alcuni sono già famosi altri lo diventeranno ben presto) come Vittorio Gorresio, Ruggero Orlando, Arturo Carlo Jemolo, Paolo Monelli, Camilla Cederna, Vitaliano Brancati, Giovanni Commisso e a Mondo Nuovo corregge gli scritti di Saragat. Spesso firma con lo pseudonimo di SICOR, già suo nome di battaglia nella lotta partigiana, proveniente dal nome di un fiume spagnolo.
Ci viene presentata la figura del padre ebreo, anche lui non praticante e socialista (che in Isvizzera ha avuto contatti con Lenin e con Mussolini) e lui pure sposato con una cattolica, mostrando al figlio l’assenza di pregiudizi.
Anche quando si lancia nella professione di avvocato Segre non abbandona il giornalismo, anzi fonda il periodico L’Incontro vivo e vegeto da oltre sessant’anni. Si presenta come organo in favore dell’amicizia cristiano-ebraica, dell’antimilitarismo, dei valori della Resistenza, del governo mondiale. Dirigerà poi L’Ara (pro cremazionista), Libero Pensiero (dell’Associazione razionalista “Giordano Bruno”), Fraternità (antirazzista), pur collaborando a quotidiani (La Stampa e L’Avanti fra gli altri), riviste (Il Ponte, Comunità, ecc…) e anche al nostro Umanità Nova.
Non si è mai dichiarato anarchico, ma ha sempre militato nell’area libertaria: prima aderendo a Giustizia e Libertà e poi al Partito d’Azione (ambedue eredi del socialismo liberale dei fratelli Rosselli , infine al Partito Socialista (per il quale è stato consigliere comunale quinquennale, rappresentandone degnamente l’ala sinistra). Il suo professato modello di società ideale è quello della Spagna repubblicana del 1936-’39 o quello del kibbutz.
L’Incontro è stato concepito come una palestra di cordiale raffronto della sinistra laica e nonviolenta e ha ospitato molti collaboratori di provenienza anarchica, mentre come avvocato Segre ha difeso varî anarchici in tribunale (Angelo Nurra e il sottoscritto, ad esempio) e collaborato strettamente col nostro movimento in campo antimilitarista (con Garinei, Ceronetti, Fedeli e altri). I nostri compagni, a loro volta, hanno aderito a molte delle sue iniziative in campo razionalista e cremazionista.
Come la maggior parte degli ebrei italiani, Bruno Segre si è espresso in favore dell’abbandono dei territori occupati da Israele e per la creazione di uno stato palestinese indipendente. Nel suo Incontro (formato “lenzuolo”, stampato su carta di prima qualità e il piú graficamente perfetto dei giornali italiani del genere) non è raro leggere critiche veementi alla politica espansionista dello stato di Israele. La posizione di Segre, a questo riguardo, non si allontana affatto da quella degli “Anarchici contro il muro” (gruppo sparuto ma attivissimo di militanti israeliani e palestinesi nonviolenti che lottano assieme contro lo stato prepotente che li perseguita).
Quando, oltre mezzo secolo fa, chiesi a Segre se mi potesse aiutare a raggiungere i kibbutzim, me ne dissuase, assicurandomi che lo stato di Israele condannava ancor piú duramente gli obiettori di coscienza al servizio militare che non lo stato italiano, il che era tutto dire.
Alla coerenza dei principî, Bruno Segre ha sempre abbinato una gran lucidità politica ed intellettuale, raramente offuscata. Gli auguriamo la longevità dei profeti ebraici: la sua presenza e pertinacia servono da stimolo a coloro che, come lui, non si sono mai arresi.
Pietro Ferrua
Fair
Game
Ogni tanto arriva un film che cambia il modo in cui guardi la tua vita attuale, il modo di guardare alla politica e ti fa riflettere su tutte le informazioni che ci vengono gettate dai media. Il regista Doug Liman ci porta molto probabilmente il film più importante dell’anno, Fair Game interpretato da Naomi Watts e Sean Penn. Il film non solo è basato, ma è una fedele ricostruzione degli eventi che nel 2003 hanno portato allo “scandalo” Valerie Plame-Joseph Wilson, ed è basato sui libri “The Politics of Truth” di Joseph Wilson e “Fair Game” di Valerie Plame.
