Ho fatto l’insegnante per tutta la mia vita adulta, anche se sognavo di fare la guida Apache.
Ho fatto l’insegnante per tutta la mia vita adulta e direi che adesso di migrare in Messico non se ne parla. Comunque fare l’insegnante mi è piaciuto, mi piace e mi piacerà, spero, fino alla pensione, intendendo con questo il momento in cui non dovrò più andare al lavoro tutte le mattine, e potrò farmi scuola per conto mio.
La scuola è un paradigma dell’esistenza, dentro il quale si misurano – in centimetri applicabili a organi del corpo diversificati – i falli e le aporie di un sistema. È anche, empiricamente (o almeno lo è stato nella mia esperienza), un campionario attendibile della varia umanità che abita il mondo, una palestra etica che impone a insegnanti e studenti avventurose acrobazie burocratiche per mantenere, almeno in una qualche misura, la funzione educativa che lo stato, il nostro stato, prescrive ma non mantiene. Infine, la scuola è, come una riserva indiana, un luogo dai confini permeabili, dove il mondo entra ed esce (ed è auspicabile che continui a esser così, per quanto nello splendido, gelminiano nuovo mondo i cervelli escano soltanto, mentre entrano i criceti) e dove è bene acquisire gli strumenti per comprendere quel che siamo e quello che vogliamo diventare. La prima operazione può essere di questi tempi estremamente deprimente; la seconda del tutto inutile, tanto a diventare quel che vogliamo non possiamo farcela, a meno che non cominciamo a dar via a prezzo di saldo alcune parti del corpo che non sono il cervello.
Ho fatto l’insegnante per tutta la mia vita adulta, in quelle riserve apache che sono la scuola e l’università. Un insegnante, specie quando si trasforma in un docente universitario, tende ad alcune metamorfosi intriganti. Il più delle volte si trasfigura in una entità aliena che chiameremo “l’intellettuale umanista” e che è definibile come segue:
Intellettuale umanista: individuo che, anche da bebè, dimostra un’età tra i 60 e i 78 anni, e si abbiglia in modo conseguente. Fatica a comprendere che esista, sia mai esistita e mai esisterà l’ironia, e ritiene comunque escluso che, qualora esista, egli possa applicarla a se stesso. In modo consequenziale, l’umanista ha di solito l’umorismo di un attaccapanni nel soggiorno della famiglia Adams.
Non è un bel vivere, eh? Il processo può essere arrestato, naturalmente, soprattutto quando la tara genetica che condiziona un individuo a trasfigurarsi in “intellettuale umanista” è diagnosticata molto presto e curata con dosi massicce di statistiche, somme algebriche, logaritmi e preferibilmente l’iscrizione a ingegneria meccanica (qualunque altra specializzazione condurrebbe fatalmente allo sviluppo di doti teoriche, di per se stesse pericolosissime). Nei casi in cui la tara ereditaria è meno evidente, può risultare terapeutico indurre l’intellettuale umanista a praticare alcune consuetudini per lui, di norma, inconcepibili, ovvero:
- frequentare ambienti popolari con una antica storia, che tuttavia non è scritta nei manuali consigliati dal Ministro della Pubblica Istruzione (chiunque esso sia: direi che in una gara a chi se la cava meglio in questo ruolo, non esistono vincitori, ma solo perdenti più o meno imbarazzanti);
- entrare in relazione con individui non in grado di esprimersi in italiano corrente ma capaci di raccontare storie magnifiche, ipotizzare che vi sia un mondo di lavori manuali, artigianali, necessari dove esiste una pulsione culturale, e non è rara;
- e via dicendo.
In questi contesti, l’intellettuale umanista – se sopravvive alla dura, darwiniana legge dell’esistenza – e non sceglie lucidamente di uscire di senno, così lo sedano e non capisce più una cippa – può addirittura fare scuola. O, ancora meglio, andare a scuola da gente che della vita vera sa qualcosa di più.
Un intellettuale umanista che abbia fatto per tutta la vita l’insegnante, però, non ha speranza. Bisogna abbatterlo prima che diventi pericoloso per se stesso e per l’universo mondo. Vedremo in altre circostanze come. Allora, questa mia casellina di testo è un’arena di sopravvivenza dove zampetto nei panni, appunto, di una guida apache. La casellina l’ho inventata io, che non ho ancora subito la metamorfosi in intellettuale umanista. Sono piuttosto allo stadio larvale di questa metamorfosi, che è quello dell’idealista, ovvero:
Idealista: essere umano che passa l’esistenza ad arrampicarsi su vetri insaponati, destituito com’è della capacità di capire che la superficie su cui scivola sia un vetro e persino insaponato. L’idealista è un mammifero, e come tale non può disamorarsi di stare al mondo. Perciò, gli idealisti arrampicati su questo vetro fanno cose diverse, e in ragione di quel che fanno, si dividono in due categorie. Gli idealisti consapevoli cercano di camminare eretti, e quando cadono lo fanno con grande dignità, sapendo che, se anche non siam fatti per volare, possiamo almeno provarci, per un momento, e sentire che siamo vivi. Gli idealisti inconsapevoli, che presto degenerano in arrivisti, rimangono attaccati a una superficie che non tiene, e neanche sanno di essere su quel vetro. Sanno solo che vogliono arrivare in cima, sbaragliando quelli che pensano essere avversari e credendo che alla fine saranno salvi.
Arrampicata sul vetro e senza nessuna speranza di trasfigurarmi in un vincente, rampante idealista inconsapevole, faccio quello che di recente stiamo tentando di fare tutti: scuola, sì, ma di sopravvivenza, ovvero come attraversare trent’anni di barbarie e uscirne, prima o poi, camminando eretti.