L’autorità mi ha sempre procurato dei seri problemi. All’inizio c’è stato mio padre, una maestra elementare isterica e il più bullo del quartiere. Non riuscivo nemmeno a guardarli in faccia. Più avanti il preside alle superiori, il leader politico, il datore di lavoro, il poliziotto e il giudice. Tuttora sono travolto dall’insicurezza quando una qualsiasi forma di autorità mi si pone davanti. D’altra parte credo di non essere mai stato capace di esercitarla. Ancora adesso in questa società, così per come è organizzata, mi sento alle volte un disadattato. A vent’anni se non ci fossero stati i testi di un gruppo musicale e politico come i Crass sarei probabilmente crollato in un inferno umano di sottomissione, inganno e paura. Avrei vissuto l’intera vita pensando che avevano ragione loro, che anche senza volerlo dovevo a tutti i costi sforzarmi di subire e produrre angherie. Avrei abdicato a me stesso.
I Crass mi stimolarono ad addentrarmi in sentieri poco battuti, a ricercare un mio originale percorso di crescita, ad affrontare crisi e scelte difficili per evitare una resa incondizionata con il passare degli anni. Tuttavia le contraddizioni a cui sono sottoposto mi consumano ancora oggi i nervi e un patrimonio psichico indescrivibile. “Non bisogna mai guardare troppo da vicino i propri idoli. Ci si accorge che la loro arte viene fuori dalla tazza del cesso in una crisi di diarrea.” Me lo disse una volta Pete Wright, il bassista dei Crass. Capii allora che se volevo continuare su quella strada non avrei mai più avuto il supporto di un artista su cui modellare una mia personale mappa di sopravvivenza. Di conseguenza compresi pure che non sarei mai potuto essere nemmeno un’artista, a meno di non soffrire di una strana e perenne forma di dissenteria.
A distanza di quasi trent’anni, qui in redazione di Agenzia X, siamo tornati da qualche mese a riflettere sulla storia e sulle idee del gruppo musicale punk e libertario che all’epoca aveva rappresentato una vera bomba a orologeria pronta a scoppiare contro gli squali del business che speculano sulla ribellione giovanile.
Insieme a un collettivo editoriale di Madrid, altri amici e sostenitori italiani ci siamo studiati a fondo i loro testi scegliendone i più significativi. Abbiamo pensato di tradurli nuovamente e presentarli sotto forma di un libro antologico. Mentre eravamo impegnati a realizzare il volume, siamo finiti sul blog di Penny Rimbaud, il batterista dei Crass, e ci è capitato di leggere una sua lettera aperta in cui ci spiega in forma romanzata come è andata a finire la loro esperienza. Se le tensioni tra le persone di un collettivo non si riescono a risolvere, prima o poi scoppiano. I sogni, sono sogni e finiscono presto, la realtà è tutta un’altra cosa, per viverla fino in fondo è necessario attraversare incubi per sviluppare nuove utopie.
Investigando l’ascella privata è un testo straziante, pieno di dolore, a tratti fin troppo rancoroso, eppure ci svela una delle principali ragioni del loro immaginario anarchico duro a morire. Penny Rimbaud sembra ribadire il concetto strutturale del Do It Yourself aggiungendo qualche prezioso spunto. La lotta contro il potere, ci dice, è anche la lotta della memoria contro l’oblio. La fragilità è la cosa più umana che ci sia. Non esistono leader, idoli da seguire ciecamente o artisti sul piedistallo. Anche il musicista, lo scrittore, l’intellettuale che ingenuamente si considera straordinario, coerente e incorruttibile, vive in mezzo a un vespaio di contraddizioni. Non esiste autorità al di fuori di te stesso. Le crisi di diarrea sono uguali per tutti!
Proponiamo la traduzione di Investigando l’ascella privata per non rompere la continuità di un messaggio radicale che ancora oggi può servire da detonatore per migliaia di giovani potenziali attivisti del dissenso.
Prima di tutto il resto vi racconterò in breve quale fu il mio rapporto con i Crass e le loro idee.
Punk è stata la risposta ad anni di schifo una maniera per dire no, quando avevamo sempre detto sì
Questa era la scritta, ripresa da un testo dei Crass, che avevo stampato a caratteri cubitali sulla parete di camera mia, nella casa occupata milanese di via Correggio 18, dove c’era il Virus. Avevo 20 anni, da circa quattro ero diventato punk per sfuggire al riflusso, alla repressione e soprattutto all’eroina che falciava i miei coetanei sul finire degli anni settanta. Quando mi svegliavo, ogni mattina, la leggevo ripercorrendo nella memoria le ragioni e le varie fasi di quella mia convinta negazione.
