Nel 1905, il filosofo George Simmel scrisse un saggio dedicato a L’ansa del vaso. In esso, oltre ad individuare i possibili errori estetici insiti nelle varianti costruttive del vaso – pluralità di anse, eccessiva separatezza o eccessiva prossimità dal vaso –, Simmel ci offre un esempio di contraddizione che possiamo riscontrare un po’ ovunque. Dice che come oggetto fisico “che può essere toccato e pesato, maneggiato e connesso all’ambiente, il vaso è una parte di realtà, mentre la sua forma artistica conduce un’esistenza nettamente separata” – un’esistenza di cui la “realtà materiale” sarebbe soltanto il “sostegno”. Lui riconduce la cosa ad una sorta di “dualismo” come “unità” di ordine superiore che impedirebbe il prosieguo di ogni possibile descrizione – e ciò sarebbe perfettamente coerente con quella sua filosofia come “appassionato movimento del pensiero al di sotto della datità dei fenomeni”, come un “gettare degli scandagli, in innumerevoli e inconciliabili direzioni, nel fondamento delle cose”, un “fondamento” che, però – il però ce lo metto io – “non viene mai raggiunto da nessuno di essi”.
Devo dire la verità: a me le analisi di Simmel interessano sempre – sia che si occupi della moda, del denaro, della socievolezza, del pudore, della pigrizia o di cornici – interessano sempre; c’è un’acutezza nel vedere e nel far vedere che in altri pensatori del primo Novecento si trova raramente. Non a caso – e non ignominiosamente –, un collega dell’Università di Strasburgo lo ricorda come quello che invitavi a sedere e che, senza sedersi affatto, ti snocciolava immediatamente una teoria della sedia e del far sedere. Tuttavia, i suoi problemi di fondo non li faccio miei. La sua angoscia nel gettare scandagli che non si fermano mai non è la mia. La sua “realtà” e il “sostegno” in cui si trasformerebbe per una forma artistica in quanto tale sono soltanto metafore. Il vaso – con ansa a carico – può essere percepito e categorizzato per la funzione d’uso o per l’artisticità – è questione di operazioni mentali: se ne fai di un tipo hai la funzione d’uso, se ne fai di un altro tipo hai l’oggetto estetico – senza che nel materiale cambi alcunché e senza bisogno di ipotizzare una realtà di ordine superiore che risulterebbe metaforica quanto la prima.
Sulle pagine dell’“Osservatore romano” del 30 ottobre scorso apparve una recensione de Il cimitero di Praga di Umberto Eco a firma di Lucetta Scaraffia, professoressa di storia convertita o riconvertita al cattolicesimo al punto giusto da farsi annullare il primo matrimonio dal tribunale ecclesiastico. In questa recensione Lucetta – che un tempo si chiamava Lucia e non Lucia che un tempo si chiamava Lucetta come sarebbe stato lecito attendersi –, vittima di un livore implacabile quanto accecante, riesce ad accusare Eco di antisemitismo o, meglio, di un antisemitismo inconsapevole – forse. Dice che “non si può negare (…) che le continue descrizioni della perfidia degli ebrei” contenute nel romanzo, “facciano nascere un sospetto di ambiguità, certo non voluta da Eco ma aleggiante in tutte le pagine del libro”. Secondo lei, allora, “a forza di leggere cose disgustose sugli ebrei, il lettore rimane come sporcato da questo vaneggiare antisemita, ed è perfino possibile che qualcuno” – udite udite – finisca con il ritenere “che forse c’è qualcosa di vero se tutti, proprio tutti, i personaggi paiono certi di queste nefandezze”.
L’argomento – non lo nego – mi ha colpito. In linea di massima, non leggo romanzi e non leggo Eco neppure con una pistola alla tempia, ma la recensione della Scaraffia ha fatto scattare in me come un forte, rabbioso e insopprimibile desiderio di giustizia. Sono corso in libreria a comprarmene una copia e, cosa che mi stupisce tuttora, l’ho letto – dalla prima all’ultima pagina.
Eco ricorre alla formula dei diari incrociati ed allo stratagemma di una memoria che torna a raccapezzarsi gradualmente in seguito ad un trauma freudiano. Così, chi parla, parla in prima persona, usa il linguaggio del feuilleton – ovvero della letteratura popolare della sua epoca – e la cultura del pragmatico e del cinico cui, nei suoi tanti traffici tutti illeciti per vivere più o meno alla grande, capita di servire il capitale nelle retrovie della sua manovalanza – servizi segreti, delinquenza spicciola, infiltrati, cospirazioni vere o presunte – e nelle sue officine ideologiche – dove, per l’appunto, viene costruito o, meglio, ricostruito, quell’antisemitismo che già si era dimostrato utilissimo agli equilibri dei poteri nel lontano ma non lontanissimo passato. Che, dunque, il libro trabocchi di affermazioni antisemite è ovvio – perché non potrebbe essere altrimenti. Parla un antisemita debole, cioè uno che ha pochi argomenti contro gli ebrei di cui non gli fregherebbe alcunché se non lo pagassero – bene, almeno fin che dura – per parlarne male. Che, poi, anche i suoi interlocutori si rivelino in definitiva tutti antisemiti altrettanto deboli – riducendo all’inconsistenza più evidente tutta la teoria razzista di cui sarebbero portatori – è un risultato di cui si dovrebbe ringraziare Eco, la sua fatica e il suo intelligente ricorso ad una documentazione inoppugnabile.
