C’è una cosa che, soprattutto, stupisce e impressiona in questi brutti tempi in cui il mondo della politica e quello dell’informazione non danno esattamente l’immagine migliore di sé. È la risolutezza, direi quasi l’ostinazione, con cui i suoi seguaci difendono, in tutte le possibili sedi, un capo del governo così patentemente sorpreso con le dita nel barattolo della marmellata. E non mi riferisco ai suoi collaboratori storici, ai Bondi, ai Cicchitto, ai La Russa e simili, tutta gente che condivide da tempo con lui le responsabilità del potere e sa, presumibilmente, che ben poco resterebbe in piedi della propria carriera se venisse stroncata quella del capo. Costoro, in realtà, finora si sono tenuti abbastanza in secondo piano (con le eccezioni della Santanchè, che si conferma nel suo ruolo di battitrice libera, e di Alfano, precettato ex officio per via del suo ruolo, con risultati abbastanza penosi).
A combattere in prima fila, a rischiare la pelle mediatica nei talk show e nelle interviste, sono più spesso figure meno note. Giovanotti e giovanotte di bell’aspetto, deputati semplici (soprattutto deputate) e giornalisti di buon mestiere, di quelli che, di solito, tirano la carretta in redazione mentre i direttori si pavoneggiano in prima pagina o in TV. Non sono sempre costoro, dei palloni gonfiati, ma questo non gli impedisce di ripetere continuamente, quasi ossessivamente, la stessa canzone.
Non ci si può pronunciare sulle malefatte dell’Uomo di Arcore (loro, almeno, non intendono farlo) perché la sua privacy è stata violata. Perché le procure lo perseguitano senza pietà. Perché non ci sono prove a corroborare le accuse e comunque dovrebbe bastare la presunzione di innocenza a togliere valore a ogni voce meno che elogiativa, a ogni confessione di vita vissuta, a ogni rivelazione spontanea o intercettata sui riti che si celebravano a villa San Martino e sulle seratine “rilassanti” ivi organizzate a uso del padrone di casa. Da questo garantismo affatto meccanico (e un poco ebete) da questo rifiuto a priori di prender solo coscienza delle imputazioni, non li si può in alcun modo schiodare, neanche quando i fatti sono acclarati e riconosciuti da tutti. È il caso della famosa telefonata in questura sulla nipote di Mubarak, che figura in fior di rapporti e verbali e rappresenta, naturalmente, il perno di tutta l’inchiesta, che da esso si è dipanata. Pure anche di fronte a questo non trascurabile particolare riescono a chiudere glo occhi gli zelatori, forti dell’incauta dichiarazione di un procuratore (lo stesso, peraltro, cui addebitano una volontà di persecuzione spinta quasi fino al colpo di stato), che ebbe a dire che nulla di irregolare andava annotato per quanto successo in Questura quella famosa sera.
Quelli strani incontri
Questa indomita risolutezza, questa volontà di non voler vedere, né sentire (né tantomeno parlare) secondo il modello delle tre scimmie sagge della tradizione orientale, si è dimostrata finora più forte di qualsiasi argomento. Il che è assurdo, naturalmente, perché le cronache sono piene di particolari significativi in tutt’altro senso e, infatti, per spiegare il dilagare dello scandalo, oltre ad addebitarlo al progetto ostile della magistratura, bisogna compiere un passo in più e presupporre un’ampia, coincidente, congiura dei media. Assurdo, perché chi controlla i media in Italia lo sappiamo tutti. Ma un‘assurdità che, finché può reggere, regge. I giovanotti e le giovanotte non ignorano che le prove servono solo quando si tratta di condannare o assolvere, che per giungere a quel discrimine bisogna prima celebrare un processo e che gli elementi attualmente disponibili sono più che sufficienti per avviarne uno. Sanno benissimo che, con simili riscontri, qualunque altro accusato che non fosse Berlusconi sarebbe già sotto chiave. Non gli sfugge, probabilmente, che gli elementi di autodifesa forniti dall’interessato (la testimonianza virtuale della fidanzata misteriosa, il carattere asettico di quegli strani incontri, nel corso dei quali una ventina di fanciulline avrebbero, sì, avuto il compito di intrattenere a pagamento tre anziani signori, ma senza sesso, per carità) sono risibili. Sanno insomma che il loro leader è vittima, più che dei procuratori politicizzati e delle congiure dei giornalisti ostili, del demone meridiano (o, nel suo caso, serotino), che da sempre spinge gli uomini anziani al frenetico inseguimento della giovinezza perduta.