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Un fotogramma del film Fair game |
Cast:
- Regia: Doug Liman
- Sceneggiatori: Jez Butterworth e John-Henry Butterworth
- Gli attori: Naomi Watts (Valerie Plame), Sean Penn (Joseph Wilson), Ty Burrell, Sam Shepard, Bruce McGill, Noah Emmerich
- Musiche originali di John Powell
- Cinematografia da: Doug Liman
Il complotto:
L’agente della CIA Valerie Plame ha fatto tutto il possibile per sostenere il suo governo, infatti ha dimostrato che vi era una probabilità del 97% che non ci sarebbero stati WMD (Weapons of Mass Distruction – armi di distruzione di massa) se gli Stati Uniti fossero andati in guerra in Iraq. Purtroppo il governo di Bush e Cheney è solo interessato a promuovere il 3% perché vuole la guerra e la ottiene sulla base di menzogne e forzature nelle presentazioni ai media. La condizione di Valerie come agente della CIA è stato rivelata da funzionari della Casa Bianca per screditare il marito Joseph dopo che questi ha scritto un pezzo per il New York Times contraddicendo la verità “ufficiale” usata a piena voce da Bush per giustificare l’intervento contro Saddam Hussein. Dopo essere stati dilaniati dai media, finalmente Plame e suo marito hanno ora la possibilità di reagire. Il buono nel film:
- La recitazione: questo vale per tutti nel cast da Watts e Penn per il cast di supporto che è stato sullo schermo per due minuti. Grandi prestazioni di tutti.
- Lo scambio delle parti: È stato interessante vedere Watts che ha preso l’iniziativa e Penn cadere di nuovo al ruolo di una co-star. In molti modi Watts ha interpretato il ruolo maschile, lei è fuori a tutte le ore, porta a casa i soldi ed è apparentemente inconsapevole delle emozioni del marito. Penn è il carattere emotivo, quello che appoggia incondizionatamente l’iniziativa, quello che attende che l’altra faccia una mossa, e tira fuori il cuore della storia. Entrambi hanno grandi prestazioni, Watts dimostra che lei è più in grado di aprire la strada e quando vedi Penn scoppiare a piangere si capisce perché vince tutti quegli Oscar.
Il buono politico:
- Penn: a parte quello che ha guadagnato, è abbastanza ovvio perché Penn ha avuto il ruolo, questo è molto probabilmente uno dei ruoli più importanti che abbia mai fatto. Questo è di più di un film, è un commento alla situazione politica attuale degli Stati Uniti, situazione che coinvolge come sappiamo anche il resto del mondo, compresi noi italiani. Oltre a inchiodare la complessità della prestazione, che rende vivo tutto il film, questo è un film con uno scopo. Anche se il carattere Watts è stato attaccato dai mass media, è la sua risposta che la persona “comune” può guardare ed è la sua storia che rende il film così reale.
- Ruolo dei Media: Sappiamo tutti (o dovremmo sapere) che i media girano i fatti e non si può mai credere a quello che ti viene detto in TV, ma è affascinante osservare esattamente come e perché questo avviene. In questo film si arriva a essere all’interno della storia e guardare la realtà attorcigliata intorno a te. E come un ulteriore bonus, si lanciava in una grande scena che ci mostra perché la stampa dovrebbe essere colpita a volte quando attaccano quelli che sono sotto i riflettori. Molto ben fatto è l’inserimento di scene originali di trasmissioni televisive con Bush e chi per lui, per finire in bellezza con una magica trasformazione dell’attrice Watts soppiantata senza soluzione di continuità nelle ultimissime scene di chiusura del film dalla registrazione dell’originale della vera Valerie Penn ripresa dalla rete televisiva C-Span durante la sua deposizione al Congresso.
