Ringrazio anzitutto la Scuola Normale Superiore di Pisa per l’idea di questa giornata dedicata a Franco Serantini: il convegno di oggi che rende onore a quel povero ragazzo e la serata in cui ascolteremo la musica di Francesco Filidei tratta dalla sua opera lirica “N.N.”, ispirata alla vicenda del giovane anarchico ucciso dalla polizia sul Lungarno Gambacorti di questa città nel maggio 1972.
Il mio libro, “Il sovversivo”, che racconta vita e morte di Franco Serantini, fu pubblicato dall’editore Giulio Einaudi nella primavera del 1975. Venendo qui oggi ho pensato a due singolari coincidenze. A presentare “Il sovversivo”, il 23 aprile di quell’anno, nell’Aula Magna della Sapienza, davanti a un pubblico strabocchevole – i giovani della contestazione di quel tempo – furono Nuto Revelli e Lelio Basso. La presenza, tanti anni dopo, di Marco Revelli, figlio di Nuto, il grande scrittore della memoria – la guerra, la pace, i soldati, i contadini, le donne – mi fa riflettere sulla continuità delle generazioni nella loro parte migliore, almeno. Un segno più che simbolico.
Un’altra coincidenza. Francesco Filidei, il musicista autore di N.N., pisano emigrato a Parigi, è nato nel 1973, l’anno dopo la morte di Serantini. Quasi a significare che i tasselli del tempo possono comporsi l’uno nell’altro in una naturale continuità tra passato e presente. Per Filidei, oggi, poi, questo giorno deve rappresentare anche il sognato e amorevole ritorno a casa raccontato nelle loro pagine da tanti scrittori.
Sono passati quasi quarant’anni dalla morte di Franco Serantini e da allora, in Italia e nel mondo, sono accaduti infiniti fatti: la volontà, negli anni Settanta del tragico Novecento, di mutare il destino della comunità, le speranze accese e subito spente dall’insufficienza delle istituzioni e poi dalla violenza del terrorismo che ha cancellato o fatto regredire conquiste politiche costate dolore e fatica. Speranze di nuovo incenerite negli anni Ottanta, fino al mutare del mondo con la caduta del Muro di Berlino. E poi, negli anni Novanta, schematicamente, la corruzione esplosa e poi negata, la vittoria della non politica a vantaggio di chi non conosce o rifiuta le regole di uno Stato di diritto, fino al degrado istituzionale di oggi, grave e pericoloso, al quale non è facile porre rimedio.
L’opinione pubblica è divisa. Da un lato plaudente e acritica, qualsiasi cosa accada nella vita politica anche per insufficienza di informazione. Dall’altro spesso passiva, nascostamente inquieta, con qualche segno di protesta sociale e civile non durevole di fronte a nuove leggi che violano in modo smaccato la Costituzione: il principio fondamentale di uguaglianza dei cittadini.
Se la democrazia è, nonostante tutto, il migliore dei sistemi di governo, bisogna meditare su quel che scrisse Norberto Bobbio in un suo saggio del 1984, “Governo degli uomini e delle leggi”: “Che cosa è la democrazia se non un insieme di regole (le cosiddette regole del gioco) per la soluzione dei conflitti? E in che cosa consiste il buongoverno democratico se non, anzitutto, nel rigoroso rispetto di queste regole? Personalmente non ho dubbi – scrive Bobbio – sulla risposta a queste domande. E proprio perché non ho dubbi, posso concludere tranquillamente che la democrazia è il governo delle leggi per eccellenza.”
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Serantini (Cagliari 1951 – Pisa 1972) |
Quel suo nome ripetuto
Il rispetto delle leggi vale oggi e vale anche per il caso Serantini. Il racconto della sua atroce morte va molto al di là della vita elementare di un ragazzo sardo figlio di nessuno che nella politica ha trovato se stesso e il realizzarsi delle sue passioni. Quel suo nome ripetuto tante volte dopo l’assassinio esce dalle mura di Pisa, penetra nei palazzi dello Stato, il Parlamento, il Governo, il Consiglio superiore della magistratura, coinvolge il principio della separazione dei poteri, i limiti dell’agire fissati dai codici e dalla Costituzione, il primato del diritto, l’indipendenza della magistratura. La vicenda coinvolge anche i principi morali e civili della collettività e le garanzie necessarie per assicurare ai cittadini il rispetto di quegli equilibri indispensabili in uno Stato di diritto. Dopo la morte, Franco Serantini diventa dunque protagonista. Dai verbali dei brigadieri di polizia, ai rapporti dei commissari di pubblica sicurezza, agli interrogatori dei sostituti procuratori della Repubblica, il suo nome lascia tracce sempre più profonde, soprattutto nella scala gerarchica della giustizia: dalle perizie dei medici legali alle sentenze-ordinanze dei giudici istruttori di allora, ai ricorsi e controricorsi della patria del diritto, di girone in girone, diversi tra loro nell’interpretazione dei fatti e nell’applicazione della legge.