Mi ero tagliato i capelli a 16 anni dopo un viaggio in autostop a Londra, ma in realtà il germe del punk mi si era insidiato con God Save the Queen visto in tv qualche mese prima, quando i Pistols vennero arrestati in barca sul Tamigi. Forse fu allora che vidi l’uscita del tunnel. Nel settembre del 1978, la mia vita dentro l’istituto tecnico per chimici di periferia era cambiata in un botto. Con il rapimento e l’uccisione di Moro, il correre delle storia aveva preso una direzione opposta a quella che mi ero vissuto fino a quel momento. Dove una volta c’era l’autogestione, i cortei ogni due giorni, il sei politico e le lezioni facoltative, si era tornati a una scuola normale con presidi, professori, cattedre e meritocrazia a farla un’altra volta da padrone. Dallo straordinario all’ordinario nel giro di pochi mesi. I miei compagni, del tutto disorientati, avevano deciso per la stragrande maggioranza di farsi le pere. Su una classe di 25 alunni eravano rimasti fuori dall’eroina sì e no in una decina. Le lezioni erano diventate insopportabili. Nel mio quartiere i circoli giovanili del proletariato e i centri sociali erano stati da poco sgomberati, c’erano rimasti solo gli oratori e qualche giovane sulle panchine dei parchetti in cerca della propria dose quotidiana. In casa non ci potevo più stare, sospinto dal clima quasi rivoluzionario del biennio ’76/77, mi ero ribellato a tutto ciò che rappresentava la famiglia e i suoi valori. Non volevo tornare indietro, piuttosto di ritrovarmi con un cravatta la collo, in quel frangente avrei preferito il cappio. Mi trascinavo stancamente giorno dopo giorno verso il baratro: o rientrare nei ranghi o la tossicodipendenza. Non c’era scampo.
Attività sovversiva
Ero davvero in un tunnel. Ecco perché appena sentii un ragazzo di strada londinese, mezzo inglese e mezzo irlandese, inneggiare al no future, mi convinsi di essere già un punk. Non avevo futuro, lo sapevo, ma finalmente capii che il malessere era meglio tirarlo fuori piuttosto di introiettarmelo.
Passai parecchio tempo a mascherarmi dietro uno sguardo assassino, i capelli sparati in aria con il sapone, la camicia di forza del manicomio tenuta insieme da spille da balia, svastiche e crocifissi distrutti dalla A cerchiata. Mi sentivo bene, giravo con i vestiti copiati dalle foto delle punkzine, i passanti si chiedevano se ero un marziano o un attore di un film di zombie e, a parte la colla che sniffavo dal sacchetto di plastica, più per inscenare l’autodistruzione che per altro, riuscii quasi magicamente a stare lontano dalle droghe pesanti. Al concerto dei Clash a Bologna nel giugno del 1980, mi presentai orgogliosamente travestito da Sid Vicious: la giacca bianca, le catene al collo e le braccia con cicatrici di tagli e bruciature di sigaretta. Tanto per essere in sintonia con il concerto mi ero anche procurato una t-shirt dei Clash. Prima dell’inizio di London Calling, un gruppo di punk locali mi prese in giro consegnandomi tra le mani un volantino in cui si citavano più volte i Crass.
Quando, nel 1976, il vomito punk schizzò per la prima volta sulle pagine dei giornali col messaggio Do It Yourself, noi, che in diversi modi e per diversi anni non avevamo fatto che quello, abbiamo creduto ingenuamente che i vari Johnny Rotten, Joe Strummer e compagni intendessero lo stesso. Ma ben presto ci rendemmo conto che i nostri colleghi punk non erano altro che dei fantocci.
