Rivista Anarchica Online


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La schiavitù del nostro tempo
di Bruna Bianchi

Le edizioni BFS pubblicano con questo titolo un’originale antologia di scritti di Lev Tolstoj, anarchico molto “sui generis”.
Eccone il saggio introduttivo della curatrice dell’antologia, nonché docente di Storia delle donne e di Storia del pensiero politico contemporaneo all’Università Ca’ Foscari di Venezia.

 

Accadde che il modo in cui si viveva nel nostro ambiente, l’ambiente delle persone ricche e istruite, non soltanto mi divenne odioso, ma perse addirittura ogni senso ai miei occhi. Tutte le nostre azioni, il nostro modo di pensare, la scienza, l’arte, tutto questo assunse ai miei occhi un nuovo significato. [...] E contemporaneamente la vita del popolo lavoratore, di tutta l’umanità che costruiva concretamente la vita, mi apparve nel suo autentico significato. Compresi che quella era la vita autentica, compresi che il senso che le si attribuiva era la verità, e l’accettai.

Alla fine degli anni Sessanta Tolstoj attraversò una crisi di angoscia e di disperazione. Tormentato dal pensiero della morte e del dolore, dal senso della vanità del tutto, disgustato dalla menzogna che lo circondava, si interrogò sul significato dell’esistenza rinnegando le proprie convinzioni e il proprio modo di vita. Fu allora che i contadini, i lavoratori gli apparvero gli unici detentori della verità esistenziale, di una conoscenza che i ricchi, gli istruiti, gli oziosi avevano smarrito. «E io presi ad amare quegli uomini. Quanto più entravo nella loro vita [...] tanto più li amavo e tanto più agevole e gioiosa si faceva per me la vita».
Gli anni che seguirono, il periodo che egli considerava «il più fervido di un nuovo orientamento interiore di tutta la [sua] concezione del mondo», furono anni di intensa ricerca religiosa. In alcune opere: Confessione (1880), Unificazione e traduzione dei quattro vangeli (1880-1881), La mia fede (1884), ne tracciò il tormentato percorso. Aveva ricercato i fondamenti del cristianesimo in una lettura del Vangelo che prescindeva dalla teologia e dall’interpretazione della Chiesa. Leggere in modo semplice e diretto il Vangelo e comprendere l’insegnamento di Cristo significava farsi bambini. Le parole di Gesù: «se non mi accoglierete come bambini non entrerete nel regno dei cieli» sono per Tolstoj la chiave di lettura del Nuovo Testamento. La condizione indifesa dell’infanzia assume un valore esemplare: è metodo di conoscenza e scelta di vita.
Nel principio della non resistenza al male, espresso nel Discorso della montagna (Matteo 5:39-41), Tolstoj individuò la norma vincolante dell’agire umano, il fondamento comune a tutte le religioni, la legge iscritta nel cuore di ciascuno. La sua visione della vita infatti si fonda sulla certezza di un sentire universalmente umano, «per cui bisogni, affetti, indicazioni morali essenziali sono sempre e dovunque fondamentalmente riconoscibili» ed egli giunge a concepire il divino come «l’unico modo di pensare i princìpi fondamentali della conoscenza del bene e del male».
La vera religione gli appare in armonia con la ragione; il legame dell’uomo con la vita infinita che lo circonda e che guida le sue azioni non può che accordarsi con la sua ragione.

L’uomo può considerare se stesso come un animale tra gli animali che vivono alla giornata, può considerare se stesso come membro di una famiglia, di una società, di un popolo che permangono per secoli e può, e senz’altro deve, considerare se stesso come parte di un mondo infinito, che dura un tempo infinito. […] L’instaurazione da parte dell’uomo di un rapporto con questo intero, di cui fa parte, e da cui deduce le regole della sua condotta, è ciò che è stato chiamato e che è chiamato: religione. E perciò la religione è sempre stata e non può cessare di essere, una necessità e una condizione inalienabile della vita per un uomo ragionevole e per una umanità ragionevole.

Al termine “ragione” lo scrittore russo attribuiva un contenuto essenzialmente etico; essa non è razionalità astratta, bensì capacità di congiungere pensiero e azione, è sapienza di vita, ricerca del senso della vita. E la vita è un principio divino che si manifesta nell’amore, «la coscienza, in se stessi, del divino».

La dottrina consiste in questo: ciò che noi chiamiamo “io”, la nostra vita è un principio divino, limitato in noi dal corpo; questo principio si palesa in noi attraverso l’amore e perciò la vera vita di ogni uomo, libera e divina, si manifesta nell’amore.

Aderire alla propria autentica natura significa dunque riconoscere il fondamento etico che esiste in ogni essere umano e la legge dell’amore come legge suprema della vita, una legge universale, comprensibile a tutti e che non può ammettere alcuna eccezione senza che il suo significato sia interamente distrutto.
Da tali premesse etiche, religiose e interpretative prende le mosse la critica di Tolstoj alla società; esse gli consentono di riconoscere in tutta la sua estensione e profondità la violenza insita nei rapporti tra gli esseri umani, una violenza che aveva la sua origine nell’organizzazione statale e nel pervertimento del messaggio cristiano da parte della Chiesa. La legge universale e semplice “non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te” era passata inosservata, occultata dalla menzogna e da tutte le altre leggi, ecclesiastiche, politiche e scientifiche, inventate «dai governanti, dai dotti e dai ricchi», volte a conservare l’ineguaglianza tra gli uomini, in primo luogo quella che li divideva in lavoratori e parassiti.

Una caricatura di Lev Tolstoj

Verso una concezione spirituale del lavoro

Nella Bibbia è detto: «guadagnerai il pane con il sudore della fronte». [...] Il muzik Bondarev, che ha scritto un articolo sull’argomento, mi ha chiarito l’esattezza di questa sentenza.

Dalla riflessione sulla condizione dei lavoratori, coloro che «portano su di sé il peso della propria vita e della nostra», sulla frattura tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, si affaccia una nuova concezione spirituale del lavoro, oggetto costante dei suoi scritti teorici e politici degli anni a venire. L’attività artistica, a cui aveva dedicato «tutte le sue forze», gli diviene sgradevole ed è la prima forma di attività umana che egli mette in discussione. Poiché presuppone lo sfruttamento del lavoro altrui, l’attività artistica è parte integrante di un sistema di corruzione, espressione del culto del piacere delle classi ricche. Nelle tendenze letterarie contemporanee infatti individuava un disinteresse, addirittura un disprezzo, per le classi lavoratrici che riproducevano la divisione ingiusta tra gli esseri umani.

L’incomprensione della vita e degli interessi della gente lavoratrice, la rappresentazione degli individui quasi alla stregua di animali agitati solo dalla sensualità, dalla cattiveria e dalla cupidigia, costituisce uno dei principali e capitali difetti della maggior parte dei più recenti autori francesi.

