Degli esami e di come salvarsi la vita
Ho due genitori insegnanti, una sorella insegnante e un compagno preside.
Sono insegnante io stessa. In queste condizioni, per salvarmi ci vuole solo
Lourdes. A crederci. E a cinquantadue anni suonati, non so se è peggio credere nelle virtù salvifiche di Lourdes o nella dignità del mestiere di insegnante.
Ho anche numerosi amici insegnanti. Una di questi non viene pagata da 3 mesi, ha un figlio piccolo e per fortuna un marito che non è disoccupato. La mia amica precaria, di fronte all’insolvenza dello stato, ha pensato di fare ricorso al TAR, ma l’avvocato le ha detto che le conviene organizzarsi per attendere a lungo, praticamente fino all’età pensionabile. E non aspettarsi giustizia. Allora la mia amica ha chiesto: “Che devo fare per avere giustizia? Appellarmi al quinto emendamento?”
“Non siamo negli USA, bella mia” ha risposto l’avvocato, con il quale la mia amica è piuttosto in confidenza. “Al massimo, si fa una class action”.
Alla parola “class”, evocativa del film dell’orrore che è la successione di supplenze in luoghi improbabili che è la vita di un precario, la mia amica se l’è data a gambe. Non la biasimo per questo.
Di recente, si è iscritta a un corso di ceramica, perché a far vasetti si sentiva più gratificata che a cercare di spiegare i rudimenti dell’inglese a un manipolo di psicotici, un paio di autistici e due promesse del calcio. Siccome le promesse non sono mai mantenute, di questi tempi, i due in questione sono già frustrati a sedici anni. È un mondo difficile, il cui unico requisito positivo è quello di poter esser facilmente rimpiazzato da facebook. Una volta, sostenevo che facebook non va bene perché crea un mondo virtuale che nulla ha a che fare con la realtà. Poi qualcuno mi ha fatto notare che neanche l’Italia in cui viviamo ha niente a che fare con la realtà. Allora mi sono arresa e ho pensato che sia giunto il momento di entrare in facebook. Almeno lì non bisogna fare test di ammissione, presentare un curriculum, compilare numerosi moduli, imparare la verbalizzazione elettronica e infine scoprire che dichiarando il falso si riesce nella vita mentre a dire la verità si finisce a farsi le pippe nei cessi. Con questi presupposti, non posso affrontare il mese di giugno.
Perché?
Perché a giugno ci sono gli esami.
Mi ricordano brutte esperienze. Al primo esame all’università, ero talmente agitata che ho perso la parola. Per fortuna ho incontrato un modello di docente che è poi andato fuori produzione e che ha atteso che recuperassi la gestione dei neuroni per interrogarmi. Gliene sarò sempre grata. Al primo concorso ordinario per la scuola media inferiore, mi sono preparata come se dovessi essere ammessa alla NASA. Mi hanno bocciata subito. Al secondo, poiché del tutto idiota non sono, ho capito la lezione e non ho aperto libro. Credo di aver inventato alcuni trascurabili dettagli, tipo il nome di qualche critico e alcune opere inesistenti. Ho superato l’esame brillantemente. Prima di essere integrata nel rutilante mondo dell’accademia, ho partecipato a qualcosa come 13 concorsi. Il penultimo era il 3 agosto, e ci sono andata con la maschera e le pinne, e il desiderio di affondare i piedini santi nella sabbia. E mi ero ormai convinta empiricamente che lo Stato potesse fare a meno di spender denari nei concorsi. Tanto valeva affidarsi al procedimento della paglia più corta. Si sarebbe riusciti a imbrogliare meno.
Ora la domanda è: con questi presupposti, come spiego a mia figlia il modo migliore per affrontare l’esame di terza media? Non glielo spiego, e aspetto che la vita le insegni quel che è meglio fare. La vita o sua sorella più grande. Osso durissimo, quest’ultima. L’anno scorso, di fronte a una crisi di pianto della piccoletta, del tutto inadeguata al lavoro da fare a scuola, si è espressa con la seguente parabola:
“Vedi, sister, la scuola media è il periodo più terribile. È come il Medio Evo. Uno può sopravvivere solo pensando che poi arriva il Rinascimento. Anche se non ho ancora capito in che sequenza cronologica. Comunque non ti preoccupare. La terza media è orrenda, ma già il I anno di superiori è molto meglio. È tutto confuso, un po’ come la fase della Pangea. Hai presente, no? Come quando non ci sono ancora i continenti ed è un tutto indifferenziato. Dopo però si formano i continenti. E uno si riconosce. E arriva il Rinascimento. Che poi sono io”.
Di fronte a questa collana di perle di saggezza, ho taciuto compiaciuta. La saggezza negli adolescenti mi turba sempre, come mi turba – per motivi diversi – l’idealismo nelle persone della mia età.
|
www.flickr.com/photos/gaia_d |
Per esempio, ho pensato sempre che la scuola debba essere pubblica, per un motivo elementare: essa non è scorporabile dalla vita reale, e nella vita reale, la cultura non dev’essere funzionale a quello che l’utente può pagare. Quando racconto queste cose alle mie figlie, di norma mi rispondono: “Va bene, mumis. E com’è che finisce la favola?”
Ho persino lavorato per alcuni anni nella scuola di abilitazione per insegnanti. Ho smesso quando mi sono resa conto che, tra una cosa e l’altra, finivamo per abilitare candidati competenti sui contenuti ma del tutto impreparati a gestire una classe di mostri urlanti, angosciati, ignoranti, multilingue e del tutto inabili a ogni forma di confronto che non vertesse sull’ultimo modello di telefonino. Nessuna prova attitudinale, nessun test, nessuna assistenza psichiatrica, e via dicendo. Una volta, quando è risultato impossibile negare l’abilitazione a un tipo bravissimo ma chiaramente disturbato, ho sognato per una settimana Bowling for Columbine in versione brianzola e poi mi sono dimessa. Esagero, certo. Però il punto è: fare l’insegnante di ruolo è come una malattia autoimmune. Non c’è terapia. Alla lunga, ci si autodistrugge. La sola speranza sarebbe il licenziamento, magari con indennità. Ma il fatto è che per l’insegnamento nella scuola – oltre all’impossibilità prescrittiva di far carriera – vige una clamorosa illicenziabilità: se si fa male il proprio lavoro, la penalità è la rimozione topografica, non professionale.
Si viene estirpati da un posto per andare a far danno in un altro.
E poi uno si chiede a cosa sia ispirato il meccanismo di avvicendamento dei nostri ministri.