I luoghi e le ragioni di un canto
(diario e riflessioni di un musicista militante)
Il nostro bisogno di consolazione è grande. Questo non è un mestiere, o per meglio dire, non è solo un mestiere. A cantare le parole, le parole ti legano e ti coinvolgono…
È così che ci troviamo intrappolati nel meccanismo dell’investimento emotivo che facciamo per cantare.
Vogliamo canzoni da amare
che il vento prepari la pioggia
vogliamo canzoni dal mare
e mai più “canzoni da spiaggia”
vogliamo canzoni più vere
così come i sogni sognati
dal fondo di ogni bicchiere
la nave di Jenny e i pirati.
Prima di ogni concerto sono preoccupato per le mille e mille cose che possono andar male, per tutti gli inconvenienti che si vengono regolarmente a materializzare sul palco, mentre le parole e gli accordi devono continuare a fluire, come se li inventassi in quel momento. E invece sono tutto concentrato su un piccolo altoparlante ai miei piedi (spia o monitor si chiama in linguaggio tecnico) che gracchia, che non mi restituisce a un livello credibile la voce, o quella dello strumento a cui sto appoggiando il canto, oppure che è del tutto muta… ma intanto la faccia deve appare solo concentrata sul flusso del discorso che stai facendo a un pubblico – grande o piccolo che sia – naturale e semplice, come parlando a un conoscente del bar sotto casa.
Prima preoccupato poi affranto
Prima d’ogni concerto sono preoccupato, fin da quando faccio la valigia, chiudo la chitarra nel fodero… poi prendo il tram da casa, poi il treno, arrivo all’ultimo minuto, mi viene a prendere l’organizzatore dell’iniziativa, che magari non è un professionista ma un compagno che fra mille impegni, sottraendo tempo al lavoro e agli affetti, ha per amore, per tenacia, per indignazione costruito quel concerto, con pochi soldi, magari pure rimettendoci qualcosa di tasca sua. Arrivo, provo con un’occhiata indifferente a valutare la situazione tecnica e intanto l’organizzatore affianco con un sorriso disarmante dice “speriamo venga qualcuno stasera”. Bene, tocca pure rincuorare lui. È comune questo bisogno di consolazione.
Prima di cantare sei preoccupato. Dopo sei affranto. Felicemente affranto se tutto è andato bene, affranto e con un senso di nausea quando bene non si può proprio dire che sia andata. In ogni caso ciò che volevi dire l’hai detto, oppure ci hai provato e provare costa molta più fatica che fare.
Ti senti svuotato. Però hai appena riversato addosso a della gente le tue paure, i tuoi fantasmi, hai condiviso le tue speranze, hai urlato il tuo bisogno di consolazione. È allora che si fanno avanti un po’ di persone con gli occhi lucidi, con la passione addosso, con tante parole che crescono in bocca da dirti. Tu non trovi più nessuna concentrazione, ti stampi un sorriso un po’ idiota in volto e annuisci sperando di non deludere troppo gli entusiasmi suscitati.
È lo scollamento: fino a quando canto sono tutt’uno con chi ascolta. Dopo no.
Vogliamo canzoni più amare
della melassa per radio
che mente parlando di cuore
un miele di male di iodio
Canzoni al cloruro di sodio
miniere che danno salgemma
di amanti sfondanti l’armadio
ribelli ad ogni stratagemma.
È il nostro bisogno di consolazione, una fame sempre insoddisfatta. Però qualcosa hai fatto, qualcosa passa sempre.
Con persone assurde con luoghi improbabili
Il privilegio di chi fa questo mestiere è oggi quello di poter unire i puntini e vedere la figura, come nei vecchi giochi della settimana enigmistica. Per il tipo di canzoni che faccio, per la varietà delle proposte, per la disponibilità a muovermi spesso per poco o niente: per la “gloria” (come si dice), o per militanza, per tutto questo a me, più che a ogni altro collega cantautore penso, è capitato di cantare nei luoghi più disparati e improbabili: centri sociali, case private, musei, carceri, manicomi, ospedali, feste pubbliche, botteghe equosolidali, librerie, manifestazioni, cortei. Le iniziative per cui canto sono spesso non espressamente musicali, ma la musica è il mio strumento di penetrazione nei luoghi e negli animi del mondo.