La creatività artistica avrebbe dovuto avere lo scopo di elevare le coscienze, comunicare quei sentimenti che scaturiscono dal risveglio morale – come era accaduto in America al tempo dello sviluppo del movimento abolizionista e in Russia con l’abrogazione della servitù della gleba – e invece ignorava la questione cruciale della contemporaneità: l’asservimento dei lavoratori che vivevano nella perpetua miseria, nell’ignoranza, «disprezzati da coloro che essi vestivano, nutrivano e servivano».
Una tale contraddizione doveva essere risolta. Lo scriverà a Romain Rolland nel 1887:

L’errore principale di questa società è stato, e fino a oggi è, quello di liberarsi dal lavoro [manuale] e di approfittarsi, senza corrispettivo, del lavoro delle persone delle classi povere, ignoranti e infelici che sono schiave, come gli schiavi del mondo antico. La prima prova della sincerità delle persone di questa società, che professano princìpi cristiani, filosofici e umanitari, è di cercare di uscire, per quanto possibile, da questa contraddizione. Il sistema più semplice per riuscirvi, e che è sempre a portata di mano, è il lavoro manuale.

Dalla fine degli anni Settanta Tolstoj abbandona l’attività letteraria; scriverà ancora racconti e alcuni capolavori – come Resurrezione e Sonata a Kreutzer – ma si dedicherà prevalentemente alla produzione di saggi e scritti teorici in cui esporrà la propria critica radicale del potere. Praticherà il lavoro manuale e il vegetarianesimo, cercherà di adeguare il proprio modo di vivere ai precetti cristiani di semplicità volontaria, di aderire a una concezione religiosa della vita che impone di agire per gli altri. Nella soddisfazione per sé e per gli altri delle esigenze materiali e spirituali proprie della natura umana lo scrittore scorgerà con sempre maggiore chiarezza il senso profondo dell’esistenza umana.
Quando, nel 1885, lesse il trattato di Timofej Bondarev, Operosità e parassitismo, ovvero l’esaltazione dell’agricoltore, Tolstoj, che stava lavorando al Che fare?, colse le analogie con quanto andava elaborando sul valore morale del lavoro della terra, sull’ingiusta divisione dell’umanità tra chi produce i beni necessari alla vita e chi li consuma. Il tema centrale dell’opera di Bondarev, un contadino che non aveva letto nient’altro al di fuori della Bibbia, era il dovere di accettare la legge originaria, più antica delle tavole mosaiche, all’inizio della storia umana: la legge del «lavoro del sudore della fronte». Tutti i mali del mondo – sosteneva – derivavano dal misconoscimento di un tale obbligo, riflessioni che a Tolstoj apparivano più vere e penetranti di quelle che si potevano trovare in tutto il pensiero russo.

La mia opinione è che tutto il pensiero russo – da quando ha cominciato a esprimersi – non abbia prodotto, con le sue università e accademie, con i suoi libri e giornali, nulla di simile per valore, forza e chiarezza a quanto hanno espresso due contadini: Sjutaev e Bondarev.

Nell’introduzione alla traduzione francese, apparsa nel 1890, Tolstoj elogiava la chiarezza con cui Bondarev aveva denunciato la divisione innaturale tra lavoro manuale e intellettuale e metteva in rilievo il valore universale del suo pensiero. Tutti, coloro che credevano nell’Antico Testamento o nel Vangelo o che semplicemente obbedivano alla propria ragione, potevano riconoscere l’intima verità delle parole di Bondarev.

Mostrare l’eternità, l’immutabilità di questa legge, spiegare che la sua trasgressione comporta necessariamente la sventura, ecco ciò che ha voluto fare Bondarev in quest’opera.

Bondarev aveva esposto la sua concezione del lavoro agricolo come servizio, espressione della legge dell’amore che unisce gli esseri umani e che supera l’odiosa divisione in classi. Sopra ogni altra cosa Tolstoj apprezzava il richiamo ai valori universali e il fatto che l’autore non avesse «girato intorno alla verità», non avesse espresso riserve o posto limiti; una verità, infatti,

ha significato e importanza solo quando è espressa come una legge assoluta la cui trasgressione comporta sventure e sofferenze e la cui osservanza ci è richiesta da Dio o dalla ragione.

Il lavoro del pane non è un modo di vita tra molti, ma «la vita stessa, l’unica vita umana con la quale soltanto è possibile il manifestarsi delle qualità più alte dell’uomo». Il lavoro a stretto contatto con la natura è fonte di gioia, una gioia che nasce dalla consapevolezza della «nostra unione col tutto, che il tempo ci nasconde».
Una tale concezione del lavoro allontanava Tolstoj da Bondarev il quale intendeva il «lavoro del sudore» come una dolorosa espiazione del peccato originale. Mentre, inoltre, sia Bondarev che Sjutaev vedevano nello Stato una forza in grado di rimediare ai mali della società, e ne invocavano l’intervento, Tolstoj condannava il potere statale come fonte di ogni violenza. L’interesse dello scrittore, infatti, si rivolge piuttosto al tema dell’origine della violenza, ai rapporti di dominio, alla natura dell’oppressione.
Com’era accaduto che gli uomini si erano allontanati dalla legge originaria «ti guadagnerai il pane col sudore della fronte»? Quali le scelte e i percorsi umani che avevano condotto all’oppressione e alla divisione sociale del lavoro?
In una lettera a Bondarev del 26 marzo 1886, riferendosi all’istituzione della monarchia tra gli ebrei (Samuele 8 e 10:17-27), indicava nella guerra l’origine della schiavitù:

Alcuni presero il potere sugli altri, armarono un certo numero di uomini e li sottomisero a sé. Proprio costoro, i capi e i soldati, sono i primi ad aver rinnegato la legge originaria. Essi cominciarono ad appropriarsi del grano, e poi del denaro, così era loro possibile evitare il lavoro agricolo. Dopo cominciarono a spartire ai loro favoriti. E comparvero gli uomini dalle mani bianche.

La violenza originaria derivava dunque dalla volontà di sottrarsi alla fatica del lavoro e scaricarlo sulle spalle altrui ponendosi al di fuori della lotta del genere umano per la vita, una violenza legittimata dal diritto, giustificata di volta in volta dalle chiese, dalla filosofia, dall’economia. Allo stesso modo, nella società contemporanea, una teoria «astuta e diabolica», quella della divisione del lavoro, giustificava la riduzione dei più a una condizione servile e offriva agli altri un falso senso di utilità sociale.
Sul tema della divisione del lavoro e della sua giustificazione, che nasconde la priorità dei doveri umani, lo scrittore russo tornerà negli anni successivi in numerosi scritti, in particolare in Che fare? e nell’opera La schiavitù del nostro tempo.

Che fare?

Partecipare al censimento come migliaia di persone stanno facendo in questo momento è guardarsi allo specchio da vicino.

