Haiti / solo i morti sono
Liberi? A volte pare di sì
Raramente le parole hanno reso con tale cruda evidenza il duplice grado di alienazione della perdita della propria identità e dell’identificazione della vittima con la scala di valori del carnefice. Gli schiavi di Haiti, in gran parte originari dal Dahomey, per indicare la fuga usavano l’espressione “rubare il proprio cadavere” (Les chasses à l’homme, di Grégoire Chamayou). Consapevoli che la condizione di schiavo corrispondeva alla morte civile, utilizzavano ancora il linguaggio dei loro padroni. Classificati dalla legge del tempo come “beni mobili”, continuavano a percepirsi come proprietà (“merce”) anche quando si ribellavano.
All’epoca la “Società dello spettacolo” era ancora in fasce, ma quasi sicuramente i situazionisti avrebbero parlato di reificazione (“cosificazione”), anche delle coscienze.
Lo schiavo in fuga come l’indigeno in rivolta contro il colonialismo di cui parlava Frantz Fanon in “Les damnés de la terre”. Consapevoli entrambi che il prezzo per la loro ribellione sarebbe stato la morte. Come l’insorto, così lo schiavo fuggiasco “comincia la sua vita di uomo dalla fine; si considera come un morto in potenza”. Per inciso, Toussaint Louverture, “l’anima dell’indipendenza della prima Repubblica Nera”, ne costituisce una sintesi storicamente insuperabile.
Non deve apparire paradossale che alcuni antropologi stiano cercando di restituire dignità e storia alle vittime della tratta negriera studiando cimiteri e fosse comuni. “All’epoca della schiavitù – spiega il Dr. Jean Felicien Bongolo (più conosciuto come Masengo Ma Mbongolo) – le cerimonie funebri costituivano l’unico spazio in cui si poteva esprimere una sorta di ritrovata libertà”, per quanto momentanea. “La morte –prosegue – era il momento per gridare forte la propria liberazione, quella dell’immortalità dello spirito”.
Quindici anni fa, dopo una serie di cicloni che avevano colpito l’isola di Guadeloupe, numerosi scheletri umani erano apparsi sulla spiaggia di Sainte-Marguerite. Gli archeologi, in breve tempo, individuarono centinaia di tombe risalenti ad un periodo compreso tra il XVIII e il XIX secolo. L’ipotesi di aver scoperto un “cimitero di schiavi di origine africana”, venne confermata dallo studio dei crani. Parecchi presentavano denti con mutilazioni caratteristiche delle pratiche rituali di alcune popolazioni dell’Africa.
Finora dagli esperti dell’Institute national de recherche en archéologie préventive et anthropologue dell’università di Bordeaux sono stati riesumati circa 300 corpi – uomini, donne, bambini – su un migliaio di sepolti.
A più di un secolo e mezzo sulla definitiva abolizione della schiavitù, questo è il primo studio archeologico sistematico condotto nelle “Antille francesi”. Fino a qualche anno fa sarebbe stato una sorta di tabù, una vergogna collettiva da nascondere sia per i discendenti degli schiavi che per quelli dei padroni. In passato, analoghi ritrovamenti venivano frettolosamente sepolti e dimenticati.
Invece gli scavi di Sainte-Marguerite (considerati in ambito accademico come “l’inizio dell’archeologia dell’epoca coloniale”) vengono percepiti da buona parte della popolazione di Guadeloupe come “importanti nella ricerca della propria identità”.
Il luogo delle ricerche sarebbe stato utilizzato come cimitero da numerose “habitations”, le piantagioni di canna da zucchero nelle Antille. Nelle sepolture sono stati individuati due diversi periodi. Il primo si esaurisce con la prima abolizione del 1794, l’altro (dopo che nel 1802 la schiavitù era stata ristabilita da Napoleone Bonaparte) arriva fino all’abolizione definitiva del 1848.
Mentre nella parte più antica del cimitero i cadaveri sono stati sepolti in maniera disordinata, in quella più recente i corpi sono in genere orientati in senso est-ovest, ricoperti da abiti e con un crocefisso. Lo studio degli scheletri operato da studiosi di paleopatologia ha confermato che le condizioni di vita degli schiavi nelle piantagioni erano durissime. Sono ancora evidenti i segni dei traumi causati dalle fatiche e dalle sofferenze a cui venivano sottoposti. Tutti i corpi dimostrano meno di 30 anni e su molti soggetti di una ventina di anni sono state riscontrate artrosi vertebrali che in genere non compaiono prima dei 50. Una generalizzata perdita dei denti, anche tra i bambini, sarebbe conseguenza della scarsa alimentazione. Per sfuggire ai morsi della fame, gli schiavi mangiavano in quantità eccessiva la canna. La combinazione di zucchero e di silice (contenuta nelle fibre) aveva effetti devastanti sulla dentatura. Diffusissima la tubercolosi ossea (“quasi al 100%” secondo gli studiosi) a causa della promiscuità e delle pessime condizioni igieniche. Non mancano i segni di maltrattamenti e torture. L’amputazione di una falange delle dita del piede andrebbe interpretata come la classica punizione per lo schiavo che tentava la fuga “rubando il proprio cadavere”.
Gianni Sartori |