La vicenda del ragazzo sardo approda via via al vertice della Corte d’Appello di Firenze, al procuratore generale Mario Calamari, tutore non mascherato dell’esecutivo in carica.
Si apre così un conflitto, affilato, senza risparmio di colpi tra il procuratore generale e il giudice istruttore del Tribunale di Pisa Paolo Funaioli, un magistrato colto, intelligente, stimato per le sue qualità di giurista, per i suoi scrupoli umani e per il rifiuto di ogni indulgenza, come si vorrebbe, in nome della ragion di Stato. Adesso verrebbe certamente accusato di essere “una toga rossa”. Funaioli crede profondamente nell’indipendenza della magistratura. Persino Calamari – definito nel “Sovversivo” personaggio da vetrata medievale, con una visione della giustizia teocratica predicata da un pulpito perennemente infuocato – dichiara di apprezzare “l’intelligenza e la profondità della dottrina” di un magistrato come Funaioli al quale non lesina i suoi strali e che considera un nemico da sconfiggere.
Qual è l’amaro bilancio di una vicenda non soltanto giudiziaria come questa che non ha fatto giustizia e non ha punito gli assassini in uniforme di Franco Serantini? L’accumularsi dei fascicoli, i conflitti tra uomini delle istituzioni, le ossessive avocazioni, sono serviti soltanto a dare credito al dogma che lo Stato è intoccabile, incapace di processare se stesso come uno Stato limpido e forte non dovrebbe aver timore di fare.
I cittadini, si deduce, non sono uguali davanti alla legge, come è acquisito in uno Stato democratico. L’articolo 3 della Costituzione della Repubblica firmata dopo la catastrofe del fascismo e della guerra, il 27 dicembre 1947, di grande rilevanza – la pari dignità sociale dei cittadini davanti alla legge senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali – è rimasto purtroppo un auspicio, una nobile aspirazione. Allora e oggi.
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Pisa, 14 aprile 2011. Ridotto del Teatro Verdi, conferenza
di presentazione dell’opera NN di F. Filidei,
da sinistra a destra: S. Busellato, C. Stajano, C. De Incontrera,
D. Menozzi, M. Revelli e F. Filidei |
Sembra una storia ottocentesca
Franco Serantini nasce a Cagliari il 16 luglio1951. Abbandonato al brefotrofio vi rimane due anni. Poi viene dato in affidamento e due coniugi siciliani. Lui è una guardia di pubblica sicurezza, la moglie possiede qualche tumulo di terra a Campobello di Licata, in provincia di Agrigento, in collina, nella fascia sud orientale della Sicilia, a una ventina di chilometri dal mare, un paese bruciato, di vita grama. La coppia vive felicemente a Cagliari per due anni con il bambino, poi la moglie si ammala in modo grave e tutti e tre partono per la Sicilia. La donna muore nel 1955. Franco viene affidato allora alla famiglia della moglie della guardia, diventato brigadiere di PS. Ma la famiglia si sfascia – malattie, emigrazioni, bisogni materiali – e chiede che Franco venga ricoverato in qualche istituto di assistenza in Sicilia per poterlo andare a trovare. Ma l’amministrazione provinciale di Cagliari, responsabile del destino del ragazzo, nell’aprile 1960 ordina che Franco sia invece affidato all’Istituto del Buon Pastore di Cagliari.
Sembra una storia ottocentesca, questa di Franco Serantini, ai limiti dell’invenzione settaria, priva di ogni luce, colma soltanto di miseria, di violenza, d’ ingiustizia. Fin dalla nascita Serantini conosce ad una ad una e senza pietà le sfortune dei poveri, passa attraverso le catene di sofferenza e di dolore che toccano sempre in sorte agli esclusi: la morte come una condanna che distrugge anche i precari equilibri di sussistenza, le disgrazie famigliari, le malattie, la disoccupazione, i conflitti di interesse tanto più crudi quanto più la roba contestata è modesta, gli affetti carenti come il mangiare, come la speranza.