Parlare di questi luoghi equivale a parlare delle forme di socialità che esprime la nostra epoca di dissoluzione degli ideali collettivi.
Raccontare queste esperienze non è solo fare un elenco di situazioni divertenti o strazianti (o tutt’e due), ma costituire la mappa di una sorta di caccia al tesoro in cui il tesoro è disseminato ad ogni tappa.
Quando Mario Novello s’entusiasmò per quel pugno di canzoni del ’70 scritte da Gianni Nebbiosi sulla condizione degli internati nei manicomi, che noi avevamo ripreso e re-inciso, ci fece entrare nei vecchi e fatiscenti padiglioni delle “Donne agitate”, reparto tre, Manicomio di Sant’Osvaldo a Udine. Le finestrelle sulle porte e i cardini terribili mi continuano a inseguire, pure nei sogni.
Quando uscendo dal carcere minorile di Catanzaro, dopo un difficilissimo incontro musicale, mentre il cancello di ferro scrocchiava alle mie spalle, sentii uno di quei ragazzi terribili urlarmi dietro “Mesciu (“maestro”) allora ci vieni a trovare lunedì prossimo?” m’è sembrato che certi utopici slogan su un mondo senza servi e senza sbarre siano parole di puro buonsenso.
Quando in tutt’altro carcere, quello femminile di Verona, ci portarono via le ospiti dalla sala del concerto, perché la loro ora d’aria era finita, mentre uscivano ci chiesero di suonare ancora e noi le accompagnammo una ad una con l’ultima canzone. All’ultima strofa eravamo rimasti solo noi musicisti là dentro.
Visto dal di dentro cantare mi concede il privilegio di entrare in contatto con persone assurde, con luoghi improbabili e con situazioni uniche. Cantare è un atto politico, non solo, non tanto per quello che canto, quanto per i luoghi e le persone che altrimenti mai avrei avuto il piacere e il privilegio d’incontrare. Un’umanità in rivolta, una moltitudine che non si rassegna e che continua a ribellarsi. Certo, è fin troppo facile notare quanto manchi un collante che metta assieme tutta questa ricchezza potenziale, che però, io lo so, permane. Il collante penso che possano essere le storie. Non le elucubrazioni collettive sui destini del mondo, né le intimissime esplorazioni delle profondità dell’artista di fronte alla sua tazzina di caffè, altrimenti dette minimalismi. Ma le storie, semplicemente le storie.
Oggi più che mai ritengo che nessuno si emozioni per un ideale astratto. La rivoluzione non si fa con un budget programmatico e non si giudica con un bilancio d’esercizio. Oggi l’unico atto che mi sento di fare per coinvolgere gli altri è raccontare delle storie: singole storie a singoli individui.
Vogliamo canzoni per aria
debutti del primo di maggio
la cantacronaca varia
del nostro grandissimo viaggio
La vita che puoi raccontare
la musica delle parole
vogliamo canzoni da amare
e qualche canzone d’amore…
Il mio bisogno di consolazione è grande, una volta un amico mi disse “non c’è complimento che ti basti, te ne manca sempre uno”. Io in quindici anni di lavoro non son diventato più ricco né troppo famoso, forse un po’ famigerato nel nostro ambiente. Spesso per consolarmi mi dicono “…aaa, se fossi nato vent’anni prima! A quest’ora…” ma il fatto che io sia abbastanza conosciuto, tanto da essere chiamato spesso, ma non riconosciuto e che dunque possa entrare in contatto con chiunque, è a suo modo un privilegio, il privilegio di poter fare un lavoro che è un grimaldello. Se la vita è l’arte dell’incontro, cantare mi permette di vivere ben al di sopra delle mie possibilità. Conoscere storie, continuare a raccontarle.
Alessio Lega
alessio.lega@fastwebnet.it
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