Rivista Anarchica Online


impegno sociale

La militanza e l’orticaria
di Maria Matteo

Anche Maria Matteo è stata giovane. E qui ricorda i suoi primi passi nel campo della militanza politica (parola che non le è mai piaciuta e ora non usa più). Ricordi personali per una riflessione collettiva.

 

Quando, come ormai è consuetudine da molti anni, ho domandato a Paolo se avesse qualche suggerimento per l’articolo di questo mese, anziché il consueto “fai il cazzo che vuoi”, mi è stato suggerito di occuparmi “del senso della militanza oggi”. Secondo Paolo si tratterebbe di una cosa “nelle mie corde”. Di primo acchito mi pareva un’idea un po’ balzana e, soprattutto, non nelle mie corde. Poi ho deciso di provarci. Il proporre una riflessione sul senso della militanza oggi rimanda ad un’epoca precisa, quella in cui si cominciò a parlare di crisi della militanza, quel piccolo medioevo delle vite di tanti di noi che furono gli anni Ottanta. Ne è venuta fuori una sorta di genealogia, politica ma non solo, di quest’approccio tematico.

La sfida di essere anarchici

Mi sono ricordata dei miei quattordici anni. La scuola media “Baretti” di via Santhià in Barriera di Milano era uno scatolone di amianto e alluminio, nuovo ma già tutto scassato. Si parlava sempre di certi ragazzi che venivano a scuola con le lame ma non ho mai saputo se fosse verità o leggenda. Io ero una brava ragazzina, timida come un’ostrica e curiosa di tutto quanto. Un giorno i bidelli fecero sciopero e, per protesta, sparsero l’immondizia dappertutto. Non si poteva stare in aula e così, meraviglia delle meraviglie, noi ragazzi andavamo su e giù. Per la prima volta in vita mia mi sono seduta su uno scalino invece che su una sedia. Tutti parlavano, discutevano, scambiavano idee. I bidelli e le bidelle facevano comizi! Quelli della ramazza e dello straccio, quelli del grembiule blu, erano di colpo cambiati. Quella cosa, già lo sapevo, era la politica.
Quel giorno presi una malattia che non mi è più passata. Quando mia madre se ne accorse mi prospettò un futuro fosco, pieno di guai e di rischi. Inutile dire che aveva ragione, inutile dire che invece di dissuadermi mi convinse ancor di più.
Nei due anni che seguirono, passo passo, trovai la mia strada. Erano anni facili, anni che la politica la trovavi dappertutto, non la dribblavi neanche volendo. Con il tempo ho imparato che anche chi arriva in anni più difficili, se la malattia lo prende poi difficilmente gli passa.
La partecipazione diretta, l’esserci quando si decide del tuo domani e di quello di tutti, quell’idea di libertà che si fa scommessa collettiva, quell’idea di libertà che smonta le gerarchie, che annulla lo sfruttamento bestiale, cui vedevo piegati mio nonno e mia nonna, mio padre e mia madre e tanti altri intorno, erano tra gli ingredienti della scelta, che poco a poco, mi avrebbe disegnato la vita.
Ma naturalmente c’era dell’altro, che c’è sempre stato anche dopo. C’era la voglia di capire, la sfida intellettuale che l’essere anarchico pone a ciascuno di noi. La sfida a sperimentarsi e a sperimentare relazioni sociali e politiche libertarie, che sappiano prefigurare oggi il nostro domani, che sappiano porre le condizioni perché la fiammata che spezza il disordine statale e capitalista sappia poi farsi anarchia concreta.
Non troppo tempo dopo, ma qualcuno disse che era passata una generazione, ci fu la diaspora. Tanti, convinti che la rivoluzione fosse come i gratta e vinci, che inventeranno qualche anno più tardi, poiché non avevano vinto subito, tornarono a casa, scorciarono le barbe, fecero un paio di figli cui racconteranno di un’epoca mitica e ormai finita.
Tristi. Ancor più tristi quelli che rimasero a elaborare il lutto. Quant’era bella la mia fabbrica, quant’era gagliardo il mio quartiere, come era giovane la giovinezza, com’era bello ghiacciarsi alla Porta Cinque con i thermos e i bidoni per scaldare l’alba. Patetici, noiosi, insopportabili. Fu quello il periodo che la gente se ne stava nei circoli a discutere la militanza: che senso aveva, e basta con la storia di volantinare di qua e di là perché tanto non serve, e basta con i manifesti che nessuno li legge. E poi i mal di pancia infiniti, le menate sul riflusso, la sconfitta, i microgruppi marxisti che discutevano da mane a sera se il tale fosse un infame, un dissociato, un compagno che sbaglia.
Tutta roba che mi faceva venire l’orticaria allora e, solo a ripensarci, anche adesso.

