Il funerale |
Ipswich, Londra,
Lunedì 1° marzo 2010 |
Colin Ward era un anarchico, un giornalista, autore di libri sull’architettura, sul lavoro, l’infanzia, l’istruzione, la storia sociale e molti altri temi importanti per chi aspira a un mondo migliore. Era un uomo tranquillo, di grande integrità, che si era guadagnato l’ammirazione e l’affetto di lettori in tutto il mondo, ed è stato uno tra i pensatori più influenti della sua generazione.
Al suo funerale, il 1° marzo 2010, parenti e amici furono invitati a ricordarlo e i loro discorsi costituiscono un primo capitolo di questa breve raccolta. Il 10 luglio dello stesso anno si tenne nella Conway Hall di Londra una riunione commemorativa, e nella seconda parte sono presentati i contributi offerti in quell’occasione. Infine l’opuscolo contiene una bibliografia scelta delle principali pubblicazioni di Colin.
Discorso di apertura
Ben Ward
Buon giorno a tutti. Come sapete, oggi siamo qui per celebrare la vita di Colin e per salutarlo. Ero andato con lui a qualche funerale e lui diceva sempre che quelle erano occasioni liete, occasioni per ritrovarsi insieme con amici e familiari. Con quest’idea in mente, abbiamo organizzato un servizio che speriamo sarebbe piaciuto a Colin e che ci auguriamo faccia sorridere un poco anche voi.
Colin è vissuto a Londra fino a quando ha compiuto 55 anni (tranne per i cinque anni di servizio militare tra il 1942 e il 1947) e i trent’anni successivi nel Suffolk. Dunque non si è mosso tanto. Ma le sue idee, il suo spirito e la sua speciale personalità hanno viaggiato in lungo e in largo.
Una delle sue frasi abituali, soprattutto quando gli veniva offerto un panino in più a pranzo o Harriet gli serviva una seconda volta una delle deliziose pietanze che gli preparava, era: “Pensiamo agli altri.” Per circa un’ora ignoreremo questa sua esortazione e penseremo solo a lui.
Vorrei invitare George West a dire qualche parola. Per trent’anni George telefonava a Colin due volte alla settimana, ma il loro rapporto non si limitava a questo, come sentirete tra poco.
Un’amicizia dal ritmo stabile
George West
Ho conosciuto Colin nel novembre del 1950. Facevamo lo stesso percorso per andare in ufficio, dalla stazione della metropolitana di Gant’s Hill, la Shangri-la dell’Essex. Per sessant’anni abbiamo goduto insieme delle nostre esistenze complicate. Solo la poesia riesce a cogliere l’essenza di una persona, e io non sono un poeta. I miei ricordi non sono di vertici e abissi, ma di un’amicizia dall’andamento stabile. Colin era un uomo che non aveva in sé nessun malanimo, nessuna gelosia o invidia. Era una persona virtuosa? Non saprei dire, ma le sue azioni nascevano da quello stesso seme. È così che lo vedo ora, al presente, perché ci siamo costruiti a vicenda e lui è parte di me.
L’ufficio in cui lavoravamo non era grande, circa otto addetti che progettavano case popolari con impegno e passione. All’epoca in ufficio c’era un certo entusiasmo per coltivare piante di avocado. Colin e io pensammo di doverci provare anche noi, e la storia è cominciata così. Siamo andato dall’ortolano vicino, tra Davis Street e Oxford Street, un posto che sembra una cittadina.
La nostra idea era di comprare un avocado, toglierne tanti semi e far crescere tante piante. Ricorderete che nel 1950 l’avocado era un prodotto tra i più esotici. Riuscimmo a trovarlo e a comprarlo e ci dirigemmo trionfanti in ufficio. A una signora davanti a noi cadde la borsa. Colin si fece subito avanti, raccolse la borsa e la porse gentilmente alla donna. Aspettò un po’, poi disse: “Potrebbe dirmi grazie.” E quella gli diete un pugno nello stomaco!
In ufficio tagliammo l’avocado e restammo proprio male scoprendo che aveva un unico seme. Erano giorni semplici e ingenui.
Bene! Celebriamo il ricordo di Colin, riconosciamo con gioia il nostro debito verso quell’uomo gentile.
Un’influenza costante
John Pilgrim
Per quanto certe siano le nostre aspettative.
Il momento previsto può essere inatteso.
Quando arriva. Viene quando siamo assorbiti da altre faccende diversamente urgenti.
Queste parole tratte da Assassino nella cattedrale, hanno oggi un suono particolare. Stavo scrivendo il necrologio di un altro amico, John Rety, quando ho saputo che Colin Ward era morto. Sono entrambi presenti nella mia mente. Era stato John Rety, che allora dirigeva una rivista underground che si chiamava Intimate Review, a chiedermi di andare al Malatesta Club.
“Corre voce” mi disse in tono cospiratorio “che ci vadano gli anarchici. Vedi che cosa puoi scoprirci.” Non avendo idea di che cosa fossero gli anarchici, ci andai con qualche trepidazione. Lì rimasi così colpito da Philip Samson, che presi una copia di Freedom. Poi, quando Colin lanciò Anarchy, mi abbonai anche a quella rivista.
All’epoca avevo una bancarella di libri in Charing Cross Road. Un giorno ci passò Colin Ward, si mise a esaminare gli scaffali della fantascienza e mi chiese di scrivere un pezzo sull’argomento per la sua rivista. In seguito, una versione riveduta di quell’articolo mi fece guadagnare una borsa di studio per adulti all’università. Questa importante svolta nella mia vita era stato un diretto risultato dell’intervento spontaneo e generoso di Colin.
E la cosa non si è fermata lì. In un primo tempo avevo intenzione di studiare storia, ma su Anarchy leggevo articoli di quelli che conoscevo come il gruppo di sociologi di Colin. Jock Young, David Downes, Stan Cohen, Laurie Taylor, che poi sarebbero diventati personalità di rilievo. Per questo poi scelsi di studiare sociologia e politica.
Colin mi ha costantemente influenzato. Quando mi chiesero di intervenire sul tema dell’anarchia a una conferenza a Hull, alla base del mio intervento scelsi il suo libro Anarchia come organizzazione.
Ci siamo rivisti quando mi sono trasferito nel Suffolk. Siccome aveva problemi di tempo, mi chiese di stendere un ricordo di Ron Fletcher, ex docente di sociologia a York e mio commissario esterno agli esami a Hull. “Non lo conoscevo bene” gli dissi. “L’ho solo visto salire in macchina una volta.” “Sarà sufficiente” mi ha risposto. “E poi so che hai i suoi libri.” Così mi ha fatto ricominciare a scrivere. Si può dire che ha influenzato in modo decisamente diretto al mia vita.
La cosa più importante è che Colin ha elaborato una teoria dell’organizzazione e di un auspicabile cambiamento sociale molto più sensata di certe idee calate dall’alto delle ideologie ufficiali. Non è esagerato dire che le sue idee sulle abitazioni, sull’istruzione, sulle strutture non ufficiali della vita quotidiana hanno influenzato il pensiero di tante persone in tutto il mondo.
Sarebbe stato particolarmente giusto affidargli la cattedra di politica sociale alla London School of Economics. Era un autodidatta, avendo abbandonato gli studi senza diplomarsi, come il fondatore di quel dipartimento, Richard Titmus e, come quest’ultimo, ha lasciato un segno grazie al suo puro intuito.
Credo che Colin si troverebbe d’accordo con un altro personaggio di Assassinio nella cattedrale che dice:
Non vedo nulla di definitivo nell’arte del governo temporale.
Ma violenza, la doppiezza e la frequente malversazione.
Hanno una sola regola: prendere il potere e tenerselo.
Non fa venire in mente qualcosa oggi?
Avevo qualche riserva sul fatto di citare due volte T.S. Eliot, ma credo che il meraviglioso eclettismo di Colin avrebbe preso la cosa per il verso giusto. Dopo tutto, era riuscito a ricavare molto del proprio pensiero sociologico da un teologo ebraico che si chiamava Martin Buber.
Non so bene come avrebbe reagito allo spettacolo di un conservatore, primo ministro in pectore, che canta le lodi del controllo operaio e del mutuo aiuto. Ho il sospetto che non l’avrebbe considerato un segnale del fatto che il mondo che auspicava stava per esserci regalato dal comitato centrale dei Tory. Le sue parole d’ordine erano federalismo, mutualismo, cooperazione e comunità.
Colin ha detto che le sue idee provengono da Pëtr Kropotkin e da Gustav Landauer. L’understatement era un tratto tipico del suo carattere. La sua originalità sta nei collegamenti che faceva, applicando le idee di coloro che l’avevano influenzato ai problemi pratici del ventesimo e del ventunesimo secolo. Riusciva ad essere preveggente in modo incredibile. Quarant’anni fa segnalò l’approssimarsi dei problemi del caro casa. E ovviamente fu tra i primi a cogliere la crisi emergente dell’acqua.
