Il rogo del venticinquenne ambulante tunisino Tariq al tayyb Muhammad Bu’azizi, ridottosi a torcia umana per protestare contro le continue angherie della polizia tunisina, ha innescato, il 17 dicembre 2010, uno sconvolgimento nel mondo arabo-mediterraneo che non è facile attualmente capire dove sfocerà.
Intanto su un fatto è facile concordare: non si tratta della solita rivolta che mira a sostituire una fazione ad un’altra, l’egemonia di un assetto di governo ad un altro governo già pronto a rimpiazzare il vecchio. Si tratta verosimilmente della manifestazione esplicita di popoli che non intendono più sottostare a regimi oppressivi e corrotti, popoli giovani, sin qui soggiogati da monarchi che li hanno depredati delle risorse dei rispettivi territori per arricchirsi, con la complicità di tutte le potenze ex colonialiste dell’Occidente, che nella stabilità geopolitica dell’area hanno fondato le loro strategie, puntellando il potere di personaggi impresentabili e ignorando le condizioni di miseria delle popolazioni oppresse.
Certo, rivolte di questo genere se ne sono viste tante sotto ogni latitudine, era quindi comprensibile che le diplomazie occidentali aspettassero sornione che tutto rientrasse nella normalità e si potessero ripristinare i traffici consueti senza che sconvolgimenti significativi investissero il panorama Medio Orientale. È quindi facilmente immaginabile il loro spiazzamento quando i giovani di Piazza Tahrir chiesero la testa dei loro despoti in nome soltanto della libertà, senza che si levasse dalle piazze una sola voce contro quei Paesi nell’immaginario collettivo considerati tradizionalmente come nemici, americani e israeliani in testa.
Da qui, nel caso libico, il patetico oscillare tra l’iniziale adesione esplicita alle istanze dei giovani nordafricani in rivolta e la prudenza poi nel sostenerne la lotta, così che ci sono voluti tre mesi esatti perché il Consiglio dell’ONU deliberasse il 16 marzo, senza l’unanimità, il via al no fly zone, un’iniziativa minima per arginare la feroce, sanguinosa repressione di Gheddafi contro la sua gente. Una iniziativa fuori tempo massimo, e nella quale è palpabile la confusione delle idee.
Tardiva perché l’aviazione di Gheddafi aveva già infierito sui rivoltosi in ripiegamento e le milizie mercenarie e governative si erano già infiltrate nelle città della Cirenaica dove ancora gli insorti resistevano, rendendo impossibile ogni intervento dall’aria; confusa perché non dava un mandato preciso né per quel che riguarda la guida tattica e strategica dell’operazione, né sui limiti e le modalità dell’azione militare.
Nel confuso e tardivo intervento del Consiglio di sicurezza dell’ONU è evidente tutto il declino militare e strategico delle potenze occidentali. L’America, sempre più impantanata nelle improvvide avventure belliche irachene e afgane, frustrata per un governo che, nel nome di Obama, ha ottenuto un consenso plebiscitario all’insegna di una palingenesi sociale presto compromessa da colossali interessi consolidati che si sono messi di traverso contro la riforma sanitaria, prima e, poi, contro tutte le misure che miravano a contenere il prepotere delle lobby affaristico-finanziarie. Ma soprattutto frastornata per l’inversione a U nei propositi di convertire la logica guerrafondaia di matrice bushiana, sicché, sotto la gestione di Obama, si sono moltiplicate le iniziative militari in Afganistan, si è consolidato il fallimentare status quo in Iraq, si è colpevolmente soprasseduto al promesso smantellamento dell’inqualificabile carcere di Guantanamo, mentre è cresciuta l’insofferenza dell’opinione pubblica per la continua emorragia di vite umane in conflitti i cui esiti, visibilmente fallimentari sul terreno, sono pericolosamente incerti.
La demenziale risoluzione ONU ha finito, quindi, per favorire le patetiche istanze neocolonialiste della Francia di Sarkozy desiderosa di recuperare prestigio in Nord Africa specialmente dopo la disastrosa ritirata dall’Algeria.
Ma nella risoluzione dell’ONU vi è molto di più: vi è la palese miopia verso una serie di eventi che hanno certamente infiammato l’Africa mediterranea, ma le cui conseguenze sono destinate, nel medio periodo, a destabilizzare gli attuali assetti Mediorientali e a disegnare un panorama geopolitico inedito e certamente assai problematico per l’intero Occidente.