L’area dell’anarchismo sociale

Tra gli anarchici c’era chi rifletteva sull’immaginario sociale, su un’idea di trasformazione che rimandava, aggiornandole, alle tesi educazioniste, innervate da una tensione autogestionaria.
La crisi della militanza trascolorava in riflessioni sull’irrimediabile inattualità del movimento anarchico, sulla necessità di ri-costruirne una genealogia sul piano assiologico come su quello politico. La rottura rivoluzionaria, da taluni ritenuta inutile e sin dannosa, da altri considerata imprescindibile, passava comunque in secondo piano rispetto alla necessità di un processo rivoluzionario che si sviluppasse grazie ad una progressiva mutazione culturale.
Era, e rimase, un’avventura di riviste, libri, opuscoli. Probabilmente non poteva essere altrimenti, perché, per i protagonisti di quel percorso, non se ne sono esaurite le ragioni. La debolezza teorica di quell’argomentare, insita nel suo rimandare ad un’area libertaria, esterna al movimento anarchico esistente, la sperimentazione del processo di trasformazione sociale, ne ha progressivamente ristretto gli orizzonti, nonostante per un certo periodo sia stata capace di innescare un dibattito vivace ed interessante.
Sulla crisi della militanza ci furono anarchici che ci costruirono una teoria del rifiuto, respingendo l’idea stessa della diffusione delle idee, l’idea stessa di rivoluzione, perché la rivoluzione, mostro vorace, ti promette il domani e ti mangia l’oggi. Così, parabola punk e dada, un presente senza futuro si prese il suo spazio all’interno del movimento. Dalla militanza alla vita. Una roba, a ben vedere, affascinante ma molto più invasiva. L’oggi può mangiarti i giorni come il domani, quando lo sperimentare si esaurisce, quando lo Stato bussa alla tua porta e presenta un conto molto salato.
C’era anche chi teorizzava la rottura senza processo, inteso come forma di mediazione, di rinuncia alla necessaria radicalità anarchica, nella convinzione che la rottura, distruggendo l’esistente, mettesse immediatamente in campo la possibilità di una società libera e autogestita. La residualità intrinsecamente avanguardista di quest’approccio è testimoniata sia dal suo progressivo esaurirsi sia dal successivo emergere, all’interno delle stesse aree, di una rinnovata attenzione alle questioni sociali. Curioso il fatto che, negli approcci più recenti, l’elegia della rottura rivoluzionaria, il cantico delle macerie ceda il passo ad una sorta di ragnarok – le rivolte anomiche degli ultimi – il cui dopo si perde nell’indeterminazione. Non c’è traccia dell’idea della crisi della militanza, ma sfuma in un domani remotissimo quella di rivoluzione.
L’area dell’anarchismo sociale, la FAI ma non solo la FAI, pur subendo inevitabilmente i colpi di una crisi che, oltre la sfera pubblica, investiva quella individuale, ha mantenuto un attivismo politico e sociale, che le ha consentito di attraversare la palude vischiosa degli anni Ottanta. Retaggio poco desiderabile di quegli anni è stata la diffusa attitudine a pensarsi non tanto come minoranza, poiché minoranza si è, quanto come area minoritaria, più destinata alla testimonianza che ad un ruolo attivo sulla scena politica e sociale. Una comunità più che un soggetto politico. L’anarchismo sociale, pur avendo al proprio attivo una riflessione salda sui temi della trasformazione sociale, non sempre è stato all’altezza delle sfide che a cavallo tra gli ultimi anni del secolo e i primi di quello successivo, hanno posto i movimenti di opposizione sociale. Probabilmente alla radice c’è l’elusione del tema della politica, troppo spesso relegata alla sfera statuale, la scarsa attenzione allo sviluppo di una sfera pubblica non statale, che pure ha trovato ampia espressione nei movimenti no global, ambientalisti, di autogestione territoriale. Eppure. Sebbene ancora l’orticaria non mi sia passata, tutto quel ragionare sulla crisi della militanza, tutte le riflessioni, le pratiche, le scelte che ne sono scaturite, oggi, a distanza di anni da quello snodo cruciale degli anni Ottanta, gli anni che per me rappresentarono il passaggio dalla giovinezza alla prima maturità, mi pare che ci abbiano consegnato un ambito di riflessione e sperimentazione vitale, nonostante le difficoltà, nonostante l’esaurirsi di alcuni percorsi, nonostante l’asprezza di confronti, che talora ne sono scaturiti.

Ordine materiale e ordine simbolico

L’allontanarsi dall’orizzonte esistenziale della prospettiva, che tanti pensavano vicina, di una trasformazione sociale nel senso dell’eguaglianza e della libertà, se si è portata via le speranze e le passioni di tanti, ci ha tuttavia posto di fronte alla necessità di pensarne e praticarne l’avvicinamento. Un avvicinamento che sappia investire le nostre stesse vite, che sappia costruire l’oggi per saper autogestire il domani, che sappia restare in continua tensione conflittuale con l’esistente per non essere riassorbiti, masticati e sputati via da un oggi che tutto getta sul mercato.
Un avvicinamento che viva della consapevolezza che la rottura dell’ordine simbolico accelera lo spezzarsi dell’ordine materiale, come il frantumarsi dell’ordine materiale da una spinta in avanti all’affermarsi di un diverso immaginario sociale.
L’orizzonte della rivoluzione è lontano, ma permea di se le nostre vite.
A proposito… la parola militanza mi ha sempre fatto venire l’orticaria anche quando non se ne teorizzava la crisi. Per la radice intrinsecamente militarista e per quell’aura di dovere imposto, non scelto liberamente. L’ho sempre usata poco, adesso non la uso proprio più.

Maria Matteo