L’Istituto del Buon Pastore è alla periferia di Cagliari in un quartiere chiamato “Il Giorgino”. Un ghetto sottoproletario, allora, con una desolata aria di abbandono, in un paesaggio nord-africano dove le stagioni sono segnate, dall’estate alla primavera successiva, dall’arrivo dei fenicotteri, una lunga striscia di uccelli bianchi, rosa e rossi che prendono dimora nello stagno di Santa Gilla.
Franco non ha ancora compiuto dieci anni, finisce le elementari. Poi le suore del collegio lo iscrivono alla scuola media “Giuseppe Manno” di Cagliari. È un bambino e poi un ragazzo chiuso, taciturno, infelice. Di carattere duro, difficile, bisognoso d’affetto e d’attenzione, matura nella solitudine i suoi pensieri attorcigliati e contorti. Non è un bravo scolaro e neppure un bravo studente. Ha ormai quindici anni, i suoi rapporti con le suore non sono buoni, il conflitto non ha tregua. A quell’età, negli istituti di assistenza, avviene quasi sempre la rottura con i ricoverati perché le amministrazioni provinciali smettono di pagare le rette. Agli inizi del 1968 le suore del Buon Pastore si rivolgono al giudice del Tribunale dei minorenni, esprimono l’impossibilità di continuare a ospitare Franco nell’Istituto, motivano le ragioni del conflitto con l‘umore del ragazzo, il cattivo carattere, la maleducazione, l’aggressività. Il Tribunale decide allora in questo modo, un capolavoro di umanità e di razionalità: “Siccome la personalità del giovane appare gravemente disturbata per assoluta carenza affettiva e lunga istituzionalizzazione, la personalità del soggetto deve essere bene aiutata con un trattamento affettuosamente comprensivo e sostenitore”.
Il dispositivo della sentenza conclude che Serantini “per rimediare alla lunga istituzionalizzazione” deve essere rinchiuso in un riformatorio. Lo permette una legge fascista, un regio decreto del 1939 allora in vigore, non so se lo sia ancora oggi: “Le case di rieducazione per minorenni sono destinate ai minori che per abitudini contratte o in dipendenza dello stato di abbandono in cui si trovano dànno manifeste prove di traviamento ed appaiono bisognosi di correzione morale”.
Davvero il rimedio più appropriato per aiutare un giovane incensurato che ha avuto una difficile vita. Il sistema più adatto a trasformare onesti ragazzi in criminali.
L’Istituto di osservazione per i minori di Firenze destina Franco Serantini all’Istituto di rieducazione maschile Pietro Thouar di Pisa in regime di semilibertà. L’équipe formata da uno psichiatra, da uno psicologo, da un assistente sociale, dopo un lungo esame, ritiene intelligente il ragazzo sardo. Il suo quoziente intellettuale è di 1,02, il quoziente medio è in genere di 0,70. Il direttore e gli educatori sono pregati di fare in modo di esaudire, al compimento del ventunesimo anno di età, il desiderio di Franco di arruolarsi in marina. Il mare, la libertà, e anche la madre.
Con un profondo senso della solidarietà
Pisa, per Franco Serantini, rappresenta la scoperta della vita. La città lo affascina. Com’è diversa, con quel verde tenero del Campo, il bianco della Cattedrale e del Battistero, la Torre, i monumenti, le piccole strade dei vecchi quartieri, l’Arno, dai posti dove finora è vissuto, i catoi di Campobello di Licata, con la croce di ferro dei Passionisti nella piazza, e poi il fabbricato grigioverde del Buon Pastore al Giorgino di Cagliari dove l‘unico passatempo era guardare le strisce multicolori dei fenicotteri sullo stagno di Santa Gilla.
È il diverso modo di vivere che lo affascina. In Toscana esiste da sempre una pietosa attenzione popolare per gli orfani. In mezzo a quelle migliaia di ragazzi di ogni regione che affollano le strade e le piazze, Franco Serantini, chiuso, introverso com’è, ferito dalla vita, si sente ora uguale agli altri, senza più il marchio del figlio di nessuno. Anche l’essere uno del San Silvestro, l’istituto Thouar che lo ospita, non gli pesa, non gli importa molto dire che è uno del riformatorio. Nessuno o pochi gli badano. È relativamente libero, può uscire anche la sera, fino alle 9 e mezzo.