Il suo genio stava nel creare connessioni. Aveva soprattutto una enorme fantasia in campo sociale. Ha detto Wright Mills: “La fantasia fa comprendere la storia e la geografia, e le relazioni tra entrambe nella società.” Colin possedeva quel tipo di fantasia. Lo ha dimostrato in una trentina di libri e in un numero infinito di conferenze e articoli. La gente prendeva nota e le cose poi procedevano in modo diverso. Aveva avviato (o riavviato se preferite) una tradizione di ripensamento radicale di un sapere tradizionale.
Il mondo è un posto migliore perché ci ha vissuto uno come Colin Ward. Era e rimane un esempio per tutti noi.
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Colin Ward |
Com’è stato avere un papà come Colin Ward
Ben Ward
Mentre io sono il suo unico figlio biologico, Colin, in realtà, ha avuto un ruolo importante nella crescita di cinque figli in totale. Alan e Doug Balfour negli anni cinquanta e sessanta, Barney e Tom Unwin negli anni sessanta e settanta e me negli anni settanta e ottanta.
Ha contribuito in modi diversi al nostro benessere, aiutando Doug nel suo apprendistato da carpentiere, ha spinto Alan a fare ricerche e a scrivere sulla musica blues, si è legato a Tom grazie al suo libro Anarchy in Action, e ha sostenuto Barney e me venendoci ad ascoltare quando suonavamo nei pub.
Colin era un genitore molto gentile, che non interferiva. Se i suoi figli tralignavano, invece di infuriarsi, di sgridarci o di darcele, lasciava che ci capitasse quello che doveva succedere in seguito alle nostre azioni. Se ci mettevamo in compagnie sbagliate, lasciava che ce la sbrogliassimo da soli, senza manifestare la sua disapprovazione e senza indurci così a ribellarci ancora di più. È probabile che certi personaggi che ci portavamo a casa, invece di farlo indignare, lo facessero sorridere.
Un buon esempio del carattere comprensivo e disponibile di Colin può essere questa storia che ha ricordato Barney, risalente alla metà degli anni settanta.
Un pomeriggio Barney e Tom se ne erano andati a tirare qualche calcio al pallone al Wandsworth Park, nella zona sud-est di Londra, quando, lungo la strada, uno dei due riuscì a prendere in pieno una finestra sulla facciata di una casa. Saltò fuori il proprietario che li prese a male parole, pretendendo di farsi dire dove abitavano. I ragazzi glielo dissero, poi si affrettarono nel parco e rimasero a giocare fino a tardi, per rimandare il più a lungo possibile il momento terribile del rientro a casa e della musica che avrebbero dovuto ascoltare.
Raccolto tutto il coraggio per tornare, trovarono l’uomo al quale avevano rotto la finestra seduto a tavola con Colin e Harriet a bere vino rosso. Colin aveva scoperto che quel tizio fabbricava organetti e se l’era fatto immediatamente amico, presumibilmente dopo aver pagato i danni senza fare una piega. Riguardo alla finestra rotta, non gli uscì di bocca nemmeno una parola con i ragazzi.
Magari vi chiederete se Colin abbia mai partecipato alle nostre improvvisate partite di pallone. Avrebbe potuto, solo che nel suo corpo non c’era nemmeno un ossicino competitivo. Non era interessato a nessun tipo di sport o di gioco, ma se era costretto a parteggiare per qualcuno, si metteva sempre dalla parte dei più scalcinati, fingendo di tifare per squadre di calcio come l’Accriginton Stanley o la Hamilton Academical, probabilmente perché in queste vedeva eterni combattenti… o forse semplicemente perché gli piacevano i nomi.
Il suo modo di insegnarci la distinzione tra giusto e sbagliato era guidato dall’esempio e non dalle prediche. Per esempio, viveva molto semplicemente. Se qualcuno si prendeva il disturbo di cucinargli qualche pietanza, diceva sempre che era “deliziosa”, talora ancor prima di averla assaggiata.
Quando viveva nel Suffolk meridionale, se doveva andare a Londra per un giorno, faceva a piedi un chilometro fino alla fermata dell’autobus, prendeva la linea per Ipswich e di lì il treno, invece di chiedere un passaggio fino a Colchester a me o alla mamma, rendendo così il viaggio più breve e più economico.
Se certe volte qualcuno gli chiedeva come sarebbe ritornato da Hadleigh, dove c’era il posto più vicino per fare fotocopie, a circa cinque chilometri da casa, rispondeva che sarebbe andato a piedi, “come Dio ha voluto che andassi”.
Era un appassionato camminatore e un entusiasta utente dei mezzi pubblici, per mangiare e bere non faceva mai il difficile, non si considerava superiore a nessuno. Qualità che non ha imposto a noi, che però potevamo osservarle nel suo comportamento tutti i giorni. E poi gli piacevano tanto i gatti…
Non sareste sorpresi a sapere che ci ha aiutati tutti nei compiti a casa. Doug ricevette i suoi suggerimenti per un tema che doveva fare su Isambard Kingdom Brunel. Alan ha ereditato da lui lo stile accurato e i metodi per rendere gradevoli le presentazioni del suo progetto per il fiume Wandle nel 1960. Trent’anni dopo, ero sul punto di andare all’università, ma non avevo deciso se studiare musica o filosofia. Quando gli espressi il mio dilemma, Colin andò alla macchina da scrivere e tornò con questo messaggio:
“Il mondo è pieno di filosofi e pieno di musicisti. Ma chi preferiscono ascoltare tutti?”
Lasciava così sottintendere che mentre la filosofia era una disciplina esoterica, accessibile solo a grandi cervelloni, la musica andava in realtà a beneficio di tutti.
Forse la qualità che meglio riassume i miei ricordi di Colin e che per fortuna non perse mai, anche quando tutto stava cedendo in lui, era il suo senso dell’umorismo.
Posso immaginarmelo ancora alla sua macchina da scrivere o seduto a tavola, mentre riflette su qualcosa, con una sigaretta Craven A tra le dita, e poi io mi avvicinavo e di colpo la sua espressione cambiava, mi sorrideva e cercava di farmi ridere. Ogni volta che si presentava un mio amico, gli dava un soprannome, come “il Grande Pipe” o “Moore il Grande” e cercava di far ridere anche lui.
Infine, come nonno vero o acquisito, Colin era prima di tutto protettivo, preoccupato di tenere lontano dai piccini gli insetti molesti, i ragni e i topi, e poi, quando i nipoti erano ormai adolescenti e tendevano a imporsi nella conversazione, li lasciava fare, si sedeva da parte e sorrideva in silenzio.
Credo che siamo stati proprio fortunati a crescere accanto a una persona così paziente e generosa, un vero uomo di pace.
Nescafé e una Craven A
David Downes
Ho conosciuto Colin tramite Sue, mia moglie, che allora insegnava a Woodberry Down, una delle prime scuole onnicomprensive, dalla fine degli anni cinquanta fino al 1961.
Una sua collega era Frances Sokolov, e fu lei che ci presentò John Hewetson (un uomo fantastico il quale, dato che abitavamo a Bermondsey, diventò il nostro medico di famiglia per qualche tempo), Philip Sansom e Colin. Non avevo mai conosciuto persone come loro. Mettevano in discussione ogni manifestazione di conformismo e fu fin da subito chiaro che soprattutto Colin aveva un’idea fuori del comune non solo di come avrebbero dovuto essere la vita e la società per essere buone, ma che avrebbero potuto esserlo qui e ora. Discutevano animatamente di arte, scienza, musica, idee di cambiamento della società, senza quella seriosa tetraggine che ero solito vedere nella sinistra. Avevano un grande senso del ridicolo, ma non si fecero beffe dei miei maldestri tentativi di ricerca sociologica sulla criminalità, ma li presero sul serio. Colin pubblicò qualche articolo e qualche recensione che scrissi sulla delinquenza, la giustizia e la scuola su Anarchy, una rivista i cui articoli erano spesso scritti da lui e firmati con pseudonimi ispirati ai nomi delle vie dove aveva abitato. Quel periodico le cui vivaci copertine erano realizzate per lo più da Rufus Segar, non mancava mai di cogliere la fantasia e lo spirito dei tempi in cui vivevamo. Pur non potendo affermare di essere un anarchico fatto e finito, piano piano finii per rendermi conto che il senso del lavoro di Colin, coltivare e nutrire le idee anarchiche di mutuo aiuto e di iniziativa cooperativa alla base di ogni istituzione, era la migliore espressione di socialismo che conoscessi. Era inoltre una filosofia che si poteva vivere nel presente, senza aspettare qualche remota alba rivoluzionaria, invariabilmente falsa. Erano questi gli ideali che esprimeva con tanta eloquenza nei libri, dal suo primo del 1973, tanto acclamato e tradotto, Anarchy in Action, fino all’ultimo e bellissimo Anarchism: A Very Short Introduction, del 2004.