Mentre scrivo, non sono in grado di prevedere quali saranno gli esiti dell’operazione militare libica. Al momento sembra che comincino a mancare gli obiettivi sensibili da colpire dall’aria: malgrado le smargiassate del colonnello Gheddafi, il suo apparato militare sembra assai limitato, quindi le sue risorse sembrano orientate ad alimentare una sorta di guerra civile, da combattere strada per strada nelle città ancora in mano agli insorti, nella quale, per ovvi motivi, non è pensabile l’intervento risolutivo dell’aviazione e meno che meno dei missili.
Il solito sordido tempismo
Questa situazione ha già provocato crepe sul fronte degli interventisti e di quanti, senza sporcarsi le mani, hanno approvato la risoluzione del Consiglio di Sicurezza. Tra i belligeranti è palese lo scontro tra Francia e Gran Bretagna che si sono buttate a capofitto nell’avventura libica, l’Italia che è manifestamente nostalgica dei bei tempi del baciamano ma, con il suo solito, sordido tempismo è corsa a schierarsi con i prevedibili vincitori della partita, non senza avvertire la frustrazione di essere relegata a fornitrice di servizi, senza alcun ruolo di prestigio. Ha invocato e ottenuto l’intervento della Nato, anche se gli americani, che ne costituiscono la parte egemone, vorrebbero smarcarsi da un fronte che, in prospettiva, evoca i fantasmi dell’infausto desert storm: hanno lanciato i loro missili per mostrare i muscoli, ma tanto basta. Non sono, comunque, i soli ad aver mostrato reticenza sull’intervento della NATO. Germania e Turchia hanno inizialmente dichiarato esplicitamente di voler lasciare ai volenterosi l’onere di portare a compimento un’operazione alla quale non si sono aggregate, mentre la Francia ha preteso sino alla fine, di conferire alla NATO compiti esclusivamente tecnici, lasciando ad un comitato dei ministri degli esteri dei Paesi belligeranti la responsabilità politico-strategica del conflitto. Anche se questa intricata faccenda sembra al momento risolta, è certo che essa non depone bene sullo stato dei rapporti tra alleati, anzi, illumina lo stato di confusione e il conflitto di interessi tra i depositari della democrazia che dei dittatori si accorgono solo quando sono in gioco i loro interessi (che sono, per di più, divergenti).
Ma sul fronte dei non belligeranti montano le riserve, quando non addirittura i malumori. I Paesi africani hanno espresso la loro indignazione per la brutalità dell’aggressione. Russia e Cina ingrossano le fila dei dubbiosi. La Lega araba adesso mostra di essere contrariata dall’evolversi degli eventi e ne ha ben donde: molti dei suoi Paesi hanno in casa una contestazione alle rispettive leadership che monta anche sull’onda degli avvenimenti nordafricani e, non senza ragione, temono che quello che avviene in Libia possa domani riguardarli direttamente.
Il fatto è che l’intero mondo arabo è in movimento e l’Arabia Saudita è il punto nodale di un sommovimento che all’Occidente provoca grande apprensione.
La monarchia saudita è da tempo in crisi, poco per i problemi di successione, molto per le condizioni della popolazione che non sopporta più di rimanere ai margini di una società fondata sui privilegi e la smodata ricchezza di pochi. I Sa’ud sono invisi alla stragrande maggioranza della popolazione e nella capitale Ryad si avverte il respiro pesante della contestazione popolare. Nelle scorse settimane l’esercito saudita, nell’indifferenza dei Paesi vessilliferi della democrazia, ha invaso il Berhein in rivolta, sede, tra l’altro, di un’importante base militare americana. È bene ricordare che dai Paesi rivieraschi del Mare Arabico e del Mar Caspio transita il 40% delle risorse energetiche del Pianeta. Ma non è soltanto questo il problema. Nella strategia geopolitica dell’Occidente l’Arabia Saudita, insieme alla Turchia, era considerata un baluardo contro l’Iran. Ora anche la Turchia tende a sganciarsi dal blocco delle potenze occidentali per avvicinarsi alle posizioni dell’iraniano Amadi-Nejad: la svolta si è verificata a seguito dell’ultimo brutale intervento israeliano nella striscia di Gaza (Piombo fuso) che, tra l’altro, sembra aver portato alla saldatura i rapporti tra Al Fath e Hamas.