Certo, non ha mutato di colpo il carattere, è soggetto a sbalzi d’umore, spesso insonne, ribelle per amore e per mancanza di affetti. Ma diventa rapidamente un altro in quel ‘68, nell’esplosione collettiva di protesta, di manifestazioni, di marce, di parole spesso incomprensibili. È orgoglioso, con un profondo senso della solidarietà, come hanno testimoniato quanti l’hanno conosciuto e gli sono stati vicini. La passione per la politica prende anche lui. Ha solo quattro anni di vita, Franco Serantini. Spende bene quelle sue ultime stagioni. La sua vicenda, ricordata anche con patimento tanti decenni dopo, vale in assoluto, simbolo di tutta una generazione, inadeguata forse, utopica, presuntuosa, che dopo ha spesso tradito se stessa, incapace di pesare la consistenza dei rapporti di forza che è poi la politica, ma piena di passione, di voglia di fare.
Pisa è in quegli anni, con Trento e Torino, la capitale della contestazione studentesca. Nel 1967 vengono discusse all’università le “Tesi della Sapienza”, per il diritto allo studio, contro la violenza del sistema, contro la delega di vertice del sindacato. Pochi hanno sospetti sul dilagare della protesta che sommuove allora il mondo, il Maggio francese, soprattutto. Con la rivolta studentesca nascono i gruppi extraparlamentari. A Pisa il più agguerrito è “Il Potere Operaio” con leader di nome. Il clima politico è acceso, le manifestazioni, gli scioperi, le cariche della polizia, i candelotti lacrimogeni, i feriti, qualche morto sono frequenti come il conflitto con il PCI, il grande nemico.
Franco Serantini si trova subito a suo agio in quel gran trambusto. Si è come risvegliato. Va a scuola volentieri, prende la licenza media, mancata in Sardegna, si iscrive all’Istituto professionale di Stato per il commercio che fa conseguire diplomi di contabili, segretari d’azienda, addetti agli uffici turistici.
È attento a tutto e a tutti, come se volesse recuperare un tempo perduto. Studia, legge quel che trova, confusamente, acerbamente, con difficoltà, privo com’è di ogni base di saperi. Non ha dimenticato i torti e le umiliazioni subìti da bambino, è naturalmente dalla parte del progresso sociale e civile. Frequenta la Federazione giovanile comunista, poi la federazione giovanile socialista. Non possiede idee generali, neppure a livello elementare, cerca di supplire con la volontà di capire. Spesso non comprende i linguaggi che devono tener conto delle tattiche partitiche. È una lastra levigata. Rifiuta le prudenze, le contraddizioni, gli opportunismi.
La strage di piazza Fontana, il 12 dicembre 1969, è un evento essenziale per comprendere quegli anni infuocati. Una cesura. Serantini si appassiona di quel che è accaduto a Milano, vuol sempre parlare di Valpreda, di Pinelli, della strage di Stato. Comincia a farsi vedere nella sede di Lotta Continua, è individualista, non accetta neppure le regole più normali del gruppo.
Si dà da fare, il ragazzo sardo. Donatore di sangue, cameriere d’estate a Viareggio, operaio stagionale in una fabbrica di piastrelle. Se non si racconta con minuzia la povera, ma orgogliosa vita di Franco Serantini, non si può comprendere appieno la ferocia della sua morte.
L’esperienza del mercato rosso al Cep, nato da un’idea di Lotta Continua, lo coinvolge come tutto quello di cui si occupa. Un gruppo di ragazzi compra negli orti frutta e verdura e la vende agli abitanti di quel quartiere popolare a prezzi molto inferiori ai negozi. Un’economia primitiva alla Robinson Crusoe. I commercianti della zona protestano, il clima di tensione si fa caldo, la polizia interviene, picchia i ragazzi, fa degli arresti. Franco se la cava a malapena durante una retata.
Il ragazzo sardo continua a leggere, vuol colmare i suoi vuoti, si appassiona a tutti i libri che gli capitano in mano. Compra, chissà come, chissà perché, “Magnati e popolani a Firenze dal 1280 al 1295” di Gaetano Salvemini. La sua è la faticata conquista di quell’istruzione che ha rifiutato e che gli è stata anche negata negli anni acerbi dell’adolescenza. La cultura come vita, strumento essenziale per capire il mondo. Costruita dal nulla sulla cera vergine.