È stato proprio un bel colpo di fortuna avere conosciuto Colin relativamente presto, ed è stato un continuo piacere continuare a frequentarci, con i nostri figli, in qualche incontro che lui e Harriet organizzavano nella loro casa di Putney. Tra le tante belle qualità di lui che apprezzavamo c’erano la sua generosità e il suo senso dell’umorismo. Le sue idee hanno avuto sempre una certa risonanza, soprattutto in Italia, dove all’inizio degli anni novanta era stato un ospite d’onore a una conferenza sull’anarchismo a Bologna. Un’amica italiana che era venuta in Inghilterra per fare ricerche sul femminismo russo post-rivoluzionario era ansiosissima di conoscerlo. Dopo aver chiacchierato con lui per un certo tempo, se ne era andata con la mente che ribolliva di idee e con parecchi libri che Colin le aveva prestato o regalato, uno dei quali era l’edizione originale di La mia disillusione in Russia, con la firma di Emma Goldman. “Spero che ti ritorni indietro” dissi a Colin. “Certo che sì” mi rispose. E il libro fu restituito davvero, dopo qualche mese. Di un simile aiuto da Colin sono stati beneficiati innumerevoli visitatori e studenti, non ultima Judith Suissa, la figlia di Stan Cohen, che, solo pochi anni fa, ha scritto una tesi di dottorato, ora un libro, sulle idee anarchiche e l’istruzione.
Lo spirito di Colin era memorabile. Mi tormentavo da una decina di anni per trovare il titolo per un libro sul gioco d’azzardo. Colin se ne uscì subito così: “Che ne dici di Uno scemo e i suoi soldi?” Rimpiango di non averlo utilizzato: avrebbe venduto molte più copie. Durante una sua visita a Londra si fermò a dormire da noi a Wandsworth: gli domandammo che cosa avrebbe gradito per colazione. La risposta fu: “Nescafé e una Craven A.”
Un raro elogio di Colin è venuto da Stan Cohen, autore di saggi classici come Folk Devils and Moral Panics. Negli anni sessanta Colin aveva pubblicato alcuni suoi articoli su Anarchy. Nella sua stanza alla London School of Economics Stan tiene una raccolta di fotografie formato cartolina di varie persone, un pantheon molto selezionato di figure che ammira: Samuel Beckett, Noam Chomsky, Nelson Mandela e, non ultimo, George Orwell. Un giorno, mentre le osservavo, gli chiesi di chi gli sarebbe piaciuto scrivere la biografia, se ne avesse avuto l’opportunità. Anche se la sua foto non figurava tra quelle, mi rispose: Colin Ward.
La riunione
commemorativa |
Conway Hall, Londra,
Sabato 10 luglio 2010 |
Indirizzo di benvenuto
e introduzione
Ken Worpole
Permettetemi di cominciare dando il benvenuto a voi tutti che siete convenuti numerosi nella Conway Hall questo pomeriggio, per ricordare la vita e le opere di Colin Ward, un amico, un collega (e coscienza politica) di tanti di noi qui presenti.
Ho conosciuto Colin nel 1973, quando venne a tenere una conferenza al Centre for Urban Studies di Islington, dove frequentavo un corso di formazione per insegnanti di Londra. A differenza di molti altri oratori, che tendevano a presentare il proprio sapere come frutto di dure ricerche, lo stile affabile e aneddotico di Colin all’inizio sembrava privo di serietà e sostanza; eppure alla fine del suo contributo noi ci sentimmo sostenuti e confortati nel nostro lavoro di insegnanti… e completamente disarmati. La cosa più importante è che riesco ancora a ricordarmi, quasi quarant’anni dopo, gran parte della conferenza, anche se una parte degli argomenti trattati ricomparve in un suo libro fondamentale, Il bambino e la città, pubblicato nel 1978, e da allora continuamente ristampato. Il pubblico era rimasto completamente conquistato dall’entusiasmo di Colin per le consuetudini di vita per la strada e nei campi gioco, come per le tante nozioni pratiche e di socializzazione che vi si apprendono.
Dopo di che mi misi a frequentare Colin abbastanza regolarmente, spesso alle feste di New Society o di New Statesman, poi negli ultimi dieci anni, come ospite, con mia moglie Larraine, a casa di Colin e Harriet a Kersey e più tardi a Debenham. Desidero qui rendere onore a Harriet Ward, che ha chiaramente garantito il sodalizio intellettuale, l’amore e un’ottima gestione domestica, offrendo così a Colin lo spazio affettivo e fisico di cui aveva bisogno per scrivere in modo così vasto e prolifico sui suoi numerosi interessi. In realtà la stessa Harriet è una bravissima scrittrice e il libro in cui ricorda la figura di suo padre, Griffin Barry, A Man of Small Importance offre un ritratto vivace e acuto della cultura politica e personale della generazione rivoluzionaria dei suoi genitori, nei primi decenni del ventesimo secolo.
Per questo mi sento onorato che abbiano chiesto a me di presiedere a questo incontro di memorie e tributi, e invito con calore tutti quanti a condividere i ricordi di un uomo eccellente e un maestro per tanti.
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Colin Ward |
Com’era Colin
negli anni sessanta
Harriet Ward
La prima volta che ho incontrato Colin è stata nel 1965 al Garnett College di Roehampton, dove seguivamo entrambi un corso di aggiornamento annuale per insegnanti, rivolto in particolare a studenti di una certa età che volevano insegnare nei corsi di educazione permanente (e noi due avevamo entrambi ‘una certa età’: io avevo trentaquattro anni e Colin quaranta). Io avevo due figli piccoli (che sono qui oggi) il cui padre era morto, così sembrava che il lavoro più adatto nella mia situazione sarebbe stato l’insegnamento. Colin era lì (come mi disse poi) in parte perché voleva cambiare dopo dodici anni dedicati all’architettura, ma anche per disporre di più tempo per scrivere.
Il corso era già in funzione dal precedente settembre, ma per qualche motivo non ci eravamo accorti l’una dell’altro fin quasi alla conclusione del trimestre estivo. Alle lezioni Colin sedeva verso il fondo dell’aula e prendeva appunti in silenzio, senza mai fare domande e senza farsi notare, e non si spostava mai alla fine dell’ora. A quell’epoca curava la pubblicazione di Anarchy, come scoprii più tardi, e certe volte era impegnato a casa a mettere insieme i pezzi della rivista o a scrivere in fretta e furia qualche articolo per riempire uno spazio quando un articolo promesso non arrivava.
La prima cosa di lui che attirò la mia attenzione fu una copia di New Society che teneva sotto il braccio: era una nuova rivista che avevo appena scoperto anch’io. Così la nostra prima conversazione riguardò alcuni articoli di New Society e mi resi conto immediatamente che avevamo un punto di vista simile sulla vita e, cosa che mi sorprese ancor più, che Colin sapeva tante cose dell’ambiente della sinistra politica dal quale provenivo, anche sul tema dell’istruzione progressista, quando si arrivò a parlarne nel corso.
Ma ciò che davvero mi stupì di questa nuova conoscenza fu il suo contributo a una discussione seminariale sulla ‘educazione ambientale’. A ognuno di noi era stato chiesto di illustrare a turno come strutturare una lezione sull’ambiente e noi, uno dopo l’altro, demmo risposte prevedibili, piuttosto scontate: una passeggiata in campagna (o in un parco, se avessimo dovuto insegnare in una situazione urbana) mostrando la flora e la fauna, le caratteristiche della Natura circostante (si noti che all’epoca se si parlava di “educazione ambientale”, veniva in mente la campagna e un rapporto con la Natura). Quando però fu il suo turno, Colin lasciò tutti a bocca aperta con una presentazione affascinante, che ci fece arrossire imbarazzati per la nostra inadeguatezza e mancanza di fantasia.
La mia lezione seguirà il percorso di un seme di pomodoro, spiegò, ricordando che quel seme attraversa il corpo umano senza essere digerito. Partiremo dalla sua origine dentro un pomodoro nell’orto di un vecchio pensionato, poi come pietanza nel pasto di famiglia, giù nel sistema digerente… e di lì nel sistema fognario, dove può finire nelle acque di un fiume fino al mare… a ogni tappa del viaggio, ovviamente, ci sarebbero state indagini e discussioni.
Da quel momento capii che Colin era una persona speciale e decisi che avrei dovuto conoscerlo meglio. Così lo cercai all’intervallo di pranzo e lo presentai all’unico altro studente interessante che avevo conosciuto, notando con piacere che si erano trovati simpatici. Intanto ogni conversazione con Colin aumentava il mio interesse per quell’uomo affascinante. E non solo per il suo intelletto! Ammiravo la sua spettacolare criniera di capelli grigi che ondeggiavano al vento. Grazie al mio sguardo d’aquila avevo anche notato peli di gatto sui suoi pantaloni: un altro eccellente indizio.
Ma si avvicinava la fine del trimestre!
Come avrei fatto a cementare quell’amicizia prima della conclusione del corso e prima che tornassimo alle nostre indaffarate esistenze?
Avevo saputo che Colin abitava a Fulham e avevo notato che veniva alle lezioni con i mezzi pubblici, mentre io ci andavo in auto, attraversando Londra da West Hampstead. Fulham era più o meno sulla strada (risate), così mi feci avanti offrendogli un passaggio alla fine delle lezioni. Era sempre gradevolmente sorpreso dalla apparente coincidenza di trovarmi sul punto di partenza proprio mentre usciva dal portone della scuola… Non poteva sapere che me ne stavo seduta nel parcheggio sfogliando le mie carte finché, con la coda dell’occhio, non lo vedevo spuntare, e allora accendevo il motore. Colin, non sarete sorpresi nel saperlo, era del tutto ignaro delle astuzie femminili, anzi di ogni genere di astuzia.