Il cimitero di Praga è un libro che dovrebbe essere spiegato in ogni ordine di scuola, perché non vi si ricostruisce soltanto l’antisemitismo, ma l’intera storia patria e la storia occidentale del secolo diciannovesimo nonché i primi cruciali anni del ventesimo secolo – una storia in cui, si metta l’anima e tutto il resto in pace la Scaraffia, di “eroi positivi con cui identificarsi” non ce n’è e criminale sarebbe stato Eco se ce li avesse propinati. Chi li cerca e chi cercandoli ovviamente li trova – magari fin nel Vaticano – dovrebbe ammettere che, più che insegnare storia, farebbe bene a insegnare fiabe o potrebbe ammettere, più semplicemente, che di servizio all’ordine costituito si tratta.
Ho detto che Il cimitero di Praga dovrebbe essere spiegato – non ho detto che deve essere letto. Per leggerlo occorre una pazienza titanica – quella pazienza titanica che solo la vista della Lucetta mi ha dato. Il linguaggio del feuilleton mi è noioso come un mal di pancia a lenta maturazione, i recuperi della memoria mi risultano stucchevoli e mi sanno di artificio letterario, i mutamenti dei caratteri tipografici a designare i diversi soggetti narranti – il loro alternarsi e la logica dell’intreccio che lo governa – mi sembrano un trucchetto ormai usurato – Eco si è divertito di certo a scriverlo, insomma, ma pochi – e non io – potranno dire lo stesso di sé nel leggerlo.
E tuttavia – qui sta il punto, qui torniamo al vaso di Simmel – è eticamente, politicamente indispensabile apprezzarne la portata. Dipende dalle operazioni mentali che compio nei suoi confronti: se opero in un modo, mi affliggo della sua povertà estetica – non riesco a gioire a sufficienza della coerenza stilistica di Eco e della sua operazione straniante della letteratura popolare ottocentesca, mi annoio a morte; ma se opero in tutt’altro modo – se penso al bene che la sua diffusione comporterebbe per la civile e paritaria convivenza umana, se penso al bisogno di storia che abbiamo – al bisogno di una storia più sensata e più coerente –; se penso a come questo libro possa tramutarsi in strumento critico per le prossime generazioni –, allora dico che mi piace – non ho alcun dubbio – e, proprio per la sua impietosa capacità di accusare l’intera nostra storia di falsità, mi dà un briciolo di speranza per il futuro.
L’accusa di antisemitismo a Eco non va presa sul serio – e non tanto perché è paradossalmente insensata, ma perché serve a nascondere ben altro. La Lucetta Scaraffia, in realtà, non sopporta l’idea che la sua Chiesa Cattolica possa aver svolto un ruolo – e un ruolo di primo piano – negli orrori del passato e nelle carte false predisposte per nasconderli. Eco accumula documenti pesanti come macigni e chiarissimi nel dimostrare come la Chiesa, più che pensare a salvare le anime, si sia data da fare per salvare l’ordine costituito; che i suoi presuntamente pii interpreti più che alla santità sono orientati alla laidezza – pronti a tutto pur di soddisfare i propri vari appetiti; molto meno rispettosi della sacralità della vita di quanto sono soliti affermare; molto più atei di chi si dichiara tale. E questo, proprio a lei – alla Scaraffia, ad una che ha usato la pubblica fede nel cattolicesimo come un tram – salendoci e scendendone quando più le ha fatto comodo; ad una che, racconto della propria conversione alla mano non sembra tanto diversa dagli estatici personaggi che Eco ha il coraggio di ricondurre o alla truffa, o all’autosuggestione, o al sesso represso, o, ancora, al corto circuito neurologico –, questo, eh no, Eco non glielo doveva fare. Offesa nell’intimo proprio, allora, con perfidia la Scaraffia architetta i suoi “protocolli” contro Eco: se accusandolo di offese al cattolicesimo avrebbe comportato confronti imbarazzanti con il rischio di contribuire ad un suo maggiore successo, gettando lo scandaglio altrove – in un fondo meno ovvio quanto ovviamente più riprovevole e più impersonale –, accusandolo di antisemitismo – e, peggio, di antisemitismo involontario: così gli si fa fare anche la figura dell’idiota – avrebbe minato alla base le certezze dei suoi lettori fedeli e di chi gli è ideologicamente affine. È così che un’osservatrice romana si guadagna il paradiso.
Felice Accame
Nota
Il saggio di Simmel è contenuto in una bella raccolta intitolata La questione della brocca che Andrea Pinotti ha ben curato per Mimesis nel 2007. Il cimitero di Praga è stato pubblicato da Bompiani, Milano 2010.
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