Ha un carattere più aperto, meno difeso. fa la conoscenza di tre giovani coppie della borghesia colta. Lo invitano nelle loro case accoglienti. Sono spiritosi, affettuosi, cercano di dare anche un ordine al suo povero bagaglio culturale. È lieto, geloso di quelle amicizie, felice dell’amabile comprensione di persone così lontane dai mondi conosciuti fino ad allora.
Acquista un quaderno dalla copertina nera, ci scrive sopra tutto quel che gli viene in mente, Valpreda, Pinelli, i fatti della Bussola del ‘68, il ferimento di Soriano Ceccanti, la contestazione, l’autunno caldo. Appiccica sul quaderno articoli di giornale, fotografie, i testi delle canzoni di protesta, ma anche pezzi di saggi sull’esistenza di Dio e sull’immortalità dell’anima.
Frequenta un corso di contabilità d’azienda, fa lavori precari in un ufficio di perforazione schede appaltato dall’ IBM.
Con i suoi guadagni ha messo da parte qualche soldo e ha comprato un Ciao usato color blu. Su e giù per le strade della città, una festa.
La vita e la morte di Franco Serantini, un puntino nella storia del mondo, possono fare da specchio a quel che accade nell’intero mondo.
Il ragazzo sardo abbandona Lotta Continua, detesta i piccoli capi imperiosi, le volontà egemoniche, le gerarchie, le burocrazie. Alla fine del 1971 si avvicina con naturalezza agli anarchici. Ha letto nel frattempo, con i libri sul fascismo, sull’antifascismo e la Resistenza che lo appassionano – il passato è sempre contemporaneo – i testi classici dell’anarchia, Bakunin, Malatesta, Cafiero, Kropotkin. Non è un estremista della violenza, è esuberante, desideroso di agire. Lavora come un dannato a scrivere volantini, li tira al ciclostile, va a distribuirli e a strillarli dove e come può.
I vecchi anarchici che passano le loro giornate immobili nel camerone di via San Martino vicino alla Confraternita della Misericordia, sono colpiti e qualche volta anche disturbati dall’attivismo dei giovani del Gruppo anarchico Pinelli di cui Serantini è l’anima.
Ha pochi anni di vita, Franco Serantini. Un breve conto alla rovescia con la morte, il suo. Il 1972 arriva in fretta, il ragazzo sardo non ha ancora compiuto 21 anni.
La sua fierezza, il suo orgoglio
Il nuovo governo Andreotti non ottiene la fiducia del Senato e si dimette. Il presidente della Repubblica Leone scioglie il Parlamento e indice le elezioni per il 7 e l’8 maggio. A Pisa la campagna elettorale è aspra, il clima politico è avvelenato, si temono incidenti per la giornata di chiusura della campagna elettorale, venerdì 5 maggio. La città sembra in stato d’assedio. Da Roma è arrivato il I Raggruppamento celere, sono di servizio anche i carabinieri paracadutisti. Chiudono come in una tenaglia il posto del comizio, il Largo Ciro Menotti, una piccola piazza del centro crocevia di piccole strade ideale per la guerriglia urbana. Sono in programma un comizio fascista al quale si oppone con durezza Lotta Continua e un comizio della sinistra. Il sindaco, l’amministrazione è di sinistra, cerca di opporsi, inascoltato, all’uso di quel posto pericoloso. Il conflitto esplode subito violento. Sembra che gli agenti di polizia abbiano perso i lumi, loro e chi li comanda. Sparano centinaia di lacrimogeni in ogni direzione, si sentono anche colpi di pistola. I giovani di Lotta Continua hanno costruito barricate, lanciano pietre e bottiglie molotov. Tre ore di aspra guerriglia.
Franco Serantini è immobile, solo – un segno del destino – all’angolo tra il Lungarno Gambacorti e via Mazzini. Avrebbe potuto facilmente fuggire, salvarsi. Gli saltano addosso almeno in dieci poliziotti, lo tempestano di colpi, coi calci dei fucili, i manganelli, i piedi, i pugni, con ferocia, con crudeltà. Manifestano su quel povero ragazzo inerme tutta la loro rabbia, la loro furia, la loro frustrazione. Il suo corpo viene massacrato, al capo, al torace, sulle braccia, sulle spalle. L’esame necroscopico è impressionante, segno di quella terribile violenza. I 55 “rilievi fotografici eseguiti sul cadavere e su preparati istologici di frammenti di visceri prelevati nel corso dell’autopsia” fanno da atroce specchio al linciaggio. Neppure una piccola superficie del corpo di Franco è rimasta intoccata.