Una volta arrivati davanti alla porta della sua abitazione, non ci volle molto per farmi invitare a bere una tazza di tè e conoscere gli amici anarchici con cui condivideva l’appartamento, Vernon Richards e Peta Hewetson, e i suoi gatti, ovviamente, e i due ragazzi che crescevano insieme, Alan e Doug Balfour, la cui madre era morta circa nello spesso periodo in cui era scomparso mio marito. Era stata la ‘compagna’ di Colin, come usano dire gli anarchici, così scoprii che anche lui, come me, era vedovo, in un certo senso.
La nostra relazione si approfondì rapidamente in quei pomeriggi dopo la scuola al numero 33 di Elerby Street, grazie ai lunghi tormenti della donna che mi curava i bambini e che aspettava pazientemente che passassi e riprendermeli (si trattava dell’insostituibile Lily, che forse qualcuno dei presenti ricorda).
Alla fine fui io che feci il primo passo, quando mi resi conto che anche Colin era innamorato ma era troppo timido per dirlo. E avevo ragione! Lo era davvero! Eppure, eppure… quest’uomo assurdamente modesto era convinto che mi fossi sbagliata e che ‘mi sarei accorta’ di avere scelto un partner non alla mia altezza, una volta che l’avessi conosciuto meglio.
Una volta mi porse timidamente un fascicolo di attestati, documenti presentati insieme alla sua domanda al Garnett College, che dichiaravano che sarebbe stato un ottimo insegnante (e qui devo spiegare che il corso che frequentavamo era destinato a laureati, il che non era un problema per me, ma Colin aveva dovuto pietire per essere ammesso, perché aveva lasciato la scuola a quindici anni e aveva solo un paio di diplomi di scuole serali. Questo era il senso di quel fascio di carte rivolto “A chi di competenza”).
Colin evidentemente sperava che quelle belle parole potessero servire a raccomandarlo anche come futuro compagno di vita. Le cito:
“è un piacere, anche se è difficile farlo in modo adeguato, scrivere di un uomo di tali doti e di tale integrità, determinazione e capacità qual è il signor Colin Ward… Ci sono poche persone che sanno elaborare idee, soprattutto sulle questioni sociali ed economiche, per iscritto, come oratori e come conduttori di dibattiti, in un modo così colto e autorevole, ma che sia anche divertente e piacevole.”
Così si esprimeva Anthony Weaver, Senior Lecturer di pedagogia del Jesus College di Oxford. Un altro senior lecturer, della Bartlett School di architetture, si dichiarava “personalmente in debito con [Colin] che mi ha insegnato tantissimo”.
Ma l’argomento decisivo fu quello di Gabi Epstein, uno socio dello studio di architettura Shepheard and Epstein, dove Colin aveva lavorato per dieci anni, dal 1952 al 1961. Tanto per cominciare, Gabi lo riempiva di lodi sperticate come “il nostro architetto più anziano… estremamente competente e di grande esperienza” eccetera eccetera. Parlo di lodi sperticate, perché Colin non aveva mai avuto la qualifica di architetto, in sostanza era un disegnatore, come mi ripeteva sempre, anche se andava sui cantieri e trattava con le ditte appaltatrici. Poi Gabi si ricordò che Colin faceva una domanda come insegnante e non come architetto, e continuava così:
“La ragione per cui difficilmente potremo trovare un sostituto del signor Ward è che, oltre a tutto quello che ho detto in precedenza, egli ha una grande influenza educativa nel nostro studio in generale. Credo di non avere mai conosciuto prima in vita mia qualcuno che sia così competente su tanti argomenti… Se dovessi cercare un’università con un professore al suo interno, vorrei che quel professore fosse Colin Ward.”
Nel corso degli anni ho sentito un numero infinito di storie divertenti su quello studio da Colin, e da Gorge West, un altro collega di Colin e suo amico da una vita, che aveva lavorato lì. Pochi anni dopo il corso al Garnett College, Colin fece domanda per un posto alla Town and Country Planning Association, e quella volta l’altro socio, Peter Shepheard, si espresse in termini altrettanto calorosi per raccomandarlo:
“Sinceramente mi risulta impossibile immaginarmi qualcuno che sia più adatto per questo lavoro di sostanza e interessante ecc. ecc. Ward è un uomo di vaste letture e anzi, nel nostro studio si scherza nel tentativo di scoprire un argomento sul quale non sia informato, ma non ci siamo mai riusciti.”
Sono certa che molti di voi riconosceranno il Colin che conoscevamo in queste parole di oltre quarant’anni fa. Ovviamente fu ammesso al Garnett College, ovviamente ebbe il posto alla TCPA e ovviamente mi prese il cuore, non grazie alle parole di altre persone, ma con la sua persona (anche se avevo ancora il mio daffare per convincerlo che mi andava bene). Colin non era solo un gran cervello, ma una persona con tante qualità domestiche, come avrei scoperto presto, e un uomo di famiglia per predisposizione naturale. Era anche, come sappiamo, la persona più gentile, più generosa che una potesse sperare di incontrare, senza un briciolo di ambizione personale o di vanità, lui che avrebbe avuto tanti motivi per cui vantarsi. Oh, me fortunata!
Non è stata una navigazione tranquilla, però. Ci volle un anno per riorganizzare i nostri due menage familiari, sistemarci nelle scuole dove insegnavamo, trovare una casa in cui vivere. Quell’anno lessi tantissimi articoli di Anarchy, ci scrissi perfino, e così facendo scoprii che ero stata per tutta la vita un’anarchica senza saperlo (cosa che credo valga per altri che leggono i testi di Colin sull’anarchia: risulta tutto così sensato).
Ci siamo sposati nel 1966 e abbiamo abitato fino alla fine del decennio al 19 di Schubert Road a Putney, insegnando in vari college e aggiungendo un figlio alla nostra famiglia, Ben. Lo pseudonimo usato da Colin su Anarchy quando stava a Fulham, John Ellerby, fu sostituito da uno nuovo, Frank Schubert, e il tavolo della nostra spaziosa cucina veniva sgombrato una volta al mese per montare le pagine della rivista.
Per Colin gli anni sessanta sono stati importanti tanto professionalmente quanto personalmente, perché Anarchy è stato il terreno di coltura per il filosofo anarchico di cui sentirete parlare tra pochi istanti. Per me quel decennio è stato l’inizio di una relazione fantasticamente felice, che si è conclusa all’inizio di quest’anno. Mi considero davvero fortunata per avere trascorso quarantacinque anni in compagnia di Colin.
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Venezia, Incontro Internazionale Anarchico – 1984. Colin Ward |
Colin Ward:
come rendere l’anarchia
rispettabile, ma non troppo
Stuart White
In un articolo del 1961, basato su un discorso rivolto a una scuola estiva anarchica, Colin si chiedeva: “Noi [anarchici] siamo abbastanza rispettabili?” E spiegava: “Non che mi interessi il modo in cui ci vestiamo, e se la nostra vita privata sia conforme alla norma statistica… ma penso alla qualità delle nostre idee anarchiche: sono idee che meritano rispetto?”
Colin aveva un’acuta sensibilità riguardo alle reazioni di molti, quando avevano a che fare per la prima volta con le teorie anarchiche: “Sembrano bellissime, ma sono sicuramente impraticabili.” Egli vedeva come una reazione del genere portasse sbrigativamente ad accantonare le idee anarchiche in quanto non degne di una seria attenzione e voleva che le persone superassero quella prima reazione.
Come faceva? Con tre affermazioni plausibili.
La prima riguarda il pluralismo. Le società utilizzano varie tecniche per fare fronte alle necessità e per risolvere i problemi. Si servono di tecniche di mercato o simili, che si basano sulla proprietà privata, sulla concorrenza e sul perseguimento di un interesse individuale. Impiegano tecniche fondate sull’autorità, il comando, la burocrazia. C’è poi una terza tecnica o un gruppo di tecniche basato sul mutuo aiuto e la cooperazione.
L’‘anarchia’ per Colin altro non è che uno spazio sociale nel quale predominano queste ultime tecniche della reciprocità. Uno spazio sociale nel quale si entra (e si esce) liberamente; nel quale le persone si relazionano alla pari e lavorano in modo cooperativo, per risolvere un problema, soddisfare un bisogno, o semplicemente esercitare la creatività per il gusto di farlo.
E lo scopo del movimento anarchico è di cercare di spingere e spronare la società verso un’ancora maggiore anarchia con questo significato.