Se questa frase l’avessi letta subito dopo aver visto alla tv i Pistols, avrei maledetto i Crass e tutta la loro ciurma di ex hippy e preti anarchici. Come si permettevano di chiamare fantocci coloro che mi avevano salvato la vita? Tuttavia era passato già molto tempo e l’infatuazione del primo punk stava evidentemente svanendo. Mentre mi scatenavo sotto il palco dei Clash, in qualche remota zona del mio sistema nervoso, sentivo che quei fantocci mi facevano stare bene fino a un certo punto. Fu lì che cominciai a farmi qualche domanda. Ascoltai a lungo Nagasaki Nightmare, restai ore a decifrare i loro scritti che si arrampicavano come geroglifici nei poster che racchiudevano il 45 giri. Era solo un incubo quello che mi circondava? E soprattutto sarei rimasto ad aspettare la fine del mondo senza far niente? Quell’estate andai a Londra e mi fiondai in Kings Road per compare un po’ di vestiti da Sex, il famoso negozio dell’accoppiata McLaren Westwood. Li avevo talmente desiderati che non mi preoccupai più di tanto dei dubbi nei quali ero avvolto. Ma al concerto dei Poison Girl, mi sentii un cretino. La conoscenza dei Crass, che erano presenti in quella specie di centro sindacale, mi ribaltò l’esistenza e il dubbio divenne certezza. “Sovverti!”, cantavano gli Zounds dal palco. Cosa stavano dicendo quei ragazzini della mia identica età a proposito della sovversione? Perché i Crass sostenevano che la musica fosse solo un pretesto, un mezzo per veicolare la loro attività sovversiva? I miei vestiti stonavano a tal punto da farmi rimpiangere quelli che mi ero autocostruito nei mesi precedenti per scorrazzare nelle vie centrali di Milano. Il Do It Yourself non era quindi uno stratagemma da utilizzare in mancanza d’altro, ma una precisa indicazione per uno stile di vita radicale e più consapevole. Gli slogan contro la guerra e contro il capitalismo, le donne con addosso scritte antisessiste, volantini di collage e stampini, le mascherine che usavano per sprayare i muri. Stendardi e bandiere nere, l’impianto fonico marchiato dal serpente a due teste che si mangiava una croce, il simbolo dei Crass. Restai in silenzio a contemplare quel famoso collage dei Pistols appoggiati al muro con al posto delle loro teste quelle della Thatcher, della statua della libertà, del papa e della regina... Mi sembrava di avere davanti agli occhi tutta la storia del pensiero critico e ribelle, i pezzi del mosaico incasinato che mi frullavano da anni nel cervello si stavamo sistemando su uno schema che finalmente potevo decifrare. Le subculture di strada, l’anarchia, il punk, gli hippy, i beat, il dada, la controcultura, i situazionisti... Quella notte stessa decisi di investire gli ultimi soldi che possedevo per comprarmi tutti i dischi e le punkzine dei Crass e dei progetti a loro collegati.
“Nella vostra decadenza la gente muore”, strillava Eve Libertine nelle nostre teste quando cominciammo a pensare di trasferirci in massa dentro una casa occupata da ex hippy, per gettare le basi di un progetto comunitario incentrato sull’attitudine punk. Erano passati quasi due anni dal concerto londinese ed era giunta l’ora di provare a realizzare qualcosa di simile anche a Milano. Qualche tempo prima avevo parlato con Pete Wright, il bassista dei Crass venuto in Italia per una serie di conferenze. Avrà avuto almeno 12 anni più di me e fu per me una sorpresa potere ascoltare i suoi discorsi così chiari, diretti, visto che con i miei fratelli maggiori in città avevo sporadici rapporti e di solito il loro linguaggio era infarcito di troppa politica che allora mi sembrava solo noiosa ideologia, tra l’altro superata dagli eventi sconnessi che avevo mio malgrado attraversato. Pete mi spiegò il loro il progetto complessivo di vita alternativa. L’autoproduzione, la scelta libertaria, le denunce e la repressione alla quale erano sottoposti. Riuscii a raccontargli la situazione dei punk milanesi, dell’eroina che circolava ancora in grande quantità. Mi chiese se c’erano rapporti con gli anarchici e se avevamo mai pensato di fare una punkzine. “Sì, certo!”, gli dissi senza fargliele vedere perché erano quasi esclusivamente dedicate alla musica. “Non importa in quanti leggono ciò che stampate”, mi disse, “basta che scriviate qualcosa di essenziale per voi stessi, la musica va benissimo, ma non viviamo solo di quella. E poi una rivista, una qualsiasi pubblicazione, crea un principio comunitario. E una comunità, anche se minuscola, è pur sempre più resistente di un individuo isolato.” Non so se disse esattamente queste parole, ma il concetto lo compresi di sicuro. Infatti, per non subire più gli attacchi della polizia che ci prendeva ogni sabato e ci portava in questura, decidemmo di fare un volantino con un testo che assomigliava un po’ a uno dei Crass e lo ciclostilammo nella storica palazzina anarchica di viale Monza. Da lì partì l’idea di collaborare insieme a più giovani militanti di quella sede allo scopo di pubblicare una rivista. Il primo numero di “Nero” era infarcito di proclami, di insulti ai politicanti, di collage e traduzioni delle canzoni dei Crass e le riunioni le facevamo dentro una stanzetta gelida nella casa occupata di via Correggio 18. Quel luogo ci piacque al tal punto che cominciammo a frequentarlo spesso, finché un giorno accendemmo un fuoco per scaldarci provocando l’ira degli occupanti. Fummo costretti a presentarci il giorno dopo alla loro assemblea e, nonostante le iniziali incomprensioni, capimmo che il rapporto sarebbe stato utile per entrambi le componenti. Gli hippy di via Correggio avevano bisogno di svecchiarsi un po’, noi punk avevamo l’urgenza di trovare un posto per realizzare un fronte comune un poco più ampio del solito gruppo musicale.