Due pagine del “Sovversivo” riproducono parola per parola i risultati ufficiali dell’autopsia. Dario Fo, alla presentazione del libro tenuta a Milano, alla Palazzina Liberty, lesse con voce grave quelle due pagine atroci. Senza un commento. Nel silenzio di ghiaccio di un migliaio di persone.
Anche nella morte Franco Serantini soffre della stessa sfortuna che gli è toccata in vita. Viene arrestato, poco dopo le 8 della sera di quel venerdì 5 maggio. Il commissario di PS annota sul suo verbale quel che gli viene contestato:”manifestazione sediziosa, vilipendio delle forze dell’ordine”. Non ha mosso un dito. Gridava insulti, nient’altro.
Viene portato in una caserma. Non riesce a restar ritto, dicono i testimoni. All’una di notte è rinchiuso nel carcere Don Bosco. Sta visibilmente male, è bianco come un cencio, ha il corpo spezzato. Dopo il mezzogiorno del sabato è interrogato in carcere dal sostituto procuratore della Repubblica Giovanni Sellaroli: non si rende conto che Franco sta morendo.
“Chiesto all’imputato – recita il verbale – per quale ragione si era recato nel luogo della città dove si verificarono i tumulti, risponde:”Ci andai perché ci si crede”. C’è tutto il carattere di Franco Serantini in questa risposta,la sua fierezza, il suo orgoglio.
“Chiesto al’imputato in che cosa crede, risponde:’Sono anarchico’”. Andò al comizio come “un cane sciolto”. Sta male, non riesce neppure a tener su la testa, risponde alle domande del magistrato con il capo appoggiato al tavolo. Viene chiuso in una cella di isolamento. Dev’essere considerato pericoloso un giovane ridotto in quello stato.
Un medico frettoloso lo visita nell’infermeria del carcere alle 4 e mezzo del pomeriggio. Gli prescrive:”Sympatol-Cortigen, borsa di ghiaccio in permanenza”.
Anche un profano capirebbe che il ragazzo ha la testa rotta o qualcosa di molto grave, ma non risulta che gli sia stata misurata nemmeno la pressione arteriosa, la frequenza cardiaca, la temperatura, la reattività della pupilla alla luce, prove che avrebbero rivelato subito la drammaticità delle condizioni del detenuto. Dentro il carcere Don Bosco, tra l’altro, funziona un attrezzato centro medico-specialistico adatto a ogni genere di intervento. L’ospedale è vicino.
Franco Serantini non viene ricoverato, non gli viene fatta una radiografia, viene semplicemente rimandato in cella da dove era venuto. Ma entro sera avrà la borsa di ghiaccio da mettere sul capo prescritta dal medico.
Muore alle 9,45 del 7 maggio 1972. Il certificato di morte parla di emorragia cerebrale. Tutto qui.
Una doppia morte
La sorte, se così si può dire, seguita a infierire su Franco Serantini. Si tenta di seppellirlo in fretta, di nascosto. Manca il nulla osta del procuratore della Repubblica, non sono neppure passate le 24 ore prescritte dal regolamento. L’impiegato dello Stato civile del Comune fa quel che deve, rifiuta di firmare l’autorizzazione e il tentativo va a monte.
Non è finita per Serantini. Il 25 ottobre di quell’anno, quando viene depositata la perizia medico-legale, subisce un altro affronto. Quasi a dire che Franco se l’è voluta la sua morte, visto che anche fisicamente non era uguale agli altri. È scritto nella perizia, firmata da illustri luminari che Serantini Franco era “portatore di una voluminosa milza”, da bambino, infatti, aveva avuto la malaria e le ossa della sua testa – scrivono i periti – erano più sottili del normale: la diploe – lo strato di tessuto situato tra le ossa del cranio – di Franco Serantini era di 0,30 centimetri di spessore invece di 0,40, 0,45 e quindi aveva una minore resistenza ai colpi.
Laura Conti, medico e scrittore, replica beffarda sull’“Unità“ dopo la pubblicazione del “Sovversivo”, il 5 maggio 1975: “Si potrebbero invitare i suddetti periti medico-legali a rileggersi non già i numeri più recenti delle riviste mediche più sofisticate, ma un aureo libretto ippocratico di 2500 anni fa, ‘Le ferite della testa’, che comincia proprio con queste parole: “Le ferite degli uomini non sono affatto simili le une alle altre”, cosa della quale il medico veniva invitato a tener conto anche nella scelta del trapano: Ippocrate, se il paziente aveva ossa più sottili del normale, sconsigliava di adoprare il trapano a mano specificando anche le precauzioni alle quali ci si doveva attenere”.