Una volta che la concepiamo in questo modo, sosteneva Colin, vediamo che l’anarchia lungi dall’essere un’utopia irrealistica, fa già parte della nostra vita sociale. Questa è la seconda affermazione importante di Colin: l’anarchia non è solo nel futuro: è parte del presente. In una certa misura, già ora risolviamo problemi e appaghiamo bisogni ricorrendo all’anarchia. Per esempio, l’anarchia è già presente nei gruppi dei “dodici passi”, i cui membri cercano di superare insieme un problema comune di dipendenza. I suoi principi si attuano nei centri ricreativi per disabili, nelle associazioni di mutuo soccorso, nel Royal National Lifeboat Institute, in Wikipedia, in migliaia di migliaia di spazi sociali liberi, ugualitari e cooperativi.
È spesso presente in forme tanto ovvie che la diamo per scontata. Venendo qui, mi sono fermato da un giornalaio per chiedere la strada, e lui me l’ha indicata. Non me l’ha mica venduta e non ci sono leggi che lo obbligavano da darmi quelle informazioni. Me le ha date gratis e, in una situazione simile, io le darei gratis e il giornalaio le riceverebbe, spero, gratis. Ecco un bisogno che, in certa misura, la nostra società soddisfa in modo anarchico, sviluppando una regola di mutuo aiuto che stabilisce come comportarsi.
Ora, se l’anarchia è già “in azione” nella nostra società, se risolve problemi e soddisfa esigenze, può forse risolvere ancor più problemi e soddisfare ancor più esigenze.
Questo ci porta alla terza affermazione di Colin: la praticabilità dell’anarchia. Colin puntava a dimostrare che l’anarchia è in grado di soddisfare bisogni e di risolvere problemi laddove Stati e mercati normalmente falliscono o danno risultati scadenti. Per questo i suoi scritti sull’anarchia non avevano mai la forma di un’analisi concettuale, sullo Stato, sulla libertà o altro, ma esprimevano l’impegno verso i reali problemi sociali – casa, scuola, trasporti, energia, alimentazione, acqua.
Io penso che in questo modo sia riuscito a cogliere il suo obiettivo e a dimostrare che le idee anarchiche siano ‘degne di rispetto’.
Penso, però, anche che sia importante vedere che l’anarchia di Colin resti molto impegnativa. Non è facile da assimilare ad altri punti di vista, di destra come di sinistra.
Cominciamo dalla destra. Lo slogan della nuova coalizione di governo è “Grande Società e non grande governo”. Per un verso, sembrerebbe uno slogan che Colin non avrebbe potuto non sottoscrivere. Il messaggio di fondo non era appunto quello di auspicare una ‘grande società‘ come alternativa a un ‘grande Stato’?
In realtà la visione anarchica di Colin fa sollevare alcune dure domande nei confronti di della Coalizione e del suo programma di ‘grande società‘.
Per esempio, i testi di Colin ci inducono a chiederci: fino a che punto la ‘grande società‘ va applicata all’economia? È un correttivo al ‘grande mercato’ oltre che al ‘grande Stato’? Così, per esempio, significa controllo dei lavoratori nell’industria? Significa la sostituzione delle banche di commercio con istituti finanziari mutualistici? Significa affidarsi alla produzione per la comunità in alternativa al mercato?
Ma la sfida, indubbiamente, è rivolta anche alla sinistra. Come mai, chiede Colin, la sinistra vuole così spesso che lo Stato intervenga per il popolo o sul popolo invece di fare in modo che il popolo agisca per proprio conto?
La sua critica si è esercitata con grande efficacia sul problema della casa. Ma è andato anche ben oltre.
Per esempio, molti a sinistra considerano la scuola pubblica uno strumento potenzialmente efficace di uguaglianza. Quando i bambini ‘vanno male’ a scuola (male rispetto ai criteri scolastici), si interrogano se la scuola disponga di risorse sufficienti. O temono che magari le opportunità per i piccoli siano inficiate da quanto avviene in famiglia ancor prima che varchino la porta della scuola. Dopo di che si mettono a riflettere su come lo Stato possa intervenire sulle famiglie per migliorare quelle opportunità.
L’approccio di Colin era molto diverso: proponeva un modello di scuola molto più flessibile, una scuola con spazi accessibili per lo studio a qualsiasi età, ma anche con la libertà di apprendere all’interno della comunità. Sosteneva la “modesta proposta” di non rendere obbligatoria la frequenza scolastica.
Per qualsiasi sostenitore della socialdemocrazia (quale io sono) si tratta di una posizione estremamente stimolante e impegnativa: non è facile per un socialdemocratico, pur animato da ottime intenzioni, lasciare libere le persone fino a questo punto, col timore di come potrebbero usare quella libertà. Colin lancia la sfida ai socialdemocratici, ponendo continuamente questa domanda: perché non lasciarli fare? Perché non fidarsi della responsabilità e della competenza delle persone?
In sintesi, le idee di Colin continuano a sollevare interrogativi in chi coltiva idee convenzionali di destra come di sinistra. Per questo io credo che abbia centrato un obiettivo che era davvero difficile: ha reso l’anarchia rispettabile, ma non troppo rispettabile.
Colin Ward: seminatore
di idee
Peter Marshall
Colin Ward era un deciso seminatore di idee libertarie, uno degli anarchici inglesi più influenti fin dalla fine della Seconda Guerra mondiale.
Io l’ho conosciuto all’inizio degli anni settanta, quando abitava in un quartiere meridionale di Londra: mi si presentò in braghette corte in una sera d’estate e mi invitò in cucina per discutere di William Godwin, il padre del movimento anarchico britannico. Avevamo un interesse comune nella figura della compagna di Godwin, Mary Wollstonecraft, ma anche nei temi della assegnazione e nell’uso dei terreni, della scuola e della creatività del gioco dei bambini. Anarchy in Action (1973), il suo principale testo teorico, confermava la mia convinzione nella possibilità pratica dell’anarchia, qui e ora. Apprezzavo il fatto che le sue critiche fossero invariabilmente positive e io ne ero stato in varie occasioni un beneficiario. Tutte le volte che ci trovavamo insieme alla radio per discutere di anarchia, ero sempre colpito dai suoi commenti equilibrati e sagaci.
Per me rappresentava il meglio della tradizione anarchica del nostro paese. Era diventato anarchico durante la Seconda Guerra mondiale, mentre era in servizio nell’esercito in Scozia; da allora era rimasto fermo nella sua convinzione sugli effetti dannosi del governo e dell’autorità e sugli incalcolabili vantaggi di un struttura sociale federale e decentrata di comunità autogestite. Come dichiarò in un’intervista radiofonica nel 1968, era “un anarchico comunista nella tradizione di Kropotkin”. Spiegava con molta chiarezza che la società anarchica è “una società che si organizza senza autorità” e che l’anarchia “è una descrizione di una organizzazione umana radicata nell’esperienza quotidiana”. Con queste convinzioni contribuì con Vernon Richards, Nicholas Walter e altri, a fare le riviste Freedom e Anarchy, al centro delle riflessioni costruttive sull’anarchia in Inghilterra. Il suo libro Anarchy in Action, basato su una serie di articoli scritti per quelle riviste, ha visto molte traduzioni e ha raggiunto una cerchia di lettori ben più ampia dei soli sostenitori dell’anarchia.
In tutti i suoi scritti Colin rendeva onore al potenziale creativo, allo spirito di iniziativa e all’autonomia dei giovani e della gente comune, degli oppressi e degli emarginati dal potere coercitivo e dall’autorità. Se “la libertà per il luccio è la morte per il pesciolino”, non c’è dubbio da quale parte si schierasse e quale libertà volesse sostenere. Dimostrò lucidamente che per quanto uno Stato fosse tirannico, per quanto disperata fosse la situazione, non è possibile soffocare negli esseri umani gli impulsi innati alla creazione e alla cooperazione.
Avendo lasciato la scuola a quindici anni per lavorare in uno studio di architettura, ed essendo in gran parte un autodidatta, Colin sarebbe il primo ad ammettere di non essere mai stato un teorico in senso astratto. Si considerava soprattutto un divulgatore e un propagandista delle idee anarchiche. Ciò nonostante, ha saputo applicare con grande originalità la propria profonda sensibilità libertaria e il proprio intuito a quelle che definiva “applicazioni” e “soluzioni” in un ampio spettro di argomenti, sulla casa, l’architettura, l’urbanistica, la politica sociale, l’assegnazione di terreni, l’occupazione di alloggi, la scuola, i trasporti, l’acqua. I suoi libri, molti scritti in collaborazione con altri autori, assumono tutti un netto punto di vista anarchico e trattano tutti delle relazioni tra le persone e gli ambienti in cui vivono, lavorano e giocano. Nei suoi scritti incoraggiava le tendenze al volontariato, alla cooperazione, alla democrazia all’interno della società e auspicava il massimo decentramento del potere di coercizione. Si teneva sempre in ombra, ispirandosi ampiamente alle opere di altri e citandole copiosamente, ma la sua calorosa umanità traspare sempre nelle pagine della sua prosa nitida e misurata.
