Djali,
la zingara
Curioso e ameno questo Diario di una chiromante (pagg. 118, €12,00, Nerosubianco edizioni, Cuneo 2010. Nerosubianco edizioni, via Torino 29 bis, 12100 Cuneo, info@nerosubianco-cn.com) di Leda Rafanelli detta Djali (Pistoia 1880-Genova 1971), scritto in tarda età e che ricompone a memoria i ”pezzi interiori” di donne insoddisfatte, innamorate, possessive, smarrite, folli, fino a suturarli e a riassemblarli, fino a ricostruire l’identikit caratteriale originario di ciascun soggetto che si presentava a lei – chiromante nata – (come la stessa Rafanelli si dichiarava fin dall’infanzia) per ottenere, tramite la magica intuizione sensoriale delle Scienze Occulte, delle rassicuranti risposte alle proprie inquietudini esistenziali o per sbrogliare banali intrighi relazionali relegabili nel minimalismo del vivere quotidiano, con annesse e spericolate veggenze sul futuro.
Questi incontri “scelti” tra le giacenze decantate e datate di un bazar umano variegato e imprevedibile, rendono un buon servigio al piacere della lettura che qui scorre gradevole, fluida, ritmica, grazie ad una scrittura leggera, trasparente, misurata.
Ed è proprio nel modo di riportare le richieste, le speranze, le angosce delle clienti, che la Rafanelli rivela il suo rapporto deontologico – se così si può definire – improntato a un costante equilibrio, a una lucidità distaccata, a un’ironia sottile, a una compassionevole umanità dai toni ora affabili, ora mesti, ma sempre tolleranti e rispettosi delle altrui infelicità, anche se talvolta scaturite da insane e discutibili interpretazione della vita.
Certo, è un libro redatto in età ormai pacificata, da godere come puro divertissment.
È auspicabile che un giorno vengano ripubblicati i suoi libri più significativi e rari, di maggior pregnanza documentale e contenutistica. Molti storici del movimento anarchico in Italia, conoscono bene Leda Rafanelli e la sua vita tumultuosa vissuta all’insegna di una sfrenata libertà interiore, di una spasmodica sindrome rom, e di alcune scelte talora in contraddizione tra loro da traumatizzare qualsiasi anarchico fermo su principi di base che non possono, a prima vista, entrare in conflitto con se stessi. Ad esempio, come far convivere anarchismo e islamismo, quando l’autrice decise di farsi musulmana, ma rivisitare l’intera esistenza di questa personalità bizzarra, sempre pronta a depistarsi, non è semplice e non è questa la circostanza idonea.
Ci riesce molto bene la curatrice del testo, Milva Maria Cappellini, che, con slancio appassionato, si lancia in un excursus storiografico fitto di acute osservazioni critiche che ripropongono la figura anarchica della Rafanelli e la sua riattualizzazione, pur dibattendosi a volte, come abbiamo appena detto, in un roveto spinoso e pungente dove i trapianti ideologici potrebbero indurre al rigetto per incompatibilità genetica, ma sono invece proprio questi passaggi irti di difficoltà interpretativa a consentire alla curatrice di muoversi in profondità e dipanare alcuni aspetti apparentemente incomprensibili.
Dunque, citeremo alcuni passi di questo itinerario così accuratamente tracciato, per dare solo una pallida idea di quella che fu l’intensa vita di una donna “contro”, in epoche in cui la figura sociale femminile non trovava altro spazio, per esistere, se non in quello domesticoin seno alla famiglia; forzatamente relegata a ruoli tradizionali e asservita all’uomo inteso come padre-padrone.
Ragazzina, trova lavoro in una tipografia dove un suo compagno, amico di Gaetano Bresci, le inculca l’idea anarchica che subito l’affascina e alla quale sarà sempre fedele, nella pratica quotidiana, nella militanza attiva, e nei suoi numerosi scritti. A 14 anni già si dedica alla divulgazione propagandistica. La tipografia è anche il luogo di un’altra passione specifica: la carta stampata, il mondo dei libri. Nel 1897, insieme al fratello Metello Brunone, pubblica un libretto di poesie intitolato “Pensieri”. All’età di vent’anni, attirata dall’Oriente, si trasferisce in Egitto dove si converte alla religione islamica, senza peraltro scalfire la sua fede utopica-libertaria, e al contempo incontra il libraio anarchico fiorentino, Luigi Polli che sposerà nel 1902. I due fonderanno la Casa Editrice Rafanelli-Polli per la quale Leda pubblicherà i seguenti titoli: “Una tragedia”, “Per l’idea nostra”, “Anticlericalismo”, Valide braccia: opuscolo di propaganda contro la costruzione di nuove carceri. Dal 1903 collabora a numerose testate politiche: “La pace” di Ezio Bartalini, “Il Domani” del Cairo, “Il pensiero” di Pietro Gori e Luigi Fabbri, “Il grido della folla” di Nella Giacomelli ed Ettore Molinari, “La Protesta Umana” di Giacomelli-Molinari, “L’Azione Diretta”, “La Questione sociale”, “La Blouse”, “La demolizione”, “Il Novatore Anarchico”, “La Barricata”, “La Donna Libertaria”, “La Libertà”.