Anche uno studente di medicina – osserva Laura Conti – si sarebbe reso conto che la furia sadico-criminale della polizia doveva aver provocato – il torpore, l’impossibilità di tenere la testa levata, altri comportamenti visibili – un ematoma endocranico. Operabile, salvabile.
La morte di Franco Serantini provoca moti di sdegno, appelli, denunce, interpellanze parlamentari, interventi di tutti i giornali della sinistra, dai fogli anarchici, all’“Unità“, all’“Avanti!”, al “Manifesto”. Poesie, ritratti, canzoni ricordano il ragazzo sardo.
Umberto Terracini, che ha passato vent’anni nelle prigioni fasciste ed è un buon conoscitore dei regolamenti carcerari, scrive su “Rinascita”, subito dopo la morte di Franco, un articolo pieno di indignazione. Sarà incriminato per vilipendio dell’ordine giudiziario e delle forze armate dello Stato:
“Questa volta, diciamolo, il nostro animo insorge inorridito e la coscienza invoca a gran voce severe pronte sanzioni non soltanto perché dinanzi a noi c’è un altro morto ammazzato dalla polizia che segna di sanguigno l’aspro cammino che il popolo italiano batte e ribatte per la difesa delle proprie libertà contro l’ignavia colpevole dei governanti e la criminalità di ritorno della ribalderia fascista, ma anche per il modo crudelissimo dell’ammazzamento e per la rivelazione ch’esso ci ha fatto del grado estremo di avvilimento a cui il regime ha portato, tra intrighi tenebrosi di complici omertà, il potere statuale della Repubblica.
Perché a Pisa, a perpetrare l’orribile assassinio di Franco Serantini, lavoratore studente, e a tentare di mandarlo impunito, si sono indubbiamente dati voce e mano, non senza un qualche ammiccamento da Roma, tutte le componenti del suo poderoso apparato repressivo: polizia, magistratura e galera. I poliziotti hanno infatti massacrato a mazzate il giovane sventurato; i carcerieri, in complicità con i vari funzionari della prigione, lo hanno abbandonato senza cure nella sua straziante agonia; e infine un giudice ha creduto di gettare sull’atroce dramma la gelida coltre burocratica della sua verbalizzata indifferenza, fingendo di non accorgersi che interrogava un morente raccogliendone la deposizione solo più ad memoriam (...)”.
A Franco Serantini è toccata una doppia morte. La morte selvaggia a opera della polizia e la morte decretata dalle istituzioni che non hanno fatto giustizia, tra conflitti giudiziari, avocazioni, tentati trasferimenti di magistrati, reticenze, bugie. Ne ho accennato nella prima parte di questo mio intervento.
Non tutti gli uomini dello Stato, anche in questo caso, hanno operato nello stesso disdicevole modo. C’è anche l’altra Italia. Vorrei ricordare i magistrati Paolo Funaioli, morto da qualche anno, e l’allora pretore Salvatore Senese ora presidente di sezione in Cassazione, che si batterono con coraggio, da leali servitori dello Stato e della legge che ne è il cardine. Vorrei ricordare anche l’allora commissario di Pubblica sicurezza Giuseppe Pironomonte, il funzionario che arrestò Serantini togliendolo dalle mani degli agenti assatanati di violenza. Subito dopo la morte del ragazzo sardo, ebbe una profonda crisi di coscienza e diede le dimissioni dalla polizia. Riuscii a parlargli a Roma. Lavorava come impiegato di gruppo B in un ministero. Mi confidò che in casa conservava una fotografia di Franco Serantini.
Se almeno la morte del ragazzo sardo fosse servita a evitare morti atroci venute dopo, a impedire violazioni della legge e della Costituzione della Repubblica, la somma Carta che si fa di tutto in questi anni per cancellare! Non è accaduto. Uomini dello Stato, il cui compito è quello di garantire la sicurezza dei cittadini, sono risultati responsabili di gravi illegalità. Il più delle volte non hanno pagato alcuno scotto, quando non ne hanno tratto vantaggi di carriera.