Nel 1881 Tolstoj si era trasferito a Mosca dove ebbe modo di osservare e riflettere sulla povertà urbana. Il censimento di Mosca del 1882 gli apparve un’occasione per affrontare una grande questione sociale e guardare la società e se stesso allo specchio.
In Che fare?, l’opera scritta tra il 1882 e il 1886, espose le sue impressioni su quella esperienza: la diffusa accettazione dell’idea che fosse lecito sfruttare il lavoro altrui, il denaro come strumento del potere, la corruzione portata dall’uso del denaro nella mente dei lavoratori.
La prima parte è dedicata alle sue intime reazioni di fronte alla povertà, ai suoi disperati tentativi di alleviarla, ai pregiudizi radicati che associavano povertà a degradazione.

Eravamo preparati a vedere solo orrori; e a un tratto, al posto di questi orrori, ci si erano presentate situazioni non solo non terribili, ma addirittura positive, tali da suscitare, senza che lo volessimo, il nostro rispetto.

Il gesto di porgere del denaro lo riempie di vergogna; la povertà non poteva essere mitigata dal denaro e il denaro non poteva avvicinare i ricchi ai poveri. «Non era il denaro che poteva cambiare la loro vita, alle loro necessità avevano provveduto i loro stessi simili». Nel corso delle visite ai quartieri più poveri di Mosca egli osserva in primo luogo se stesso, e si condanna.
Il senso di impotenza e di vergogna, rivelandogli il suo errore, è il sentimento che lo avvicina alla povertà, che gli indica la necessità di un mutamento della propria vita e di quella della sua classe sociale. La risposta alla domanda “che fare” fu per Tolstoj pentirsi, «nel significato più pieno del termine».

Capii che le disgrazie degli uomini vengono dalla schiavitù in cui alcuni tengono gli altri. Capii che la schiavitù del nostro tempo proviene dalla violenza del servizio militare, dall’appropriazione della terra e dalla riscossione del denaro. E una volta afferrato il significato di tutte le tre forme della nuova schiavitù, inevitabilmente ho cominciato a desiderare di non esserne più complice.

Lui stesso, la sua famiglia, i ricchi, avrebbero dovuto provare vergogna, rinunciare ai propri privilegi, scendere dalle spalle dei lavoratori e abbracciare un nuovo ideale di vita. Se i membri delle classi privilegiate non vedevano l’errore della propria vita era perché erano convinti che la differenza sociale era stata introdotta da una forza esterna, al di là della loro volontà, un modo di pensare insinuato e sostenuto dalla Chiesa, dalla filosofia, dal diritto, dall’economia politica. Quelle teorie dovevano essere demolite mettendo a nudo la falsità delle loro presunte leggi e l’immoralità dei loro scopi.
La critica tolstoiana al pensiero politico contemporaneo prende le mosse dalla riflessione sul significato del denaro. «Avevo bisogno di comprendere appieno la natura del denaro. Per capirlo mi sono rivolto alla scienza».
Il denaro non è un mezzo di scambio, come afferma l’economia politica, bensì uno strumento di dominio. «Il dominio degli uni sugli altri gli economisti lo chiamano legge ferrea, mentre gli strumenti con cui si compie questo dominio vengono chiamati mezzi di scambio». Il denaro non è una merce come tutte le altre, il suo valore non è oggettivo, ma costantemente alterato dall’arbitrio del dominatore.

Quando il denaro non esisteva, ogni proprietario poteva sfruttare solo il lavoro dei propri servi, ma quando due proprietari si misero d’accordo per prendere ai propri servi il denaro che non possedevano, ambedue cominciarono a sfruttare indifferentemente le forze di ambedue le proprietà. È per questo che il depredatore trova più comodo trasformare in denaro tutto quel che esige dal lavoro altrui e il denaro gli è necessario solo per questo.

Il denaro, il mezzo più comodo per sfruttare il lavoro, è necessario per aumentare il numero degli asserviti e dei complici dell’asservimento. Gli economisti, i socialisti, i marxisti considerano le caratteristiche della produzione e dello scambio come dati oggettivi, non condannano moralmente il dominio e, rifuggendo dalle spiegazioni semplici, prospettano una soluzione chimerica. L’economia politica, ad esempio, afferma che a ogni prodotto contribuiscono tre fattori: la terra, il capitale e il lavoro. Le ricchezze vengono così suddivise in rendita, interesse del capitalista, salari.

Ma io vedo che non è così. [...] Oltre alla terra prendono parte alla produzione del fieno: il sole, l’acqua, la struttura sociale che difende i prati dai danni, la cultura dei lavoratori.

I fattori della produzione sono assai più complessi e comprendono le risorse naturali, fattori culturali e sociali, come i saperi dei lavoratori e i loro sforzi congiunti. Ciò che gli economisti descrivono come una caratteristica oggettiva della produzione non è che l’alterazione del modo naturale di produzione, ovvero quel modo di produrre che si può osservare quando non sia stata ancora violata la natura umana, quando non si siano ancora affermate, con la divisione del lavoro, illegittime pretese di alcuni sulla libertà degli altri.
Attraverso la critica del pensiero politico contemporaneo, delle teorie di Malthus, Comte, Darwin e Marx, ovvero della «scienza sperimentale, positivista, evoluzionista, critica», nell’ultima parte dell’opera Tolstoj si rivolge al tema della divisione del lavoro.
Una «nuova scienza immaginaria», la sociologia, interpretando la società come un organismo in cui ciascuno svolge una funzione indispensabile alla vita dell’insieme, offriva un’ulteriore giustificazione alla divisione del lavoro. Un paragone, buono al massimo per una parabola – quello della società con un organismo vivente – era il fragile fondamento di tutta una disciplina.
La divisione del lavoro nella società industriale, anziché essere uno scambio di servigi, è la più semplice e antica delle violenze che si nasconde dietro i falsi splendori del progresso. I vantaggi del progresso economico e industriale – la ferrovia e le macchine – presentati come evidenti e indiscutibili, non soltanto avevano peggiorato la vita dei lavoratori, ma avevano stretto ancor più le loro catene.

Se ora il lavoratore può, invece di andare a piedi, usare la ferrovia, la ferrovia in compenso gli ha bruciato il bosco, gli ha portato via il grano di sotto il naso e lo ha ridotto praticamente schiavo del capitalista. Se, grazie ai motori a vapore e alle macchine, il lavoratore può comprare a poco del calicò poco robusto, in compenso i motori e le macchine lo hanno privato del guadagno a casa e lo hanno ridotto in uno stato di totale schiavitù al fabbricante.