- Politiche di successo: È difficile fare un film politico che si occupa di attualità che è anche interessante, commovente, divertente e non completamente auto-indulgente – questo film raggiunge tutti questi risultati. Da come ci mostra come e perché i media manipolano le storie, di come sono usati in modo strumentale dai vari Bush ed accoliti, di come il governo usa le persone per ottenere ciò che vuole, fino a coinvolgerci nel rapporto personale tra i due personaggi, a fare una dichiarazione di principio su ciò che è giusto e cosa è sbagliato, e perché è importante combattere – questo film ha tutto avvolto in uno. Il discorso finale di Penn a un’aula piena di studenti, quando cita Benjamin Franklin che dice che la democrazia è garantita con il sistema di governo democratico che gli Stati Uniti si sono dati solo finché tutti staranno in guardia per proteggerla sembra proprio un invito ad una partecipazione dalla base alla gestione della società, quasi un invito ad andare verso una società più anarchica.
- Velocità: Quando ripenso al passato cover-up politico o alle guerre passate, ci sono voluti decenni per mettere insieme tutti i fatti su tutta la situazione. Ora abbiamo già un film con attori principali che è rilasciato a un pubblico di massa che documenta gli eventi che si svolgono nel periodo 2001-2002. Il mondo non è perfetto, ma la velocità con cui le persone sono ora in grado di vedere le situazioni e conoscere la loro verità è impressionante e questo film fissa un nuovo standard per mostrare la verità mentre sta succedendo e lo fa bene.
Il Cattivo:
* Nulla da dire!
Nel complesso:
È raro che si ottenga un film divertente che faccia anche di un punto importante – e questo così velocemente. Bush non è più presidente da meno di due anni e già abbiamo un film che documenta quello che è successo dentro e fuori la CIA e la Casa Bianca dopo il 9/11 e prima dell’intervento militare in Iraq. È un grande film che sicuramente vale la pena vedere!
Enrico Massetti
Noi credevamo
e ci crediamo ancora
Per molti aspetti il processo di unificazione del Paese, nonostante la distanza temporale che ci separa, riveste ancora una pungente attualità, evidenziata anche recentemente dalle sortite polemiche e non di rado strumentali di numerose forze politiche. Non è male, dunque, che anche “A” se ne occupi nel centocinquantesimo anniversario dell’Unità. Ce ne offre l’occasione il bellissimo film Noi credevamo del regista napoletano Mario Martone.
Il film offre infatti interessanti spunti di riflessione su un processo storico, l’epopea risorgimentale, che siamo sempre stati abituati a leggere come una gloriosa storia senza chiaroscuri – come non ricordare i testi scolastici o le figurine Liebig? –, che ha visto felicemente realizzate le volontà più nobili espresse dalle forze più moderne e lungimiranti della società italiana. Un processo storico nel quale le aspirazioni all’indipendenza del paese dalla dominazione straniera e l’impegno a costruire una grande nazione non più frammentata in staterelli e soffocata da signorie reazionarie (in primis quella pontificia) avrebbero avuto libero corso, superando in maniera indolore le inevitabili contraddizioni che ne dovevano nascere. Una lettura della storia, questa, che ormai ha sempre meno ragion d’essere. Infatti – anche senza badare più di tanto ai recenti astiosi umori leghisti, che lamentano l’Unità di Italia come l’autogol con il quale il ricco nord ha perso la sua partita più importante – diventa sempre più necessario riflettere sul fatto che questa Unità resta tuttora un processo sostanzialmente incompiuto, e che questa incompiutezza non è l’amaro scherzo di un destino cinico e baro, ma la conseguenza di un insieme di antinomie troppo a lungo ignorate. Se non, addirittura, volutamente celate. E il film di Martone tutto fa fuorché ignorare, o celare, tali antinomie.
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Mario Martone |
Il regista napoletano nulla concede alle abituali rappresentazioni retoriche di un processo visto come il portato di un sentire comune e collettivo, con gli italiani protesi, sempre e comunque, al processo di unificazione, indipendentemente dalle prospettive e dai progetti futuri, ma, al contrario, affronta l’argomento in modo “politicamente scorretto” e niente affatto agiografico – di agiografia, del resto, trattando del Risorgimento “politico”, è meglio non parlare – cercando di metterne in luce le contraddizioni innumerevoli e difficilmente sanabili. La descrizione della repressione borbonica nei primi decenni dell’Ottocento, accostata a quella altrettanto barbara con la quale, pochi decenni dopo, l’esercito sabaudo soffocò nel sangue l’insorgenza meridionale, non vuole solo mostrare come la monarchia, fosse quella dei Savoia o dei Borbone, trattava le plebi più disgraziate, e come la storia si ripetesse, ma soprattutto come il Potere ritrovasse sempre, al di là delle forme, una sua sostanziale identità.