Qualche caso degli ultimi anni. Devo questi dati a Luigi Manconi, presidente dell’Associazione “A buon diritto” che ha raccolto una copiosa documentazione di vite violate. 1700 morti nelle carceri in dieci anni, un terzo suicidi.
Genova, 20 luglio 2001. La morte di Carlo Giuliani, 23 anni, ucciso da un carabiniere durante le manifestazioni del G8, in piazza Alimonda. E quel che accadde in quei giorni – indecenti rigurgiti fascisti – alla scuola Diaz e alla caserma di Bolzaneto.
Ferrara, 25 settembre 2005. Federico Aldrovandi, 18 anni, ucciso in una strada della città da quattro agenti di polizia, “vittima di uno scontro fisico violento” – dicono i documenti – senza una ragione. 54 lesioni sul corpo del giovane. I poliziotti sono stati condannati per eccesso colposo.
Castiglione delle Stiviere (Mantova). 16 novembre 2005. Katiuscia Favero, 32 anni, morta nell’ospedale psichiatrico giudiziario, il collo dentro un cappio ricavato da un lenzuolo bagnato legato a una grata malferma. Anche in questo caso ombre e omissioni.
Roma. Ospedale Sandro Pertini. 22 ottobre 2009. Stefano Cucchi, 31 anni, “trovato morto“ all’interno del reparto protetto dell’ospedale. La sua è una lunga odissea tra caserme, prigioni, ospedali, celle di sicurezza, ambulatori, infermerie, una cella del carcere di Regina Coeli, il pronto soccorso del Fatebenefratelli. Dodici stazioni di una Via Crucis. Il processo è in corso, per il coraggio della famiglia, la sorella, soprattutto. Come viene a sapere la madre di Cucchi della morte del figlio? “Signora, dobbiamo farle firmare dei documenti” le dicono i carabinieri sulla porta di casa. E lei:”Che cosa devo firmare?” “La notifica del decreto del pubblico ministero che autorizza la nomina di un consulente di parte per eseguire l’autopsia”.
La città è partecipe dolente
Dalla vita, Franco Serantini ha avuto soltanto un dono, il funerale. Mi sia permesso, per chiudere questo ricordo del ragazzo sardo, di leggere la pagina in cui nel “Sovversivo” lo racconto.
“Sulla bara è stesa la bandiera anarchica, rossa e nera. I compagni la portano sulle spalle, sembra che l’accarezzino con la guancia. Le migliaia di bandiere del corteo, rosse, rosse e nere, nere con la “A” rossa, formano come una gigantesca rastrelliera di lance, le facce sono minacciose, il dolore si mescola alla rabbia.
Il funerale di Franco Serantini, martedì 9 maggio 1972: un misto di sfacelo e di orgoglio, di tensione e di consapevolezza che ancora una volta è finita, per uno, forse per tutti. Ci sono i ragazzi delle manifestazioni, delle marce, dei sit-in, della protesta, coi giubbotti, i maglioni, i blue-jeans, le barbe, i berretti cinesi, ci sono gli anarchici di tutta la Toscana, alcuni, i più anziani, con i cravattoni neri, ci sono il sindaco, i deputati della sinistra, i sindacalisti, i comunisti, i socialisti, i giovani repubblicani.
Una ragazza assorta, che cammina proprio davanti alla bara, tiene con le due mani un mazzo di gladioli rossi. I netturbini reggono la loro corona, un’altra corona la portano i ragazzi del riformatorio. La corona della giunta comunale è di calle bianche, tenuta alta dai vigili urbani. I detenuti del Don Bosco hanno inviato delle margherite, dalla massa di teste spuntano cuscini di viole, di rose, di garofani.(...)
Il funerale si muove dall’obitorio davanti all’orto botanico in via Roma. Serantini è rimasto per molte ore nudo, il suo vestito era stato sequestrato per la perizia e lui non ne possedeva un altro. Poi è arrivato un compagno con una giacca, un paio di pantaloni e una rosa rossa da mettergli sul petto.
La città è partecipe, dolente, il popolo porta fiori, le donne sostituiscono la madre ignota e piangono il figlio di nessuno. Il corteo, che svolta nel Campo dei Miracoli, è di una cupa suggestione. Il rosso e il nero delle bandiere e le migliaia di pugni levati verso il sole pomeridiano fanno sembrare ancora più candido e immoto il marmo della Cattedrale, della torre, del battistero e più morbido il verde del prato. C’è un’atmosfera di attesa solenne, c’è un gran silenzio, rotto dal rullare dei passi”.