Negli anni che intercorrono tra il Che fare? e La schiavitù del nostro tempo, in particolare nel corso degli anni Novanta, la riflessione di Tolstoj si rivolge prevalentemente al tema della guerra e del militarismo. La corsa agli armamenti e l’adozione del servizio militare obbligatorio da parte di tutte le nazioni europee conducono lo scrittore russo ad analizzare in profondità la violenza statale e le modalità dell’esercizio del potere. Sono questi i temi della sua opera filosofica più ampia e articolata di questi anni, Il regno di Dio è in voi (1893). In essa Tolstoj si sofferma sui molteplici condizionamenti che si insinuano nella vita collettiva e privata degli individui, pone al centro della sua analisi le risorse del potere nella manipolazione delle coscienze e indaga le ragioni che conducono all’obbedienza. Nel trattare il tema della contraddizione tra la vita e la coscienza, la partecipazione di ciascuno alla violenza che sostiene la guerra e la divisione in classi, scrive:

Tutta la nostra vita è in contraddizione costante con tutto ciò che sappiamo e consideriamo come necessario e obbligatorio. Questa contraddizione è in tutto, e nella vita economica, e nella vita politica e nella vita internazionale. Come se avessimo dimenticato ciò che sappiamo, e messo da parte provvisoriamente ciò che crediamo giusto, facciamo tutto il contrario di ciò che richiedono la nostra ragione ed il nostro buon senso.

La frattura tra l’agire e la coscienza, la divaricazione tra i princìpi etici e le regole della vita collettiva erano penetrati in tutti i rapporti sociali.

I governi e le classi dirigenti oggidì si appoggiano non sul diritto, neanche sopra una parvenza di giustizia, ma sopra una organizzazione così ingegnosa [...] che tutti gli uomini sono presi in un cerchio di violenza dal quale non hanno più possibilità di uscire. [...] Questi mezzi sono legati tra loro come gli anelli di una catena.

Ai metodi antichi per ottenere la sottomissione, l’intimidazione e la corruzione, si aggiungevano altre pratiche insidiose volte ad arrestare lo sviluppo morale degli uomini. Tutto il potere dello Stato si fonda infatti sul distacco dalla responsabilità. La riflessione sui rapporti di dominio, sulla «seduzione statale» – in nome della quale si compiono «i più feroci delitti contro le masse» – inducono Tolstoj a tornare sul tema del lavoro, ai rapporti di dominio insiti nella produzione industriale, a dare una sistemazione a quanto era andato sviluppando negli anni. Nell’estate del 1900 termina La schiavitù del nostro tempo. La stesura del testo lo aveva assorbito completamente, come annotava il 23 giugno nel diario: «Non ho scritto per più di un mese. Tutto questo tempo ho scritto con foga e ininterrottamente La schiavitù del nostro tempo. Ho aggiunto molte cose nuove e chiarificatrici».

La schiavitù del nostro tempo

Sulle trentasei ore pare che vada. È importante dimostrare che l’attuale liberazione che si prospetta sarà simile a quella dalla servitù della gleba, cioè che allenteranno una catena solo quando ne avranno salda in mano un’altra. La schiavitù viene abolita quando è già in vigore la schiavitù della gleba. La servitù della gleba viene abolita quando la terra è già espropriata e si sono stabiliti i tributi; ora che sono tolti i mezzi di lavoro liberano dai tributi. Daranno, hanno intenzione di dare, i mezzi di lavoro agli operai, solo a condizione del lavoro obbligatorio per tutti.

L’idea di fondo dello scritto è che una parte dell’umanità non era mai uscita da una condizione servile. Mai una forma di schiavitù era stata abolita prima che si fossero presentate le condizioni per l’affermazione di una nuova e più efficace forma di schiavitù.
Come molti contemporanei, Tolstoj denuncia il peggioramento della condizione operaia rispetto alla schiavitù diretta e personale. Per gran parte dei critici della società industriale, tuttavia, il raffronto era poco più che un espediente retorico. Tolstoj, al contrario, coglie con maggiore profondità l’intimo legame tra le varie forme di schiavitù nella storia, l’estendersi dell’asservimento e della complicità a un numero sempre più vasto di persone, individua le sottili catene della schiavitù volontaria, in primo luogo l’abitudine a nuovi consumi che penetra nelle menti degli operai «come l’acqua penetra in un terreno arido», tenendoli legati al lavoro forzato. Qualche anno prima così aveva descritto i suoi oscuri presagi:

La ciminiera dello stabilimento butta fuori una massa di prodotti per le esigenze del mercato mondiale che ora cerca di conquistare. [...] E allora, l’orda europea civilizzata [...] si getterà sui popoli inermi, “selvaggi” e li conquisterà... Quando questo accadrà, quando tutti i popoli si inchineranno davanti al fumo nero della ciminiera dell’officina, allora i proletari europei si depraveranno anche loro nel lusso, come si depravarono i Romani dopo la conquista del mondo.

Eppure, il pensiero economico e sociale non analizzava questa forma di schiavitù volontaria benché fosse la «più tenace e difficile da eliminare».
Nell’opera La schiavitù del nostro tempo, rispetto alla maggior parte delle analisi contemporanee, l’interpretazione dell’espropriazione dei lavoratori è assai più radicale. Non si trattava soltanto dell’estrazione del plusvalore, un’estorsione legata alla proprietà e alla concorrenza; il lavoratore non era espropriato solo della terra, del valore del suo lavoro, dell’atto creativo e dell’uso del suo prodotto, ma anche della scelta e del giudizio morale sugli oggetti del proprio lavoro, costretto com’era a produrre beni inutili e dannosi di cui finiva per subire il fascino. «Secondo me, non solo il lavoro non è una virtù, ma nella nostra società mal organizzata, è il più delle volte un mezzo di anestesia morale».
Una società basata sulla violenza e sullo sfruttamento, infatti, esige un’organizzazione che isoli gli individui e recida il legame tra le loro azioni – dirette e coordinate da altri – e la loro responsabilità morale. Tolstoj ritorna sul tema della divisione del lavoro, uno dei più insidiosi feticci del tempo, come già aveva scritto in Che fare?.

Dovremmo forse farci da soli tutto quello che ci serve, farci i vestiti, tagliare la legna? E la divisione del lavoro? E l’industria, e le imprese sociali e infine, quel che è più terribile: la civiltà, la scienza, l’arte?

La divisione del lavoro è necessaria, ma per essere giusta deve nascere dalla volontà libera e dall’accordo. Nella società industriale essa è l’espressione del dominio poiché si fonda sulla separazione tra chi esegue e chi coordina, una separazione che solo la coercizione può garantire. I socialisti e i marxisti, che non la mettono in discussione ma la accettano come inevitabile conseguenza del progresso, prefigurano una società autoritaria gerarchicamente organizzata. Pensare che la produzione, una volta liberata dalle forme capitalistiche dell’economia, avrebbe consentito il benessere per tutti e uno sviluppo armonioso della società, era un’illusione. La proprietà collettiva dei mezzi di produzione avrebbe forse fatto sparire la specializzazione degradante della produzione capitalistica? Avrebbe eliminato la schiavitù?

Alla domanda: «Chi dovrà indossare una maschera e produrre la biacca? Chi farà il fuochista, il minatore? Chi pulirà le fogne?», essi non danno risposta o prevedono che tutte queste attività miglioreranno al punto tale che anche il lavoro nelle fogne o nel sottosuolo diventeranno occupazioni gradevoli. Ecco come essi si figurano le future condizioni economiche sia nelle loro opere teoriche che nelle loro utopie alla Bellamy.