Il ruolo del virus
Quella casa occupata non era la comune della campagna inglese dove vivevano i Crass, tuttavia ci assomigliava e in più c’erano dei capannoni industriali abbandonati per poter organizzare concerti, come avevamo visto fare ai punk berlinesi. Il Virus nacque poco tempo dopo e in molti diventammo pacifisti, antisessisti e vegetariani. Fu un’esperienza magnifica per tutti coloro che vi parteciparono, c’era un collettivo di circa cento ragazzi e ragazze di cui nessuno aveva ancora vent’anni. Il modello del Virus, cioè l’autogestione basata sull’attività politica di base, finanziata dai concerti settimanali proposti a bassissimi costi, fu ripreso poi da centinaia di centri sociali in Italia nel corso degli anni a venire.
Nel 1982, con una dozzina di altri virusiani, andammo a trovare i Crass nella loro casa a Epping, a 50 chilometri da Londra. Arrivammo a notte inoltrata, affamati e infreddoliti. Sembravamo dei fanatici religiosi giunti ben oltre l’orario di chiusura davanti ai cancelli di Lourdes. Nonostante il loro scocciato approccio – “too many people” – ci accolsero piuttosto bene, ci rifocillarono e per dormire ci diedero la casa dei bambini, una piccola costruzione fuori nel giardino. La mattina dopo ci svegliammo ritrovandoci nel mondo dell’utopia realizzata. La casa era bellissima, interamente costruita da loro con legno e materiale riciclabile. L’ambiente era pulito e arioso, molto strano per le case inglesi. Uomini, donne e bambini stavano coltivando gli orti, cani, gatti, capre e galline saltellavano ovunque. Bici e auto elettriche. Assistemmo alla riunione per la preparazione di un brano di un gruppo emergente che poi sarebbe finita sulla raccolta Bullshit
Detector, ci accompagnarono in una specie di tour, prima nel magazzino con la distribuzione dei dischi e delle riviste, poi nella sala grafica con tutti i collage di Gee Vaucher. Ne ricordo uno grande appeso sul muro che ritraeva la Thatcher con la faccia deformata mentre rubava il portafogli dalla borsa di una casalinga. Pete ci portò giù nelle sale di registrazione e ci fece ascoltare il loro ultimo lavoro, Christ – The Album che ancora non era arrivato in Italia. Mentre ci spiegava le sue teorie da antistar e come era organizzata la Crass Records, prendemmo accordi per distribuire i loro dischi al Virus. Eravamo davvero gasati, volavamo alti su un altro mondo possibile, tuttavia Pete sembrava triste, rabbuiato. Era appena finita la guerra delle Falkland e i Crass non erano riusciti a intervenire come avrebbero desiderato fare. “Ci abbiamo messo troppo a fare questo disco e non abbiamo detto niente contro la guerra”, ci disse. Noi non lo sapevamo ma probabilmente stavano già preparando il loro finale pirotecnico.
Già a settembre a Milano nacque la Virus Diffusione e la casa editrice Antiutopia creazioni, così il rapporto con i Crass si fece più concreto. Ci scrivevano spesso, erano lettere e dischi che ci mettevano almeno 15 giorni ad arrivare, ed era una super gioia quando ricevevamo quei pacchi. Ci dicevano che in Inghilterra il dissenso contro la guerra veniva zittito e perciò avevano deciso di pubblicare un singolo con la canzone How Does It Feel to Be the Mother of a Thousand Dead? La canzone era un diretto attacco a Margaret Thatcher e quindi furono definiti dai media come traditori e perseguitati dalla polizia e dal governo.