Pubblica romanzi popolari di carattere sociale e anticlericale come “La bastarda del principe”, Madre coronata e madre plebea”, “Alle madri italiane”, “Le memorie di un prete”. Continuando a scrivere instancabilmente pamphlet libertari e pacifisti, viene denunciata per istigazione all’antimilitarismo. Nel 1907 scrive “Contro la scuola” e un altro amore entra nella sua vita: Giuseppe Monanni.
Va a vivere a Milano e con lui fonda la Società Editoriale Milanese, pubblicando, tra gli altri, Kropotkin, Malatesta, Stirner. L’animoso rapporto con Carrà troverà forma nel volume “Una donna e un pittore non ancora celebre” pubblicato solo nel 2005 con il titolo “Leda Rafanelli-Carlo Carrà – un romanzo”.
Nel 1913 Leda incontra Benito Mussolini –allora direttore dell’“Avanti” durante una commemorazione della Comune, relazione complessa destinata ad una fine inevitabile. Nel 1915 scriverà a un amico che ormai Mussolini le è nemico. Tale vicenda sarà trasfigurata nel romanzo “Incantamento”. Poi nel 1948, Rizzoli pubblicherà “Una donna e Mussolini”, un epistolario scampato alle perquisizioni fasciste. A partire dagli anni Trenta, Leda vive appartata e scrive libri per ragazzi. Nel 1944 muore il suo unico figlio Marsilio e lei si trasferisce a Genova fino alla scomparsa avvenuta il 13 settembre 1971.
Mauro Macario
Ho amato anche il mio crudele Destino
che mi ha ritolto tutto ciò che credevo di possedere,
che mi ha privato di tutto ciò che mi aveva donato,
che mi ha colpito al cuore solo perché tanto ho amato.
Ma è il mio Destino, e tutto quanto è stato ed è mio, lo amo,
e non lo cambierei con il destino altrui,
fosse pure un Destino di felicità trionfante,
come non cambierei la mia brutta faccia logorata e sfiorita
con la più bella faccia di giovane donna.
Leda Rafanelli |
La storica assoluzione di
Ferlinghetti/Ginsberg
Se dalle parole si impara, se le parole scuotono la coscienza, se le parole hanno la forza di scolpire, se le parole difendono i valori della libertà allora bisogna attentamente ascoltare la sentenza finale del giudice di corte nel film “Urlo”di Rob Epstein e Jefrey Friedman. Si può davvero non più dimenticarla. “La vita non può essere contenuta in un solo schema in cui tutti agiscono allo stesso modo – arringa il giudice – Non esistono due persone che la pensano allo stesso modo, lo stampo da cui provengono può essere lo stesso, ma ci sono variabili in ogni persona…Per questo la libertà di pensiero e di parola è insita in ogni persona e questa libertà va presidiata se vogliamo che il nostro Paese sia libero”.
Il verdetto del giudice è quello che assolve nel 1957 dal reato di oscenità le pagine del poema “Howl” (appunto Urlo) per cui viene inquisito non il suo autore, Allen Ginsberg, ma l’editore Lawrence Ferlinghetti della City Light di San Francisco. Su quel profetico poema pubblicato nel 1955 e scritto da uno dei papà della Beat Generation, la coppia di registi Rob Epstein e Jefrey Friedman – di loro si ricordi “Common Threads (1989), uno dei primi e più riusciti documentari sull’Aids, e “Lo schermo velato” (1995), un interessante e sofferto documento sull’omosessualità tratto da un saggio di Vito Russo – hanno fatto un film bellissimo (ora anche in dvd per la Fandango) con James Franco davvero convincente nei panni di un ventinovenne Ginsberg.
Tratto dagli atti del tribunale e da interviste rilasciate da Allan Ginsberg (1926-1997), il film segue le fase salienti di quel processo che passerà alla storia, dello scontro tra accusa e difesa, tra chi sostiene che il libro veicola contenuti osceni e chi invita ad non alimentare il fuoco dell’ignoranza e far vincere la libertà d’espressione e quella luce dell’intelligenza che permette agli uomini di vedere cose che, seppur visibili, rimangono oscure.