Nella sua maniera insieme affascinante e modesta, quando gli si chiese di scrivere un’autobiografia, presentò una raccolta di saggi suoi suoi maestri prediletti, che intitolò Influences. Aveva fatto estese letture di testi anarchici e socialisti, e spesso riconosceva il proprio debito verso Godwin per le idee sull’educazione libertaria, verso Kropotkin per i concetti di mutuo aiuto e di umanizzazione del lavoro in reti federate di comuni autonome, verso Martin Buber per avere messo in luce il conflitto permanente tra quelli che definiva “principio sociale” e “principio politico”, verso Gustav Landauer per ricordargli che lo Stato non è un’entità astratta ma “un certo rapporto tra esseri umani”, verso Paul Goodman che aveva chiarito che una società libera è un’estensione di “sfere di libera azione” già in essere, e infine verso Alexander Herzen, che l’aveva convinto della necessità di operare per il cambiamento nel presente e non per un futuro immaginario che forse non verrà mai.
Anche se ammetteva l’influenza di queste tesi, le aveva fatte decisamente sue e ne spargeva i semi tutto intorno, anche su terreni che apparivano duri e sterili. Il suo metodo frammentario e gradualista, mettendo l’accento sulla messa in pratica di un’anarchia operante, ha contribuito a formare e a far riflettere una generazione anarchica da lui definita di “seconda ondata” o di “post-sinistra”, che è si è sviluppata in tutto l’Occidente dalla fine del ventesimo secolo. Grazie al suo metodo del “fai da te”, con la sottolineatura al mutuo aiuto e all’autosufficienza, continuano a nascere reti di associazioni volontarie e di cooperative, di istituzioni libertarie e diversi esperimenti di vita collettiva e comunitaria.
Colin sarà annoverato tra i grandi anarchici inglesi della seconda metà del ventesimo secolo come quello che probabilmente ha più influenzato la politica sociale e la progettazione ambientale. È caratteristico di quest’uomo lungimirante e generoso il fatto che alla fine della sua lunga e fertile esistenza, abbia scritto, alla conclusione della sua Very Short Introduction to Anarchism, che nel ventunesimo secolo “le migliori prospettive per l’anarchia si troveranno nel movimento ecologico”.
Colin era un uomo di grande modestia e preferiva sempre sottovalutare il proprio importante contributo alle teorie sociali anarchiche. Come un vecchio saggio taoista, forniva un orientamento dall’ombra, così che tutti potessero dire: “L’abbiamo fatto noi”, senza rendersi conto del suo influsso benevolo e sorridente.
Finché libertà, giustizia, gentilezza e convivialità saranno considerate importanti valori, Colin resterà come “un seme sotto la neve” (per usare una delle sue frasi preferite), pronto a germinare dovunque ci sia disgelo nell’inverno della cultura occidentale.
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Debenham (Inghilterra) – Francesco Codello al centro tra Colin Ward
e la moglie Harriet, nella loro casa |
Colin al lavoro
Tony Fyson
Nei pochi minuti a disposizione cercherò di dare un’idea di com’era lavorare con Colin. Per otto anni, negli anni settanta, abbiamo condiviso un ufficio; lì Colin manifestava sempre l’intenzione di lasciare il proprio impiego per dedicarsi a tempo pieno alla scrittura.
Entrambi eravamo assunti dalla Town and Country Planning Association, con precedenti esperienze di insegnamento in corsi di educazione permanente, per creare una nuova unità di educazione all’ambiente. La finalità principale era quella di sviluppare una coscienza ambientale a livello di scuola secondaria, ma mettendo l’accento sull’ambiente edificato e sulla formazione di futuri cittadini in grado di partecipare. Io ero il vice di Colin, e insieme a Rose Tanner e più tardi con un’insegnate d’arte, Eileen Adams (oggi presente) formavamo una équipe di quattro.
Cominciammo il lavoro il 1° aprile 1971, dopo aver trascorso il week end precedente aiutando nel trasloco dell’associazione, un gruppo di pressione volontario di interessi professionali, che lasciava la sede decrepita del Covent Garden per insediarsi nell’imponente Carlton House Terrace, grazie a un contratto di affitto pluriennale eccezionalmente vantaggioso, stipulato dai delegati della Corona (che credo lo rimpiangano ancora!).
La TCPA offrì a Colin gli anni di lavoro più felici, poiché una delle sue massime diceva che la soddisfazione sul lavoro è direttamente proporzionale al grado di autonomia che lascia. Il direttore dell’associazione, David Hall, era contento dell’originalità di Colin e la incoraggiava in ogni modo.
Grazie alla sua lunga esperienza di redattore e collaboratore del settimanale anarchico Freedom e della sua creatura, il mensile Anarchy, non stupisce il fatto che la prima cosa che fece fu il lancio di un nuovo periodico rivolto agli insegnanti, il Bulletin of Environmental Education, il noto BEE. Seguirono poi l’esperienza di avanguardia dei Town Trails e degli Urban Studies Centres, le tecniche emergenti di educazione civica, riconoscendo l’importanza delle tecniche di problem-solving e di risoluzione dei conflitti per dar vita a studi locali per adolescenti. Colin vide ed elaborò idee in relazione con l’apprendimento attivo e la “descolarizzazione” e più tardi, con Eileen, sviluppò nuovi metodi per l’educazione visiva e tattile della scena urbana.
Colin era una di quelle rare persone che vivono e lavorano secondo gli ideali che sostengono. In questo mondo le persone si uniscono per cooperare in mansioni e progetti con una leadership che passa di mano in base agli interessi e alle capacità a disposizione. Nessun lavoro è una fatica eccessiva se il prodotto finale e le risorse limitate lo impongono. Così è stato per Colin, Rose e me, come per tutto il personale della TCPA, che per circa tre settimane ci impegnammo a montare, graffettare, imbustare e affrancare il primo numero del BEE. Tredicimila copie fascicolate furono stampate internamente con una primitiva stampante offset e poi inviate a tutte le scuole medie del paese. Erano indirizzate al responsabiledegli studi sull’ambiente, con la consapevolezza che in quel momento non esisteva nemmeno un insegnante con quell’incarico. Colin volle mettere in luce che le tematiche sull’ambiente avrebbero avuto sempre maggior peso nei programmi scolastici. Nel momento di massimo successo il BEE aveva duemilacinquecento abbonati, insegnanti di varie discipline.
Colin non aveva avuto un’istruzione formale dopo i quindici anni; per questo non provava nessuna soggezione verso una particolare disciplina accademica e rifiutava l’idea che vedeva nell’insegnante un controllore, convinto com’era che lo studente non era né un vaso in cui versare il sapere né un pezzo di argilla da modellare secondo i desideri della società. Preferiva la metafora del fiore da coltivare. Una delle sue citazioni preferite, che ripeteva a memoria, era una frase dell’architetto W.R. Lethaby, uno dei primi sostenitori della TCPA, che nel 1916 aveva scritto: “Nella prima parte della mia esistenza mi addormentavano raccontandomi che il nostro era il paese più ricco del mondo, poi mi sono svegliato per scoprire che per me la ricchezza significava studio e bellezza, musica e arte, caffè e omelette.” Colin voleva presentare quei valori ai giovani e vedeva un’opportunità per farlo nel movimento in ascesa di studi sull’ambiente.
In sostanza Colin era uno scrittore che fino a cinquant’anni si era concentrato nella produzione di commenti e articoli polemici, spesso anonimi o firmati con uno pseudonimo. Alla TCPA cominciò la sua attività di autore di libri, che avrebbe fruttato più di trenta titoli in tre decenni, pur continuando a scrivere regolarmente rubriche per riviste prestigiose e a tenere frequenti conferenze.
Tutta questa prodigiosa produzione di scritti fu realizzata senza l’aiuto delle moderne tecnologie. La vecchia macchina da scrivere e le fascette del correttore non sono mai state soppiantate dal computer. Scriveva senza mai affidarsi al taglia e incolla elettronico in uso oggidì. Il suo stile era accessibile e aneddotico e non distante e teorico o accademico. Scriveva come parlava, con modestia e erudizione. I suoi testi contenevano sempre tantissime citazioni perché, come diceva, non vedeva mai il motivo di riscrivere il testo di qualcun altro per far sembrare proprie le idee altrui.
Nell’ufficio che condividevamo continuava a chiacchierare allegramente intanto che scriveva, sempre con una sigaretta tra le labbra. Il normale contesto del lavoro comportava scherzose canzonature, strofette di canzoni buffe per le quali aveva una particolare predilezione. I suoi gusti musicali spaziavano senza limiti, così non era una sorpresa se a When Father Papered the Parlour seguiva a gola spiegata Là ci darem la mano comicamente intervallato da qualche imprecazione in dialetto cockney. Terminato l’articolo o il capitolo, tirava fuori l’ultimo foglio dalla macchina da scrivere, si batteva le mani sulle ginocchia ed esclamava: “Eccoci qua . Tutta roba buona, mica schifezze!”
Questa era solo uno della sua scorta di modi di dire, molti dei quali, devo ammettere, sono entrati anche nel mio lessico familiare. Per replicare a qualche presa di posizione particolarmente stupida di un politico di destra era solito dire, con una punzecchiatura alla sinistra convenzionale: “Quando arriverà la rivoluzione, gli taglieranno i piedi.” E il suo commento preferito davanti a certi acquisti un po’ costosi era. “Non importa il prezzo: diamo al gatto un altro canarino.”