La critica del marxismo

Il marxismo – scrive Tolstoj – non pone al centro della sua analisi la libertà del lavoro. Marx aveva individuato le cause della schiavitù industriale nell’espulsione dalla terra e nella legislazione repressiva, ma non aveva detto nulla sulla necessità di rimuovere quelle cause. Al contrario, aveva considerato inevitabile il processo di proletarizzazione e affidato l’avvento di una società libera ad una sorta di fatalismo. Già nel 1893, dopo una conversazione con giovani socialdemocratici, aveva annotato queste considerazioni nel suo diario:

Essi dicono: «l’organizzazione capitalistica passerà nelle mani degli operai e allora cesserà l’oppressione degli operai e l’ineguale ripartizione del guadagno» ma chi dunque organizzerà i lavoratori e li dirigerà?, mi chiedo io. «Questo andrà da sé, gli operai stessi organizzeranno». Ma il sistema capitalista si è instaurato proprio perché per tutti i lavori tecnici occorre gente che comanda. Se c’è una produzione, ci sarà una direzione, ci saranno abusi di potere, proprio ciò contro cui voi attualmente lottate.

Il sistema di produzione dominato dalla tecnica, e quindi dalla divisione del lavoro, non si sarebbe messo al servizio di una società libera, ma avrebbe riprodotto una schiavitù «altrettanto spaventosa, ma più umiliante di quella antica». La critica tolstoiana al marxismo anticipa, per molti versi, quella di Simone Weil. Per lo scrittore russo, come per la filosofa francese, la miniera è «una visione sinistra per la dottrina socialista», «la bancarotta della dottrina»:

Quando le fabbriche saranno nazionalizzate [...], nessuno vorrà andare nelle miniere di carbone. Bisognerà rinunciare alla civiltà o introdurre la sferza. In un caso o nell’altro è la bancarotta della dottrina.

E Simone Weil nel 1934:

La soppressione della proprietà privata non basterebbe certo a impedire che la fatica delle miniere e delle fabbriche continui a pesare come una schiavitù su coloro che vi sono sottoposti.

Non era dunque possibile scorgere nel capitalismo alcuna premessa di liberazione; la società capitalistica era ben lontana dall’aver elaborato al suo interno le condizioni per il sorgere del socialismo.

Forse può anche portare [al socialismo], ma a un socialismo forzato. Gli operai saranno costretti a lavorare insieme e lavoreranno di meno, e la paga sarà più alta, ma rimarrà la stessa schiavitù. Occorre che gli uomini lavorino insieme l’uno per l’altro. [...] E per questo dai rapporti forzati del capitalismo può venire un miglioramento della situazione materiale degli operai, ma non può in alcun modo nascere una vita soddisfatta.

Del marxismo e del movimento socialista il pensatore russo criticava tanto i presupposti analitici quanto le soluzioni alla questione sociale. Il socialismo è una «teoria fiacca, illusoria e fallace», aveva scritto al pacifista giapponese Abe-Iso, poiché pretende di ricavare le leggi della natura umana dall’osservazione esterna e non dalla propria coscienza e non mette in discussione il modo di vivere di ciascuno. «Per questo – scriveva Maude nel 1901 – Tolstoj aveva scarso rispetto per la dottrina di Marx».
Non le leggi generali oggettive possono guidare l’individuo, ma la legge morale, l’unica indiscutibile.
La legge morale non prestabilisce alcuna forma di vita famigliare, politica, né di relazione tra gli Stati, né economica, ma esige solo di astenersi in tutti gli ambiti della vita umana dalle azioni contrarie a quell’unica legge che è insita nell’animo di ciascuno ed è espressa e riconosciuta da tutte le grandi religioni dell’umanità. Il fissare in anticipo le forme migliori della vita sociale ed economica secondo il proprio punto di vista si risolve sempre nella violazione degli imperativi della legge morale: «Le leggi che regolano lo sviluppo economico dell’umanità non ho la pretesa di conoscerle e non mi assumerei la responsabilità di dirlo».
Tolstoj si soffermerà sul significato negativo della libertà in una lettera a Chertkov del 20 maggio 1904.

La libertà, i governi, come i rivoluzionari, la intendono come qualcosa di positivo, come la somma dei diritti dell’uomo. La libertà di ciascuno deve essere tale da non violare la libertà degli altri. Montagne di libri sono state scritte su questo tema, con diversi commentari e spiegazioni. Ne è stato scritto tanto esattamente perché la definizione che serve di base è sbagliata. La libertà di ciascuno nella sua relazione con altre persone non è un concetto positivo, ma negativo. L’uomo è libero non quando i suoi diritti sono determinati in questo o in quel modo, ma soltanto quando nessuno lo costringe a fare una qualsiasi cosa. La determinazione dei diritti dell’uomo include il concetto della limitazione dell’attività dell’uomo e la limitazione può essere raggiunta soltanto con la forza o con la minaccia della forza.

Il messaggio socialista, inoltre, come quello della Chiesa, è tutto proiettato nel futuro. A eccezione della lotta per il miglioramento delle condizioni dei lavoratori, «cosa utile e naturale», il socialismo non «ha contenuti né realizzazioni nel presente».

Liberarsi dalla schiavitù

Per liberarsi dalla schiavitù occorreva in primo luogo riconoscerne le cause profonde. La «radice del male», dell’asservimento dei molti da parte di pochi, da cui è sorta una complessa organizzazione della violenza e dell’oppressione, risiedeva nella volontà di dominio, «di accaparrare per sé il più gran potere possibile sugli altri».

Le tasse, l’usurpazione della terra, il potere dei capitalisti, non sono la causa principale della miserevole condizione dei lavoratori, ma solo una conseguenza. La ragione essenziale per cui milioni di lavoratori vivono e lavorano agli ordini di una minoranza, non sta nel fatto che una minoranza ha usurpato la terra e i mezzi di produzione e raccoglie le tasse, ma nel fatto che ha il potere di farlo; poiché c’è la forza e perché c’è un esercito che è nelle mani della minoranza ed è pronto a uccidere coloro che si rifiutano di obbedire alla volontà della minoranza.

La diffusione e la giustificazione della violenza si spiegano dunque con la forza degli interessi, con il tornaconto di singoli o gruppi, ma soprattutto con il pervertimento della dottrina cristiana da parte delle chiese, con l’inganno dei governi volto ad arrestare lo sviluppo morale degli uomini, a far smarrire loro il senso profondo del messaggio religioso.

E non appena è apparsa una nuova dottrina religiosa, che sempre includeva in sé il riconoscimento dell’eguaglianza tra gli uomini, subito la gente a cui la disuguaglianza faceva più comodo, ha cercato di nascondere questa caratteristica fondamentale della dottrina religiosa, pervertendola.