Ma la costruzione della trama di Epstein e Friedman ci porta ad intermittenza anche alla lettura di alcune pagine del libro assemblate ad immagini computerizzate e alla stessa vita-non regolare di Ginsberg. Del bardo profeta e ambasciatore dell’internazionale psichedelica che ha seminato parole di pace in tutto il mondo entrano in gioco la scoperta dell’ omosessualità, gli amori (che gli spezzeranno il cuore) per Neal Cassady e Peter Orlovsky, la poesia come articolazione delle sensazioni, lo scrivere in quanto esercizio meditativo e fatto soggettivo che può coinvolgere corpo ed anima, il senso del valore sociale della vita, la devastazione delle menti migliori di tutta una generazione.
Il film di Epstein e Friedman segue una direzione, una vicenda che è passata alla storia della letteratura accompagnandosi di una verità: che il contenuto di un libro può racchiudere una profezia. Una profezia intesa secondo Ginsberg (un Giobbe della modernità) per “capire e sentire anzitempo qualcosa che si capirà e sentirà meglio molti anni dopo”.
“Urlo” è stato presentato lo scorso anno al Festival di Berlino e al Sundance Film Festival.
Mimmo Mastrangelo
Il tempo della
decrescita
Il tempo è giunto, anzi è già troppo tardi. Stiamo vivendo la sesta estinzione di specie di massa e rispetto alla quinta (quella dei dinosauri) il ritmo è da mille a trentamila volte superiore. Il tempo della decrescita (Serge Latouche e Didier Harpages, Il tempo della decrescita, introduzione di Marco Aime, Eleuthera, Milano 2011, pagg. 112, € 10,00) per scelta è ora. dice Serge Latouche. Fra un po’ non ci sarà nulla da scegliere ma solo razionamento delle risorse e carestie.
Queste le considerazioni di base di un testo che spinge alla riflessione e all’attivazione di un processo di cambiamento. E al di là della necessità, fa notare Marco Aime nella prefazione, il mito fondante dello sviluppo ha creato un immaginario dominante che non permette di vedere il malessere generato dal modello capitalistico. Un cambiamento è possibile solo partendo dalla decolonizzazione del nostro immaginario: “Uscire dall’ideologia mercantile e ripensare alle relazioni che abbiamo instaurato con lo spazio e con il tempo”, scrive Aime, recuperando ciò che Ivan Illich chiamava convivialità. E a questo si rifà anche Latouche quando spiega cosa si intende per decrescita: non rinuncia, non sacrificio, non miseria ma sobrietà e beni relazionali virtuosi.
Non si inneggia ad una riduzione dei consumi in nome di una vita di stenti e patimenti ma si fa notare come gran parte del modello della nostra vita sia basato sullo spreco e sulla convinzione che questo sia l’unico modo per soddisfare i propri bisogni (senza parlare dei sogni, ormai omologati ad un unico standard volto all’iper-consumo).
A questo si riallaccia l’altro significato di tempo, implicito nel titolo. “Certo, viviamo più a lungo (in media), ma senza avere mai il tempo di vivere”. L’orologio calcola il tempo di ogni nostra azione e meccanizza ciò che una volta era legato ai cicli solari e lunari. Tutto diviene (e deve divenire) calcolabile, quantizzabile e viene rapportato al denaro, alla produttività. Il trasporto da un luogo a un altro viene così percepito come perdita di tempo che collega due punti nello spazio: “Tempo perso tra due presenti, tra il dove si viene e il dove si va” scrive Yves Cochet, citato nel libro.
La velocità si tramuta così in mito e l’efficienza delle macchine diviene un modello da emulare. Ma secondo Latouche “abbiamo spinto troppo oltre questo processo di razionalizzazione disumanizzante ed è ora di voltare pagina.
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Serge Latouche |
Qui si inserisce nuovamente la proposta della decrescita, una “strategia” per ripartire da sé e dagli altri, per creare una nuova società che torni a fondarsi sul dono, sullo scambio di competenze e di tempo dedicato a noi. “Ripristinare un rapporto sano con il tempo significa, molto semplicemente, imparare nuovamente ad abitare il mondo e, quindi, liberarsi dalla dipendenza dal lavoro per ritrovare la lentezza, riscoprire i sapori della vita legati ai territori, alla prossimità e al prossimo”.
Un invito non tanto a tornare ad un mitico passato ma al contrario alla creazione di una tradizione rinnovata.
Un discorso interessante, portato avanti a suon di dati, esempi, esperienze virtuose e svolto con l’utilizzo di un linguaggio semplice ed efficace. Il lessico dell’ultima parte del libro inoltre si rivela essere un’utile guida attraverso i concetti e i termini a cui si fa riferimento.
Il nostro slogan è piuttosto questo: “Lavorare meno per vivere meglio!” Meglio promuovere l’otium del popolo che l’oppio dei media.
E.V. |