E se la repressione delle plebi meridionali, da tutti trattate come volgari accozzaglie di briganti primitivi, si svolgeva con la stessa ottusa ferocia, fossero i bersaglieri o le truppe di Franceschiello a reprimerle, ciò che veniva inevitabilmente a mancare era la formazione di una identità comunemente sentita e accettata, senza la quale l’unificazione doveva realizzarsi più sulla carta che non nei fatti. La efficace metafora del manufatto in cemento armato, insistentemente ripreso dalla cinepresa, un manufatto moderno quale oggi se ne incontrano ogni dove nelle terre del sud, ma del tutto anacronistico nella seconda metà dell’Ottocento, è quella di un processo di maturazione inevitabilmente interrotto e tuttora incompiuto.
Sarà attraverso le vicende personali dei protagonisti del film, tre giovani mazziniani del Cilento, due di estrazione borghese e il terzo figlio di contadini, che il regista mostrerà i tragici contrasti che hanno segnato la storia del Risorgimento, e che saranno le cause di quella frattura difficilmente sanabile che ha fatto dell’Italia, nonostante la sua unità istituzionale, un confuso mosaico sociale. La contraddizione in termini fra le loro istanze repubblicane e progressiste e la volontà sabauda di creare un grande stato monarchico e conservatore, la inconciliabilità delle aspirazioni del Maestro Mazzini con il grande progetto istituzionale di Cavour, pronto a vendere l’anima al diavolo pur di realizzarlo, non fanno certo parte della vulgata nazionalistica che vede i triumviri, Garibaldi, Mazzini e Cavour, concordi, in ultima analisi, su metodi e obiettivi. Ed è proprio nella capacità di illustrare, senza indulgenze, la drammaticità di quel processo storico, che Martone esprime compiutamente la sua tesi: la grandezza del progetto cui si dedicano i mazziniani determina una generosità spinta fino alla follia paranoica, facendo del rivoluzionario una figura drammatica che ci ricorda i grandi personaggi di Dostoevskij. Sono questi, infatti, i Demoni che uccidono e si fanno uccidere, le avanguardie che si buttano, con l’entusiasmo del folle e del profeta, nella mischia sociale, sfidando e negando, con la loro passione e le loro azioni, le basi stesse del loro afflato umanitario.
E l’epilogo della loro parabola – dopo l’ultima disperata impresa garibaldina repressa, come logica ormai vuole, dal neonato esercito unitario – è assistere al vuoto rito parlamentare, in un’aula deserta nella quale parla, solitario, il “traditore” Crispi, che come tutti i veri traditori diventerà, dopo aver giurato cieca fedeltà alla Casa Savoia, il feroce repressore degli antichi compagni di ideali. I repubblicani “credevano” e, visti i risultati, molti hanno smesso di credere. Ma quanti non l’hanno fatto – come il personaggio impersonato dal bravissimo Luigi Lo Cascio, straordinario in questo film come Valerio Binasco, Toni Servillo e tutti agli altri attori – ormai consapevoli che non sarà da quell’aula che arriverà ciò per cui si è combattuto, passeranno il testimone agli internazionalisti e agli anarchici.
Sarà inevitabile, infatti, il passaggio dalla questione nazionale, risoltasi semplicemente nella creazione di una monarchia più forte e legittimata, alla Questione Sociale, dallo spirito di patria a quello internazionalista, dalle aspirazioni unitarie e democratiche a quelle della emancipazione di un proletariato senza patria né padrone. E saranno soprattutto i mazziniani, infatti, una volta abbandonato il riformismo mistico dell’Esule, a trasformare la loro dedizione alla causa e la propensione all’azione diretta – spinta fino al gesto individuale – nella carica rivoluzionaria che non si verrà ad esaurire nella delega e nella azione parlamentare. La parabola dei vari Malatesta e Cafiero ne sarà testimonianza. Il loro passaggio dalla logica istituzionale del mazzinianesimo a quella della lotta contro lo Stato e al principio della delega, facilitato dalla ottusa condanna con la quale Mazzini pronuncerà parole di fuoco contro la Comune parigina, sarà il cambiamento che porterà l’Italia nella modernità, aprendo le porte al grande processo dell’emancipazione del proletariato. E via via non saranno più le imprese delle piccole bande di insorti, quelle che ancora vedono la continuità con lo spirito di Garibaldi e Pisacane, a impegnare le energie dei nuovi rivoluzionari, ma la costruzione di un grande progetto di liberazione dallo sfruttamento e dall’autorità.