Se a questo quadro si aggiungono le montanti contestazioni popolari al regime di Assad in Siria e l’instabilità della situazione in Libano, basta uno sguardo alla carta geografica per capire come stia rapidamente cambiando l’assetto geopolitico del Medio Oriente e dell’Africa Mediterranea (dove Marocco e Algeria sono anch’essi in forte fibrillazione).
Si noterà anche il rischiosissimo cerchio che si stringe attorno ad Israele, un cerchio costituito da Paesi che, come l’Iran, non sono propensi a fare sconti al governo di Metanyahu. Il che si somma al clima di ostilità che investe l’intero Occidente, il quale mostra tutta la sua incapacità di comprendere l’aria che tira sui suoi assetti e le sue stantie liturgie. Mostra di essere catatonica l’Europa, la cui voce si è udita solo per sottolineare le divisioni che ne paralizzano le politiche e la ormai atavica incapacità di individuare i mutamenti che avvengono nel mondo e che, volente o nolente. la coinvolgono. Una crisi generalizzata, insomma, che rende le democrazie occidentali, al di qua e al di là dell’Atlantico, sorde e cieche.
La logica del dominio
Se così non fosse, non avrebbero affrontato la crisi libica nella maniera scriteriata che è sotto gli occhi di tutti.
Anziché sconvolgere il territorio tripolitano e cirenaico con una quantità sproporzionata di bombe e di missili, che certamente, con i loro effetti collaterali, hanno sommato vittime a vittime, l’ONU avrebbe potuto invece chiamare a raccolta l’Unione Africana e la Lega Araba per costituire tempestivamente un fronte di interposizione per separare le milizie e i mercenari di Gheddafi dai giovani in rivolta.
Sarebbe stato un modo intelligente e relativamente indolore per far risolvere il conflitto ai Paesi per etnia, cultura e affinità politico-religiose più vicini ai contendenti. E poi non si sarebbe rinfocolata la diffidenza di tutto il mondo arabo verso un Occidente che mostra chiaramente di non voler desistere dall’imporre con la forza le assai spesso discutibili sue ragioni.
Adesso ci si è infilati in un cul de sac dal quale sarà difficile uscire. L’alternativa, paralizzante, è: o decidersi a sbaragliare le resistenze del colonnello libico con una forza di terra che, al momento, contrasterebbe col mandato dell’ONU e che vede restie sia l’America che la stessa Unione Africana, oltre che Lega Araba, Turchia e parte dei Paesi europei; oppure assistere impotenti ad una guerra civile, di posizione, lunga non si può ipotizzare quanto, che potrebbe alla fine ratificare la separazione tra la Tripolitania e la Pirenaica.
Mentre scrivo è in corso la conferenza di Londra, alla quale partecipano complessivamente 40 Paesi, compresi i componenti della Lega Araba ma esclusa l’Unione Africana, che ha dato forfait alla vigilia dei lavori e la Russia, secondo la quale le operazioni belliche in Libia da parte dei volenterosi sono andate molto al di là del mandato del Consiglio di sicurezza dell’ONU. Tale conferenza è stata preceduta, prima da un video-incontro tra Obama, Cameron, Sarkozy e, sorprendentemente, la Merkel (reduce da una bruciante sconfitta elettorale), la quale aveva tenuto sin qui lontana la Germania dal Conflitto; poi da un discorso alla nazione di Barak Obama, il quale, giustificando il suo iniziale interventismo con ragioni di carattere umanitario e per contribuire a debellare un dittatore sanguinario quale Gheddafi (echi bushiani contro Saddam Hussein?), ha sottolineato che la Libia è lontana dagli interessi del popolo americano e che l’America non può continuare a svolgere il ruolo di gendarme del mondo: un disimpegno esplicito, insomma.
Per consentire la chiusura del prossimo numero della Rivista, non sono in grado di apprendere e valutare gli esiti della Conferenza di Londra, che dovrebbe occuparsi del futuro dello Stato libico.
Mi limito, quindi a due considerazioni finali: la prima riguarda l’aspetto velleitario di una discussione sui futuri assetti di un Paese prima che si venisse a capo del problema di eliminare Gheddafi, un problema che, nella confusione generale e nello stallo della situazione militare sul territorio, non sembra facile da risolvere. La seconda considerazione è che, ancora una volta, la logica del dominio delle potenze egemoni tenda, di fatto, ad espropriare il popolo libico del suo diritto all’autodeterminazione.