Inevitabilmente, era diventato un personaggio sempre più noto in campo nazionale e internazionale e doveva dire di no a molti che gli chiedevano un articolo o una conferenza, o gli chiedevano di partecipare a un’iniziativa. Quando passava a me, il suo riconoscente vice, un invito per partecipare a qualche evento internazionale, dichiarava di “non credere all’estero” e per anni si era limitato a qualche sporadico viaggio in Olanda e in Italia, per incontrare gli amici anarchici.
Quando finalmente si convinse a intervenire a un corso di formazione sull’ambiente a Washington, scoprì che sul suo stesso volo c’era il suo vecchio amico John Turner, un esperto di occupazione di case nel terzo mondo, che lo invitò ad andare insieme a lui a certi meeting di alto livello del Fondo Monetario Internazionale sulle occupazioni di case, tra una lezione e l’altra del corso, e lì Colin offrì alcuni contributi improvvisati, ma di grande impatto. Per Colin, però, i momenti più interessanti del viaggio furono le sue scorrerie nei quartieri più squallidi della città, che li piacquero immediatamente, e raccolse quasi senza rendersene conto molto materiale dalle persone che vi incontrava.
Colin sapeva guidare con gentilezza i propri collaboratori, dimostrando con coerenza quando possa agire in modo produttivo una persona non autoritaria in un universo gerarchico. Comprensivo e tollerante verso i colleghi, autorevole e ottimista nei suoi scritti, schivo e con un gran senso del ridicolo, non vedeva una ragione per mettere la propria persona al primo posto invece delle proprie idee.
Era un uomo senza una traccia di egocentrismo. Un gran patrimonio di nozioni autodidatte, un enorme talento nel comunicare in modo chiaro e convincente, senza arroganza, senza spinte competitive e senza la voglia di affermare la propria superiorità, tutte qualità che lo rendevano una persona davvero speciale. Chiunque lo abbia conosciuto, di persona o attraverso i suoi scritti, avrà caro il suo ricordo e affronterà la vita in modo diverso grazie a lui.
La profondità delle sue intuizioni in campo sociale e politico servirà a illuminare il nostro futuro. E quelli di noi che sono stati tanto fortunati da lavorare insieme a lui ricorderanno sempre con affetto e gratitudine la sua generosità, il suo spirito e la sua amicizia.
Ai margini
Dennis Hardy
Ho avuto modo di conoscere gli scritti di Colin negli anni settanta, quando facevo il possibile per interessare nell’urbanistica gli studenti di scienze. Prima ci fu Anarchy in Action, che gettò una luce nuova e vivida sull’argomento e poi le copie regolari e sempre interessanti del BBE (il bollettino di educazione ambientale curato insieme a Tony Fyson, che ce ne ha appena parlato).
Subito dopo l’ascesa al potere di Margaret Thatcher (in una sequenza di eventi senza relazione tra loro, aggiungerei) io riuscii a ottenere qualche finanziamento a sostegno di un progetto che voleva ricostruire la storia di un tipo originale di insediamento, di quelle che furono chiamate le plotlands. Il mio personale interesse era stato risvegliato durante un corso sul campo con i miei studenti, che mi aveva portato a Peacehaven, sulla costa meridionale, una sciagura per i responsabili locali della pianificazione, ma anche un luogo che valeva la pena conoscere meglio.
Sui giornali apparve un’inserzione che offriva una borsa per un ricercatore che lavorasse con me al progetto e, con mia grande sorpresa, mi arrivò una domanda da un certo Colin Ward. Era come se avessi cercato i giocatori per una squadra di calcio di paese e vedessi scendere in campo un famoso campione. Inutile dire che ebbe la borsa!
La rivista satirica Private Eye riprodusse l’inserzione, cui seguì un articolo sull’Evening Standard che lanciava strali contro lo spreco di denaro pubblico rappresentato da ricerche di questo genere. Dal che capimmo che dovevamo agire per bene e così cominciò quello che sarebbe stato un viaggio affascinante e speriamo anche di qualche utilità.
La maggior parte della gente non aveva mai sentito parlare delle plotlands in quanto tali, anche se le avrebbe subito riconosciute, se si fosse fatto il nome di certe località, come Jaywick Sands o Shoreham Beach. Il tema – esperienze di insediamenti autocostruiti e di mutuo aiuto, con l’uomo della strada che si fa beffe dell’autorità – era tagliato su misura per Colin.
Qualche anno prima, in effetti, Colin aveva scritto alcuni articoli, su New Society e sul BEE, a proposito di una valorosa abitante dell’East End, una tale signora Granger, che nel 1932 aveva avuto in prestito una sterlina quale anticipo su un appezzamento di terreno a Laindon, nell’Essex. Insieme al marito, che faceva il portiere in un edificio di appartamenti popolari, aveva fatto in modo di impiantare una tenda, residuato bellico della Prima Guerra mondiale, su quel terreno, e nei fine settimana i due si erano dedicati alla costruzione di una casa tutta loro. In seguito, trasferitisi definitivamente lì, vi allevarono polli, oche e capre, e vi coltivarono un orto. Il fatto importante è che, grazie ai loro sforzi, pur essendo poveri, erano stati in grado di farsi una casa di proprietà.
La storia della signora Granger era ripetuta in tutti i posti in cui andavamo e passammo molte belle giornate spostandoci di qua e di là lungo la costa e per la campagna a sud di Londra. A quei tempi Colin abitava a Putney, così ci incontravamo al mattino in una stazione di Londra e poi via verso qualche altro “pugno nell’occhio nel paesaggio”.
Oltre ad altre famiglie povere che ce l’avevano fatta, incontrammo un gruppo di persone un po’ bohemien, che erano attirate dalla prospettiva di passare i week end e le vacanze vicino al mare in un vagone ferroviario o in un vecchio torpedone riadattato. Scoprimmo che la spiaggia di Shoreham era una località frequentata da personaggi famosi della scena teatrale londinese, che correvano alla Victoria Station appena calato il sipario, per prendere l’ultimo treno che li avrebbe condotti nei propri rifugi marittimi, dai nomi evocativi come ‘Cenerentola’ o ‘Bella Addormentata’. Per i locali quel fatto faceva una certa presa e le loro feste nei fine settimana facevano sollevare più di un sopracciglio.
Colin era a suo agio sia con i teatranti sia con gli operai e le conversazioni non erano mai un problema mentre ce ne stavamo seduti in qualche accogliente rifugio, con lampade alla paraffina e tende di cinz e ascoltavamo i vari racconti. Comprensibilmente, quei luoghi attiravano gli artisti e ci capitò di arrivare agli eremi di personaggi come lo scultore Jacob Epstein e il pittore Mark Gertler, come di quello dello scrittore e regista Derek Jarman presso la spiaggia di Dungeness.
Oltre ai ritratti pittoreschi che vi raccogliemmo, ci fu ovviamente un lato più serio e noi cercammo di mostrare come le esperienze degli abitanti delle plotlands potessero essere utili per affrontare le nostre difficoltà abitative. Eravamo negli anni ottanta e l’idea del fai da te non era le mille miglia lontana dal laissez faire del thatcherismo. Colin era un grande ammiratore del lavoro dell’architetto Walter Segal e sosteneva il suo esperimento di autocostruzione di Lewisham. Alla stessa stregua era un fervido fautore dell’attività della TCPA e scrisse un bellissimo articolo sull’argomento, dal titolo “A DIY New Town” – “una nuova città fai da te”.
Ripensandoci, se ricordare è necessario, si può vedere che pensatore originale fosse Colin, capace di osservare da un punto di vista diverso problemi incancreniti e irrisolti. Aveva sempre a portata di mano la giusta fonte letteraria della biblioteca anarchica e una memoria stupefacente. Per giunta era un fantastico compagno, gentile, spiritoso, sorridente, e insieme ci siamo tanto divertiti in situazione che si classificherebbero “di lavoro” ma che insieme a Colin erano sempre piacevolissime.
Al momento in cui la ricerca sulle plotlands fu completata (e pubblicata con il titolo Arcadia for All e più volte ristampata da Five Leaves), ci restava ancora qualche lavoro da finire. Nei nostri giri nei tratti più marginali della costa ci eravamo incuriositi scoprendo in una zona vicinissima alle plotlands un’altra strana istituzione inglese, il campo di vacanze. Così una cosa seguì l’altra e continuammo a lavorare insieme per scrivere una storia dei campi di vacanze inglesi.
Qualcuno di voi potrebbe chiedermi come mai un bravo anarchico come Colin si occupasse di una faccenda che è quasi sinonimo di irreggimentazione. Credo che la risposta stia nelle storie parallele di tante persone povere che facevano una vacanza per la prima volta; uno spirito di cameratismo e perfino comunitario che caratterizzava questa forma di villeggiatura collettiva alla metà del ventesimo secolo; e l’architettura che procedeva mano in mano con le località marittime.
Il nostro libro sull’argomento, Goodnight Campers!,è rimasto esaurito per un certo tempo e Colin era ansioso di rivederlo sugli scaffali delle librerie. Grazie agli sforzi di Ross Bradshaw e delle edizioni Five Leaves, esce proprio oggi una nuova edizione. Colin sarebbe stato senza dubbio contento di festeggiarne l’uscita.