“Noi credevamo”, dunque, ma anche, tuttora “noi crediamo”. Perché la storia non è finita, e quel triste manufatto in cemento armato non può continuare a esprimere fino alla fine dei tempi la desolazione di una fase incompiuta ma, prima o poi, dovrà pur diventare un edificio per la cui costruzione tante energie, vite e speranze si sono spese.
Massimo Ortalli
Tutti devono sapere
(che Facebook è una trappola)
“Tutti devono sapere” è il nome di una pagina Facebook che informa(va) sulle questioni della cosiddetta riforma Gelmini, l’attacco definitivo scatenato contro la scuola pubblica italiana, il tentativo – che purtroppo sta avanzando – di distruggere alla base ogni vita intelligente, ogni democrazia in questo paese.
Diecimila persone erano collegate a questa pagina: insegnanti, genitori, studenti.
Questa pagina è stata cancellata senza motivazioni, senza spiegazioni. Per violazione di qualche norma di un regolamento che nessuno conosce.
Facebook è così. Ricevo sempre più spesso messaggi (spesso comicamente disperati) di persone che sono state bannate dal social network, e annaspano perché la loro socialità si alimentava sempre più degli scambi di messaggi, e della continua consultazione del sito nel quale chi è solo (quasi tutti lo sono di questi tempi) può trovare la coccolante conferma della sua esistenza, e la sensazione di avere amici, anche se più tempo passi davanti allo schermo, meno amici avrai nella carne e nello sguardo.
Io protesto insieme a molti altri contro la cancellazione autoritaria della pagina “Tutti devono sapere”. Però vorrei cogliere questa occasione per dire a tutti (anche ai diecimila iscritti della pagina bannata) che questa è una lezione su quel che è Facebook, e su quello che sta diventando la Rete, nella fase del Web 2.0: un ordigno totalitario, una bomba psichica a tempo destinata a distruggere ogni empatia tra esseri umani.
Negli anni ’80 tradussi un articolo dal titolo Communication without symbols, scritto da un giovane ingegnere elettronico di nome Jaron Lanier. Lanier lavorava allora in California per un laboratorio di ricerca sulle nuove tecnologie, e fu il primo a sviluppare le interfacce del Data Glove e di altri congegni di virtual reality che precedettero e prepararono il lancio del world wide web.
Ora Jaron Lanier ha pubblicato un libro dal titolo You are not a gadget, che costituisce per quel che ne so la migliore critica del Web 2. 0 e particolarmente del social network che ha attratto più di mezzo miliardo di utenti, e che sta trasformando la vita quotidiana di una parte considerevole della nuova generazione.
La prima parte del libro è dedicata all’analisi delle filosofie californiane che identificano nell’Info-Cloud la forma più alta di vita intelligente associata, e tendono a vedere nella rete telematica la forma più avanzata di vita intelligente, fino al punto che, come diceva Kevin Kelly nel suo libro del 1993 (Out of control) la mente globale non può essere compresa né controllata dalle menti umane individuali, e questo significa che essa è di un ordine superiore alla mente umana, come un alveare ha intelligenza superiore a quella delle api che lo hanno costruito.
“La funzione di questo modello non è” – scrive Lanier – “rendere la vita più facile per la gente. Ma promuovere una nuova filosofia, secondo cui il computer evolve verso una forma di vita che può capire gli umani meglio di quanto gli umani capiscano se stessi…” (You are not a gadget, pag. 28, trad. mia)
Lanier parte dalla premessa (filosoficamente importante) che “l’informazione è esperienza alienata”. E aggiunge: “Se i bit possono significare qualcosa per qualcuno, è solo perché sono oggetto di esperienza. Quando questo accade, si crea una comunanza di cultura tra chi immagazzina bit e chi li va a pescare nella memoria. L’esperienza è il solo processo che può disalienare l’informazione.” (pag. 29) La tecno-Teologia della Mente alveare ha elementi molto affini alla Teologia Neoliberista, secondo cui esiste una mano invisibile che automaticamente regola tutti gli scambi economici, in modo tale da realizzare il migliore dei mondi possibili in una condizione di deregulation perfetta.