L’estate successiva, dopo un anno passato a rafforzare il circuito del DIY nel nostro paese, invitammo i Crass a partecipare alle manifestazioni contro la base missilistica americana a Comiso, nella lontanissima Sicilia sudorientale. Pete e Phil Free, chitarrista dei Crass, arrivarono con nostra grande sorpresa al camping, già circondato dai celerini e dai Nocs con il passamontagna a mascherare il viso. Prima delle manganellate e degli arresti, ci raccontarono cosa gli era successo negli ultimi mesi. Avevano realizzato in segreto un nastro poi spedito anonimamente alle principali agenzie di stampa mondiali. Il nastro conteneva alcuni scoop sulla guerra delle Falkland raccolti dalla diretta testimonianza di un marinaio presente sul campo di battaglia e perciò aveva provocato un vero e proprio caso giornalistico definito thatchergate. Era una falsa registrazione di un ipotetico colloquio tra Reagan e la Thatcher in cui, tra le altre sarcastiche frasi astutamente ricostruite, veniva presa in considerazione l’idea di un conflitto nucleare in Europa. Proprio in quei giorni, nella bollente Sicilia, un giornalista aveva scoperto la responsabilità dei Crass nella realizzazione di quel nastro. Dopo aver litigato pesantemente sull’antipacifismo a priori degli anarchici insurrezionalisti che organizzavano la mobilitazione, i due componenti dei Crass tornarono in fretta a Londra per essere sottoposti a una serie impressionate di interviste da parte di cronisti di tutto il mondo.
Avevamo finalmente raggiunto una specie di potere politico, eravamo trattati con considerazione e rispetto. Ma era davvero ciò che volevamo? Dopo sette anni di attività eravamo diventati proprio quello che all’inizio volevamo combattere. Avevamo sì trovato una base solida per le nostre idee, ma qualcosa si era come perso per strada. Eravamo divenuti paranoici dove una volta eravamo gioiosi, pessimisti proprio quando era l’ottimismo la nostra causa.
Tutto ciò lo affermò anni dopo Penny Rimbaud lasciando per molto tempo all’oscuro i loro seguaci. Continuarono a stare insieme qualche mese, poi mentre noi ospitavamo al Virus un gruppo musicale di San Francisco, gli MDC che pubblicavano per la Crass Record, ricevemmo un’ultima lettera. Era il gennaio 1984 e la loro storia sembrava davvero finita, proprio come riportato sui dischi in cui c’era la data a scalare che finiva nel 1984, come fosse la materializzazione della profezia orwelliana. Purtroppo non sono mai riuscito a rintracciare quella lettera, ma ricordo che al Virus fu una specie di dramma. Firmata da diversi gruppi musicali dell’area crassiana, era incentrata sulle repressioni subite dopo la scoperta degli autori del thatchergate, ma per il resto era il canto del cigno della loro esperienza. Dopo qualche mese il Virus fu improvvisamente sgomberato dalla polizia.
Nel corso di oltre 25 anni mi è capitato di rincontrare qualche volta gli ex componenti dei Crass, Pete in un locale vicino a Bergamo che presentava una collana di libri di storia libertaria per bambini, Penny Rimbaud in un convegno sulle controculture a Napoli, il cantante Steve Ignorant in un concerto al Laboratorio Anarchico di Milano.
Ho tentato di seguire quello che facevano in rete e ho acquistato i libri in inglese che ne parlavano. Un pezzo così importante della mia vita e quella di tantissime altre persone che militarono e che ancora oggi arricchiscono la galassia del DIY, non poteva sopportare l’assenza di un libro dedicato ai Crass su un banchetto di editoria punk militante o tra gli scaffali di una qualche libreria di qualità. Per molto tempo ho aspettato un editore, con le finanze messe un po’ meglio di Agenzia X, che si decidesse a comprare i diritti dei libri dei Crass e riuscisse a tradurli in italiano. Grazie alla collaborazione con gli amici editori madrileni di La Felguera Ediciones e alcuni amici e collaboratori italiani, siamo finalmente riusciti a pubblicarne uno noi. Crass Bomb è un libro antologico che raccoglie le testimonianze, i testi, gli intenti politici e artistici di uno storico collettivo anarchico che è riuscito a criticare la società dello spettacolo senza mai cadere negli stereotipi ribellistici o nelle gabbie ideologiche. Proprio per questa ragione e ben al di là del loro scioglimento, intorno a loro si è sviluppato un vasto movimento internazionale che è riuscito a imporre, nonostante i numerosi attacchi della cultura dominante, l’idea e l’attitudine stessa del Do it Yourself, uno stile di vita che ancora oggi rappresenta un valido strumento nella lotta per l’uguaglianza.
Con la crisi economica, le idee e le pratiche dei Crass sembrano ora tornate all’improvviso d’attualità. Realizzando questo libro ci siamo resi conto ancora di più di quante indicazioni possano ancora fornirci, come se la memoria dei Crass fosse davvero un Atto d’amore, il loro ultimo emozionante urlo di congedo prima dello scioglimento. Un Atto d’amore verso le generazioni future che hanno ancora il coraggio di dire di no!