Era importante, per Tolstoj, ribadire tali princìpi ai lavoratori ai quali nel 1901 dedica lo scritto L’unico mezzo in cui riprende le conclusioni dell’opera dell’anno precedente.
Per liberarsi dalla schiavitù i lavoratori avrebbero dovuto esercitare la libertà negativa, la disobbedienza. Appena ne avessero avuto la possibilità, avrebbero dovuto rifiutarsi di lavorare per i capitalisti, di lavorare a un salario inferiore di quello stabilito, di ricoprire ruoli di comando, di prestare servizio militare, di fare i doganieri o i poliziotti. Soltanto l’obbedienza alla legge divina, la sola comune a tutti gli esseri umani, può liberare dall’obbedienza delittuosa allo Stato ed è realmente rivoluzionaria.
Gli ideali puramente umani: giustizia, bene comune, progresso, potendo essere intesi da ciascuno a modo proprio, non sono in grado di opporsi alla violenza e al potere dei governi che riescono a esercitare ogni sorta di condizionamento ideologico e psicologico.
Soltanto la concezione religiosa della vita, incompatibile con la sottomissione o la partecipazione al potere, avrebbe potuto veramente distruggere il potere; soltanto il riconoscimento dell’inviolabile uguaglianza tra gli uomini avrebbe potuto abolire la schiavitù.
Con queste parole, nel gennaio 1904, nel ringraziare Chertkov per la biografia di Garrison che gli aveva inviato, indicava la via per eliminare la schiavitù:

Garrison […] comprese ben presto che la ragione della schiavitù non consisteva in una presa di possesso accidentale e temporanea di alcuni milioni di negri da parte dei sudisti, ma nel radicale e generale riconoscimento, contro la dottrina cristiana, del diritto di coercizione da parte di alcuni sugli altri. […] Garrison contrappose alla schiavitù non la sofferenza degli schiavi né la crudeltà degli schiavisti o l’uguaglianza sociale degli uomini, bensì l’eterna legge cristiana della rinuncia a rispondere al male con la forza. Garrison comprese ciò che i più progrediti tra gli oppositori della schiavitù non capivano: l’unico argomento inconfutabile contro la schiavitù sta nel contestare il diritto di ogni uomo di limitare a qualunque condizione la libertà altrui.

L’influenza di Henry George

La nostra tanto vantata libertà implicherà sempre necessariamente la schiavitù, finché continueremo a riconoscere la proprietà privata della terra.

In tutti gli scritti teorici sul tema del lavoro e della questione operaia Tolstoj aveva individuato nella proprietà privata della terra una delle cause della schiavitù dei lavoratori. La terra, come l’aria, l’acqua, la luce del sole, condizioni indispensabili alla vita umana, non può essere esclusiva proprietà di alcuno. Nonostante tutti i tentativi di trasformarla in un diritto, la proprietà della terra esiste solo in virtù della violenza.
Sia in Che fare?, sia ne La schiavitù del nostro tempo, Tolstoj aveva fatto riferimento a Henry George, alla sua proposta di abolizione della proprietà fondiaria e di una tassa unica sulla terra, come a una proposta utile, ma non risolutiva. Infatti, qualsiasi sistema di tassazione, dovendosi affidare all’azione governativa, avrebbe lasciato aperta la via alla violenza statale e alla schiavitù.

Quelli che come Henry George e i suoi seguaci vorrebbero abolire le leggi che legittimano la proprietà privata della terra, propongono nuove leggi che impongono una tassa obbligatoria sulla terra. E questa tassa necessariamente darà origine a una nuova forma di schiavitù perché un uomo, obbligato a pagare una rendita, o una tassa unica, in caso di un cattivo raccolto o di qualche altra avversità, dovrà prendere a prestito del denaro da qualcun altro che ne dispone e precipiterà ancora una volta nella schiavitù.

Nei diari e nella corrispondenza, al contrario, soprattutto a partire dall’inizio del secolo sino all’anno della morte, Tolstoj dedica una grande attenzione all’economista americano. Il primo accenno a George si trova in una lettera alla moglie, Sof’ja Andreevna, del 22 febbraio 1885.

Leggo il mio George. [...] È un libro importante. La liberazione dei contadini e della terra dalla proprietà privata è un passo decisivo sulla via del bene comune. [...] Bisogna leggere Henry George che ha chiaramente presentato il problema in modo definitivo. Ti pone da una parte o dall’altra. Le mie domande vanno molto al di là di questo, ma si tratta del primo piolo di una scala sulla quale sto salendo.

Quello stesso giorno, e ancora il 24 febbraio, espresse il suo apprezzamento per Progresso e povertà a Chertkov.

Questo libro è meraviglioso, di incalcolabile valore, distrugge tutte le costruzioni di economia politica di Spencer-Mill. [...] In modo penetrante richiama le persone a una consapevolezza morale della causa e definisce questa causa. Nel libro c’è una debolezza, come in tutte le cose create dall’uomo, ma c’è una autentica riflessione umanitaria e autentici sentimenti, non robaccia scientifica. Mi piacerebbe conoscere il suo indirizzo e scrivergli una lettera. Vedo in lui un fratello.

Avvicinava Tolstoj a Henry George in primo luogo il richiamo ai princìpi universali e al messaggio evangelico, come scriverà il 31 marzo 1909 ai sostenitori inglesi della tassa unica,

Henry George deve essere apprezzato soprattutto da coloro che professano il vero cristianesimo perché non solo i fondamenti del suo insegnamento, ma anche i suoi metodi sono profondamente cristiani. Come Gesù nella sua affermazione: «voi udiste che fu detto: non uccidere, ma io vi dico, non resistete al male», ha precisato che il comandamento “non uccidere” non può essere trasgredito, mai, assolutamente e in nessun caso [...], allo stesso identico modo Henry George precisa che il comandamento “non rubare”, non può e non dovrebbe essere violato in nessun caso.

Come Tolstoj, anche Henry George era entrato in conflitto con le gerarchie ecclesiastiche: nel 1881 aveva pubblicato The Land Question, un’opera in cui accusava le chiese di ostacolare la giustizia sociale; nel 1887 uno dei suoi più ardenti sostenitori, padre Edward McGlynn, era stato scomunicato. Nel 1891 George pubblicò The Condition of Labor, an Open Letter to Pope Leo XIII, una risposta all’Enciclica Rerum Novarum in cui il Pontefice condannava le teorie che negavano il diritto alla proprietà privata.
La proposta della tassa unica colpì Tolstoj per la sua semplicità, la sua applicabilità universale, la sua vicinanza al modo di pensare e allo spirito dei contadini russi.

Questo progetto è tanto giusto quanto efficace, ed è soprattutto di facile applicazione in ogni luogo, in ogni società quali che siano gli ordinamenti che regolano la proprietà terriera.

