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Sono arrivato a Lampedusa il 23 marzo, lo stesso giorno in cui la nave San Marco avrebbe cominciato a trasportare i migranti tunisini nei centri di accoglienza italiani, e mi sono detto, vediamo ora dove li porteranno, non possono certo lasciarli in queste condizioni. Il centro di prima accoglienza già scoppiava e iniziavano a nascere le prime tende sulla collina che si affaccia sul molo. Col passare delle ore la situazione però peggiorava a vista d’occhio. Barconi su barconi riversavano uomini stremati come stracci portati dalla corrente.
La speculazione della peggior politica aumentava di pari passo, invece di cercare soluzioni che allentassero la tensione che si stava creando sull’isola, si sono succeduti i peggiori sciacalli che facendo leva sui timori della gente aumentavano paure recondite di chissà quale sciagura si potesse abbattere sulle loro vite con l’arrivo dei tunisini. E cosi si richiamava all’invasione, allo tsunami, all’esodo biblico, all’arrivo di predoni sulle “nostre” coste, che avrebbero portato criminalità e disastri in tutta Europa. Frontiere chiuse. Tendopoli costrittive. Rimpatri forzati. Centri di detenzione. Queste le uniche risposte dell’occidente, civile, moderno. Sulla collina, sul molo, in giro per il paese c’erano solo loro, i tunisini, neppure tantissimi, ma sicuramente troppi per le dimensioni dell’isola, costretti a stare lì perché la pressione sull’Europa si facesse più forte, perché “politicamente” faceva comodo che si creasse un “allarme lampedusa”.
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Incrociare i loro sguardi, sperduti appena sbarcati, speranzosi quando gli si diceva che li avrebbero portati in Puglia o Sicilia, interrogativi quando ci chiedevano se sarebbe stato semplice scappare dalle tendopoli per raggiungere fratelli, amici, parenti o semplicemente per continuare a inseguire il sogno di vivere nell’Europa ricca della televisione o del web, rendevano un quadro completamente diverso da quello che si poteva percepire da Milano o da Roma o da chiunque non vivesse quei momenti.
In molti non capivano cosa gli venisse detto, i mediatori culturali erano pochissimi e le forze dell’ordine non parlavano nemmeno un po’ di francese. Si spargevano sull’ isola voci incontrollate che spaventavano tutti, e loro cercavano risposte e conferme da chiunque potesse dare un’informazione in più. E non capivano perché erano costretti a vivere cosi, per quanto tempo ancora dovevano sopportare e come poteva andare a finire.
Nei loro occhi si leggeva la semplicità delle loro speranze, la paura per il loro futuro, la stanchezza per le fatiche e le condizioni di vita.
Se tutti avessero potuto vedere quello che è successo in quei giorni, se tutti potessero guardare negli occhi questi “invasori”, ci sarebbe meno paura, ne sono convinto.
E il nostro sguardo incontrando il loro ci avrebbe reso più umani. Ed è successo, quando molti lampedusani accoglievano o cercavano di migliorare questa vergogna tutta italiana.
Ma gli occhi e lo sguardo di questi ragazzi rischia di diventare disilluso e poi duro e violento se continueremo a trattarli cosi, e noi invece dovremmo abbassarlo lo sguardo per la nostra incomprensione, per la nostra indifferenza, per il cinismo delle istituzioni.