Leggiamo ancora Lanier: “Nel passato un investitore doveva essere capace di capire almeno qualcosa su quel che il suo investimento avrebbe effettivamente prodotto. Oggi non è più così. Ci sono troppi strati di astrazione tra il nuovo tipo di investimento e l’evento produttivo. I credenti nella filosofia della mente alveare sembrano pensare che per quanti livelli di astrazione siano in un sistema finanziario questo non ne riduce l’efficacia. Secondo questa ideologia, che mescola cyber-cloud ed economia friedmaniana (neoliberista), il mercato farà quel che è meglio per tutti, e non solo, farà tanto meglio quanto meno la gente è in grado di capirlo. Io non sono d’accordo. La crisi finanziaria prodotta dal collasso dei mutui immobiliari è stato la prova del fatto che troppa gente aveva creduto nella teologia.” (pag.97)
Prima del collasso, effettivamente, i banchieri ci assicuravano che i loro algoritmi intelligenti potevano calcolare ogni rischio ed evitare prestiti pericolosi. Sappiamo come è andata a finire, milioni di persone hanno perso la casa, il sistema finanziario è crollato, la popolazione è stata costretta a salvare le banche, causa del disastro, e oggi l’economia mondiale è sprofondata in una recessione che appare irreversibile, e i governi europei chiedono alla popolazione di rinunciare ai suoi diritti, ai suoi salari, al suo tempo libero, alla sua pensione perché il sistema finanziario – che ha provocato tutto questo – deve essere salvato.
Cosa c’entra in tutto questo Facebook? C’entra eccome, perché Facebook è la forma più compiuta di una forma di totalitarismo algoritmico di cui Lanier parla così: “Con la formazione del Web 2.0 si è verificata una forma di riduzionismo. La singolarità viene eliminata da questo processo che riduce a poltiglia il pensiero. Le pagine individuali che apparivano nella prima fase di Internet negli anni ’90 avevano il sapore della persona che le faceva. MySpace preservava qualcosa di quel sapore, anche se era cominciato il processo di formattazione. Facebook è andato oltre organizzando la gente dentro identità a scelta multipla, mentre Wikipedia cerca di cancellare interamente il punto di vista. Se una chiesa o un governo facessero una cosa del genere lo denunceremmo come autoritario, ma se i colpevoli sono i tecnologi, allora sembra che tutto sia alla moda, e inventivo.” (pag. 48)
E per finire, Lanier si chiede: “Sto forse accusando centinaia di milioni di utenti dei siti di social network di accettare una riduzione di sé per poter usare dei servizi? Ebbene sì, io li accuso. Conosco una quantità di persone, soprattutto giovani ma non solo che sono orgogliosi di dire che hanno accumulato migliaia di amici in Facebook. Ovviamente questa affermazione si può fare solo se si accetta una riduzione dell’idea di amicizia.” (pag. 52)
Il problema è fino a quale punto questa riduzione potrà arrivare. Se si tratta di persone che hanno ormai un’esperienza psichica ed esistenziale, probabilmente Facebook finirà per essere solo una enorme perdita di tempo e una trappola, come è successo per le diecimila persone che hanno affidato a Facebook la loro azione politica e comunicativa. Ma se l’utente ha otto anni o dodici, allora io credo che la questione sia molto più pericolosa.
“Mi preoccupo per la prossima generazione” – scrive Lanier – “che cresce con una tecnologia di rete che esalta un’aggregazione formattata. Non saranno forse più inclini a soccombere alle dinamiche di sciame?”
Queste parole non le scrive un umanista nostalgico, né un rabbioso sovversivo luddista, ma un ingegnere informatico che ha immaginato la rete molto prima che Internet esistesse. Per questo dovremmo ascoltarle, e riflettere, perché la nostra socialità, attraverso la rete, esca dalla rete e invada la vita, che altrimenti non ha più amicizia, né piacere, né senso.
Franco Berardi “Bifo” |