Ma tengono duro lo stesso, nella speranza che passi la nottata e il clamore si spenga. Se gli italiani, come suonava un titolo del “Giornale”, “non ci cascheranno”, se ridaranno fiducia a quello che da sedici anni si presenta loro come l’ultimo modello di uomo del destino, il Silvio nazionale se la caverà un’ennesima volta e loro con lui. Per essere associati alle sue glorie future, in fondo, non è necessario neanche sforzarsi troppo: basta una certa dose di faccia di bronzo e la tetragona volontà di non vedere quanto è sotto gli occhi di tutti. Due elementi di cui, in questo allegro paese, non si lamenta la scarsità. Il fatto che l’opposizione faccia accuratamente finta di non esistere, certo, aiuta.
Permessivismo consolatorio
Permettetemi una chiosa. Personalmente, ho l’impressione che nessuno creda (o speri) sul serio che gli italiani “non ci cascheranno”, che si rifiutino, cioè, di credere che il capo del loro governo abbia compiuto le orribili cose che lo hanno accusato di compiere. È altamente probabile, al contrario, che, più o meno, ci credano tutti, a partire dai più appassionati dei suoi difensori. La vera speranza di costoro è che, per stanchezza, cinismo, indifferenza, bassura morale o innata tendenza al lassismo, la maggioranza dei cittadini votanti decida di non badarci. Di fregarsene. La scommessa cui il Berlusca affida le sue probabilità di salvezza riguarda proprio il livello medio di moralità nel paese, nella speranza che non si riveli troppo più alto del suo.
Non è, credetemi, una pretesa da scartare con sdegno o con leggerezza e non solo perché è confermata da tutti i sondaggi. Nella cultura europea esiste un rispettabile filone che vede negli italiani una specie di simpatici cialtroni, ricchi di sensibilità, capaci più di tanti altri di godersi la vita, versati nella musica, nelle lettere e nelle arti, ma debolucci, appunto, quanto a forza morale e scarsi di doti civiche in genere. È uno stereotipo del romanzo popolare, soprattutto inglese, del primo ’800, ma lo si ritrova, in parte, persino nell’opera di un sincero amico del nostro paese, come lo Stendhal delle Cronache italiane e della Certosa.
Naturalmente esiste anche un opposto punto di vista, legato soprattutto al pensiero risorgimentale, ma variamente testimoniato a partire dall’Illuminismo, che tende ad addebitare le eventuali lacune in quel senso non tanto a un’inclinazione innata, a un genio nazionale perverso, quanto a una serie di fattori storici, che ci si può persino proporre, applicando le mosse opportune, di eliminare. I suoi sostenitori si sono spesso riferiti all’influenza di una chiesa che ha sempre cercato di ovviare con una sorta di permissivismo consolatorio all’ostinato rifiuto di concedere a sudditi e fedeli ogni forma di vera libertà e non sarà un caso se dalla chiesa di oggi, nonostante le speranze di molti, non è giunta una sola parola di vera condanna di Berlusconi, Anche le prese di posizione del papa e di un paio di cardinali, comprese quelle del presidente della Conferenza episcopale, per quanto accolte con entusiasmo da una sinistra incapace di trovare da sé i propri argomenti, in realtà sono tanto millimetricamente calibrate da non servire a nulla.
Non è questa la sede, naturalmente, per dibattere questioni di tanto momento, ma può valer la pena di tener presente che il caso Ruby non mette soltanto in discussione i costumi di un potente un po’ depravato, ma offre l’occasione di aprire un dibattito sulla dimensione etica della società in cui viviamo.