In particolare, nel capitolo L’asservimento dei lavoratori, risultato ultimo della proprietà della terra, lo scrittore coglieva numerose analogie con il suo pensiero. Molte pagine, infatti, sembrano uscite dalla penna dello stesso Tolstoj.
Henry George vedeva nella proprietà privata della terra la causa dell’ineguaglianza sociale e della schiavitù. La relazione necessaria che vi è tra il lavoro e la terra, «fonte di ogni ricchezza e campo di ogni lavoro», implica che chi possiede la terra sia anche il padrone degli uomini che su di essa vivono. In polemica con Malthus scriveva:

Il diritto uguale degli uomini all’uso della terra è altrettanto chiaro, quanto il loro diritto uguale a respirar l’aria; è un diritto proclamato dal fatto stesso della loro esistenza. Perciò, noi non possiamo supporre che alcuni abbiano diritto di stare a questo mondo e altri no.

La congiura del silenzio

Il diritto alla proprietà della terra è la negazione del diritto originario dell’individuo di esercitare le proprie facoltà, il diritto che l’uomo ha su se stesso, che porta con sé nascendo, che condivide con le generazioni future e che pertanto non può cedere.

Finché questa proprietà non sarà abolita, le Dichiarazioni di indipendenza, gli atti di emancipazione saranno vani. Finché un uomo potrà reclamare la proprietà esclusiva della terra, della quale altri uomini debbono vivere, la schiavitù continuerà a esistere e, a misura che il progresso materiale va innanzi, diventerà sempre più larga e più profonda. [...] La proprietà della terra è la macina inferiore; il progresso materiale, la macina superiore; fra esse le classi lavoratrici sono, con sempre maggior forza, schiacciate.

Nel settembre 1894, in una lettera a Mrs. MacGahan, nel ringraziarla per avergli inviato alcune opere di George, Tolstoj scriveva che chiunque avesse voluto affrontare la questione della terra non avrebbe potuto fare a meno di avere come riferimento la teoria di George, colui che «aveva gettato le fondamenta dell’organizzazione economica del futuro».
All’inizio degli anni Novanta, nel corso della carestia, quando Tolstoj si immerse nell’attività di aiuto alla popolazione e tentò di elaborare proposte pratiche per la soluzione del problema della terra, si rivolse alle opere di George, ne lesse alcuni brani ai contadini e propose una forma di autotassazione i cui proventi sarebbero stati utilizzati per le necessità comuni.
Lo scrittore russo e l’economista americano entrarono in contatto nella primavera del 1896, quando Henry George, che avrebbe dovuto recarsi a Jasnaja Poljana, gli annunciò di essere stato costretto ad annullare il viaggio a causa degli impegni assunti nella campagna elettorale per la carica a sindaco di New York. Tolstoj rispose il 4 aprile esprimendogli la propria stima e la speranza di poterlo incontrare in futuro.
Tolstoj e George non si incontreranno mai; solo molti anni più tardi, nel giugno 1909, il figlio di Henry George si recò a Jasnaja Poljana. Fu un momento di intensa commozione per Tolstoj che volle accogliere il suo visitatore con uno scritto di elogio dell’autore di Progresso e povertà e che inviò a un giornale di Pietroburgo. La conversazione rafforzò il desiderio di agire e poche settimane dopo l’incontro Tolstoj stava pensando di scrivere una lettera allo zar sulla questione agraria.
Già nel 1894 lo scrittore avrebbe voluto rivolgersi allo zar. Lo confidò al suo discepolo americano Ernest Crosby:

Se il nuovo zar mi chiedesse consiglio su cosa fare, gli direi: «usa il tuo potere autocratico per abolire la proprietà della terra in Russia e introdurre il sistema della tassa unica e poi rinuncia al potere e dài al popolo una costituzione liberale».

Solo nel gennaio del 1902 Tolstoj scrisse a Nicola II. Se il popolo russo avesse potuto esprimersi – si legge nella lettera – avrebbe chiesto l’abolizione del diritto di proprietà privata sulla terra.

Ed è proprio il diritto di proprietà privata sulla terra che è, a mio parere, il fine immediato il cui raggiungimento deve essere assunto dal governo russo come suo compito. [...] Per il popolo russo questa liberazione può essere conseguita soltanto abolendo la proprietà privata della terra e riconoscendo la terra come bene comune.

Nello stesso anno, nello scritto Al popolo lavoratore, Tolstoj illustrò il progetto di Henry George presentandolo come l’unico in grado di portare immediatamente la pace nelle campagne e di avviare la giustizia nell’ordinamento sociale.
L’angoscia per la violenza rivoluzionaria, l’orrore per la repressione, le preoccupazioni sollevate da una riforma agraria che minacciava di distruggere definitivamente l’antica struttura comunitaria nelle campagne russe, spingeranno ancora negli anni successivi lo scrittore a sottoporre il progetto di George ai rappresentanti della Duma, a inviare loro le sue opere, a consigliarle ai suoi visitatori, a scrivere al ministro Stolypin.
Il primo agosto 1905 apparve a Londra sul «The Times» The Great Iniquity, un appello che ebbe vasta risonanza, in cui esponeva la teoria e il rimedio di George e denunciava la congiura del silenzio che aveva avvolto la proposta della tassa unica. Sempre nel 1905 rielaborò la lettera scritta a Bondarev nel 1894 in cui illustrava il progetto della tassa unica, nel 1906 ritornò sulla questione della terra in Appello ai Russi e scrisse l’introduzione all’edizione russa dell’opera di Henry George Social Problems. Ai suoi numerosi visitatori non mancava di illustrarne i pregi e l’opportunità politica della sua adozione. Al giornalista Herman Bernstein dichiarò:

E mi sembra che proprio adesso sia il momento giusto per introdurre questa idea, ora e in Russia. È proprio il momento giusto perché in Russia c’è la rivoluzione, la cui vera motivazione è il rifiuto da parte di tutto il popolo, il popolo autentico, della proprietà della terra. In Russia, dove nove decimi della popolazione è costituta da coltivatori e dove la teoria [di Henry George] è semplicemente l’espressione consapevole di quello che è sempre stato considerato un diritto dal popolo russo in Russia, io affermo che specialmente in questo momento di ricostruzione delle condizioni sociali, questa idea dovrebbe finalmente trovare applicazione e così la rivoluzione, diretta in modo tanto sbagliato e criminoso, sarebbe coronata da un grande atto di giustizia. Questa è la mia risposta alla vostra domanda sul futuro della Russia. Finché questa idea non sarà introdotta nella vita del nostro popolo il futuro della Russia non potrà essere luminoso.

Nell’estate del 1907 scrisse a Stolypin affinché riconoscesse i propri errori e rinunciasse a portare avanti una riforma che favoriva la piccola proprietà privata e nel 1909 cercò ancora una volta di richiamare l’attenzione della Duma sulla tassa unica.

Ieri in mattinata sono venuti Maklakov, Cinger, Semënov. Ho preso da parte Maklakov e ho parlato con lui, dicendogli che sollevasse la questione alla Duma. Ha detto che non sa nulla di Henry George e che la proposta, non solo non ha possibilità di essere votata, ma può suscitare reazioni ostili. È un uomo di grande intelligenza pratica, ma chiuso a tutti i veri e necessari problemi degli uomini, come molti, moltissimi.

Come interpretare un sostegno tanto appassionato da parte dello scrittore? Il suo rivolgersi alle autorità, l’invocare l’intervento dello Stato apparvero una contraddizione flagrante con tutto il suo pensiero. Così scriveva il suo traduttore e biografo Aylmer Maude:

Qui, a prima vista, ci troviamo di fronte a quella che sembra una strana contraddizione. Tolstoj disapprova la violenza dell’uomo sull’uomo. Né un imperatore, né un governo eletto da una maggioranza, ha il diritto di uccidere o imprigionare nessuno. È un anarchico nonviolento. Eppure, egli ammira Henry George il cui sistema presuppone l’esistenza di un governo che impone le decisioni di una maggioranza su una minoranza che può essere in disaccordo e sarebbe contento che la tassa unica fosse introdotta in Russia. «La grande maggioranza delle persone crede ancora nel governo e nella legalità – e allora, almeno facciamogli vedere che possono ottenere delle buone leggi» dice Tolstoj.

Il 2 aprile 1906 aveva confidato nel suo diario che da un punto di vista pratico non riusciva a trovare nulla di più convincente del sistema di George:

Parlano e discutono del sistema di Henry George. A me interessa non il sistema (sebbene non conosca né riesca a immaginare qualcosa di meglio), ma che tale sistema stabilisce un rapporto con la terra comune e uguale per tutti. Trovino qualcosa di meglio.

Ma è nel corso di una conversazione con il socialista Pavel Axelrod che lo scrittore affronta il tema della gradualità nel processo di perfezionamento personale e sociale, del rapporto tra la teoria e i problemi connessi alla sua applicazione:

Per un vero cristiano non esiste né Henry George né nient’altro. Tutti i suoi sforzi sono diretti solo verso ciò che è in suo potere, ovvero verso se stesso, e nello stesso tempo vive in lui una convinzione inflessibile che non c’è attività più utile al mondo di questo lavoro su se stesso. Henry George è una concessione, una debolezza. Non uccidere le persone è bene; non uccidere le persone o gli animali o i parassiti è meglio. [...] Allo stesso modo alcuni dicono che per il bene dell’umanità dovrebbe essere eretta una forca in ogni centro; altri dicono: «No, la pianificazione socialista è meglio». E noi diciamo che Henry George è ancora meglio. Ma, lo ripeto, questa è una debolezza.

Per questo motivo nelle opere di carattere teorico il pensatore russo non aveva fatto alcuna concessione ed aveva affermato con decisione il significato negativo della libertà e dei doveri umani.
«Se l’applicazione di ogni dottrina è sempre un compromesso – aveva scritto nel 1889 ad Adin Ballou – nella teoria non possiamo accettare alcun compromesso; benché sappiamo che non potremo mai tracciare una linea retta perfetta, non la potremo mai definire diversamente dalla minor distanza tra due punti». «Il più grande peccato – aggiungeva – è quello di accettare uno svilimento dell’ideale cristiano per renderlo applicabile».
Sotto l’incalzare degli eventi, di fronte allo spettro della rivoluzione, l’avanzare dei processi di industrializzazione, Tolstoj sentì il dovere di agire, di fare un primo passo verso la giustizia sociale. Anche un’azione dall’alto che sancisse le aspirazioni della massa del popolo, come era accaduto con l’abolizione della schiavitù e della servitù della gleba, avrebbe potuto evitare quei mali dell’industrializzazione che con tanta lucidità aveva previsto.
A questa possibilità Tolstoj dedicò tutte le energie dei suoi ultimi tormentati anni. Alla figlia Tat’jana, che tanto era vicina alle posizioni del padre, così scrisse nel novembre 1909:
Sono tormentato dalla stupida cinica decisione adottata dal nostro sfortunato governo su questa questione e dalla sua completa mancanza di comprensione da parte di persone che sono considerate progredite. [...] La questione mi tormenta talmente tanto che recentemente ho fatto un sogno vivido in cui, mentre ero tra “i sapienti”, contestavo il loro punto di vista.

E quel sogno ispirò, qualche mese più tardi, uno dei suoi ultimi scritti, Il sogno, inserito in una serie di bozzetti di vita contadina, Tre giorni al villaggio.

So di aver scritto tanto su questo, ma sotto l’influenza di questo sogno, anche a rischio di ripetermi, ancora una volta ho sentito il bisogno di esprimermi. Cartago delenda est. Fino a che l’atteggiamento verso la proprietà privata della terra non cambierà, la crudeltà, la follia, il male di questa forma di schiavitù non saranno mai abbastanza condannati.

Bruna Bianchi

Per saperne di più

Per chi volesse approfondire le tematiche legate al pensiero libertario, antimilitarista ed educativo di Tolstoj, sono di grandissima utilità le belle pagine dedicate al pensatore russo da Francesco Codello nel suo “La buona educazione”. Esperienze libertarie e teorie anarchiche in Europa da Godwin a Neill, FrancoAngeli 2005. Lo stesso Codello, del resto, aveva già studiato l’influenza del pensiero tolstojano negli ambiti libertari, nel suo precedente volume Educazione e anarchismo. L’idea educativa nel movimento anarchico italiano (1900-1926), Corso editore, 1995. Anche Nico Berti ha affrontato compiutamente le tematiche legate al pensiero tolstojano nel suo monumentale Il pensiero anarchico dal Settecento al Novecento, Lacaita, 1998. Molto interessante, anche, la lunga introduzione di Piero Brunello alla riedizione di Per l’uccisione di re Umberto, pubblicata nel 2003 dal Centro Studi Libertari Di Sciullo di Chieti, nella quale lo studioso veneziano fornisce preziose informazioni sulla “polemica” che vide Malatesta controbattere alle argomentazioni di Tolstoj sulla violenza e il regicidio.
Andando indietro nel tempo, segnalo che negli anni Ottanta uscirono due edizioni di scritti tolstojani, curati da due editrici anarchiche. Per le edizioni della Baronata di Lugano, nel 1986, fu pubblicata una antologia di Scritti eretici, raccolti da Mario Bucciarelli, mentre l’anno successivo le Edizioni Senzapatria di Sondrio hanno proposto ai loro lettori Patriottismo e Governo e altri scritti antimilitaristi. Si trattava del primo titolo della Collana Antimilitarista, contenente, in appendice, un interessante saggio di Max Nettlau sul pensiero di Tolstoj.
Se qualcuno volesse poi recarsi in una ben fornita biblioteca, potrebbe richiedere il n. 2/3 del 1980 di “Movimento Operaio e Socialista”, nel quale compare uno studio particolarmente importante, quello di Dania Mazzoni, che tratta della Fortuna di Tolstoj nel movimento operaio italiano. Andando indietro nel tempo, ma forse fin troppo, si potrebbero cercare le ormai rare pubblicazioni della fiorentina Casa Editrice Nerbini, che, agli inizi del Novecento pubblicò molti dei testi più strettamente politici del grande pensatore russo. Ma qui, probabilmente, andiamo un po’ troppo indietro…

Massimo Ortalli