Un’istintiva diffidenza
per le soluzioni calate
dall’alto
Sir Peter Hall
La collaborazione con Colin Ward per il libro Sociable Cities: The Legacy of Ebenezer Howard, che abbiamo pubblicato nel 1998, è stata un’esperienza molto particolare. Si potrebbe citare a sproposito Orwell e dire che tutte le esperienze co-autoriali sono particolari, ma certe sono più particolari di altre. Una definizione che si potrebbe dare di Colin è che era un collaboratore piuttosto incostante. Io gli mandavo la prima stesura di un capitolo e lui faceva qualche minimo commento, del quale tenevo sempre conto. Lui mi mandava un capitolo e io gli facevo qualche minimo commento che, allo stesso modo, inseriva immediatamente. Ma qui veniva il problema al quale altri hanno alluso: Colin era risolutamente avverso ad abbandonare la tecnologia della comunicazione che risaliva al 1873, rappresentata dalla macchina da scrivere portatile marca Underwood che ora occupa il luogo che le spetta nel quadro dei ricordi. .
Nel 1998 eravamo nel bel mezzo della rivoluzione digitale e questo comportava che a me toccava inserire il suo testo nello scanner di casa mia. Ma il lungo uso della macchina aveva prodotto l’effetto che ogni volta che si batteva il tasto della lettera “g”, il carattere finiva spostato più in alto, con il risultato che lo scanner lo leggeva come se fosse un “9”.
Lo soluzione stava ovviamente in un’operazione complessiva di “cerca e sostituisci”, che andava bene, solo che l’anno 1998 diventava 1gg8. Insieme ad Ann Rudkin, che rivedeva validamente il testo per l’editore, dovevamo certe volte riportare il testo alla fine del ventesimo secolo. Colin, ovviamente, restava beatamente inconsapevole del tutto.
C’era poi un altro aspetto più grave: Colin approvò allegramente i miei ultimi capitoli, che auspicavano una vasta pianificazione per creare nuovi grossi nodi insediativi lungo le direttrici di trasporto nell’angolo sud-orientale dell’Inghilterra, che cinque anni dopo trovarono un’eco nella strategia del governo di sviluppo di comunità sostenibili. Questo non pareva proprio da Colin, se non per il fatto che quella soluzione avrebbe potuto costituire un contesto per ogni tipo di iniziative locali. E l’idea centrale del nostro libro, che condividevamo con passione, era quella di sollevare un interrogativo: come dovevamo interpretare la filosofia di Ebenezer Howard, il cui famoso pamphlet To-Morrow: A Peaceful Path to Real Reform era stato pubblicato esattamente un secolo prima, nel 1898? Le città giardino di Howard erano un frutto del pensiero anarchico che aveva una grande influenza all’epoca e che aveva prodotto un anno dopo l’altrettanto influente libro di Kropotkin, Campi, fabbriche e officine. Le città giardino dovevano essere realizzate grazie all’attività cooperativa di piccoli gruppi di gente comune, con l’aiuto di mutui commerciali concessi da individui ricchi. Le parole alla base del famoso diagramma delle tre calamite di Howard, Libertà – Cooperazione, non erano di pura retorica: rappresentavano il nucleo centrale delle sue idee. In questo senso essenziale, molto di quello che Colin aveva scritto sulle tematiche urbane rispecchiava questo filone importante ma dimenticato del pensiero urbanistico inglese.
Vorrei riprendere un pensiero già espresso nella presentazione di Ken Worpole: gli scritti di Colin per la rivista New Society , per un quarto di secolo dal 1962 fino alla sua triste perdita di indipendenza nel 1988, svolse un ruolo così importante nella diffusione di nuove idee nelle scienze sociali. Dopo un breve periodo di avvio nel quale fu diretta da Tom Raison, che la lasciò per diventare un parlamentare tory, passò nelle mani di Paul Barker, uno straordinario giornalista che ha da poco festeggiato le nozze d’oro. Paul era ed è fondamentalmente un iconoclasta che accoglieva nelle sue pagine pensatori originali di qualsiasi orientamento – Reyer Banham, Colin MacInnes, John Berger, Dennis Potter – la cui caratteristica essenziale era quella di criticare le conoscenze indotte. Nel 1969 invitò tre di noi – Reyer Banham, Cedric Price e me – a collaborare per un numero speciale, Nonplan. An Experiment in Freedom. La cosa provocò una tempesta e le conseguenti dimissioni del vicedirettore, Brian Lapping, che poi fece carriera come produttore televisivo indipendente. Ancor oggi quel manifesto è oggetto di conferenze e dibattiti.
Non so perché Colin non vi abbia partecipato. Forse, come Groucho Marx , si rifiutava automaticamente di aderire a un club che lo voleva come socio. Ma questo episodio mette in luce un fatto importante: Paul condivideva con Colin un’istintiva diffidenza per le soluzioni calate dall’alto ed era convinto che gli individui disponessero di una creatività senza limiti. Uno dei drammi legati alla scomparsa di Colin sta nel fatto che non potremo leggere la sua recensione del nuovo libro di Paul, The Freedom of Suburbia. Che avrebbe senza dubbio apprezzato. [Quando ho fatto questo commento alla riunione commemorativa, non sapevo ancora una cosa: Harriet mi sussurrò: “Lo stava leggendo quando è morto. È ancora accanto alla sua poltrona”]. Questo, di sicuro, è un ricordo non all’altezza di Colin.
Colin Ward ricordato
Eileen Adams
Indosso questi abiti, che sono quelli che porto quando me ne vado in vacanza, questa giacca, la cosa più simile che ho di una sahariana, in ricordo di Colin. Quando teneva una conferenza, la prima domanda riguardava ovviamente l’argomento di cui parlava, e l’ultima era: dove ha preso quella sahariana? (L’aveva fatta Harriet) Un’icona della moda non è esattamente la prima cosa che viene in mente quando si pensa a Colin.
La prima e più duratura impressione di Colin era quando fosse generoso con le proprie idee, il proprio tempo e la propria attenzione. Certe volte, da bambini ci hanno fatto saltare un giorno di scuola per qualche importante ricorrenza pubblica. Da giovane insegnante, mi era stata concessa una mezza giornata di libertà per incontrare Colin Ward, perché mi avrebbe confuso troppo dover insegnare e parlare con lui nello stesso tempo. Per prepararmi all’incontro, presi dalla biblioteca tutti i suoi libri che potevo trovarvi. Arrivò nel mio appartamento e vuotò prontamente la sua cartella rigonfia per darmi i suoi libri in regalo. Fin dal primo approccio è stato gentile e generoso con me, come lo era con tutti. Però, quando si accorse che avevo già molti dei suoi libri, rimise le sue copie nella cartella. Io ero troppo timida per dirgli che non mi appartenevano. Non potevo certo immaginarmi che qualche anno dopo avrebbe firmato insieme a me il mio primo libro!
Ci lavorò in quello che era stato il capanno del carbone della sua casa nel Suffolk. Il tavolo era una vecchia porta in equilibrio su due pile di libri. Io stavo seduta su una sedia da giardino, accanto a cassette di mele. Colin scriveva con la piccola macchina portatile che mi avevano regalato per i miei quattordici anni, perché la sua era guasta. Non potrò mai dimenticare il soddisfatto tic-tac dei tasti, il ronzio delle api e dei mosconi, l’aria profumata che mi sfiorava, la sonnolenza che mi avviluppava alla sera, appena Harriet ci chiamava a tavola per la cena. Il nostro libro parlava di come si sviluppa il senso dei luoghi che alimenta l’intelligenza dei sentimenti.
Colin mi avviò verso un particolare percorso professionale, che coniugava arte, design ed educazione ambientale, partendo dal Royal College of Art e dal progetto Front Door alla Pimlico School di Londra (1974-76), poi lavorando con lui al progetto Art and the Built Enviromnent dello School Council alla TCPA (1976-79). I progetti furono elaborati in un periodo in cui il pensiero pedagogico era permeato dalle idee che mettevano il bambino al centro, e da quelle di giustizia sociale e di democrazia partecipata. Colin definiva il nostro lavoro una leva per un cambiamento della scuola e un mezzo per dare potere ai bambini.
La collaborazione con Colin influì sul mio mondo di intendere il mondo, di pensare e di lavorare. Gliene sono molto grata. Come collega, ho sempre avuto grande rispetto, ammirazione e affetto per lui. Non succede spesso che uno possa parlare così del proprio boss (uso apposta questa parola). Era sempre molto divertente: mi faceva ridere! E, fatto ancor più importante, mi faceva riflettere! C’erano tante occasioni di un apprendimento indiretto: mi ficcava casualmente un certo libro sotto il naso, citava un autore, faceva un’osservazione estemporanea, mi metteva in una situazione insolita, mi lanciava una sfida. Sapevo che mi sarebbe venuto in aiuto, mi avrebbe salvata, se mi fossi trovata nei guai. Come amico, aveva sempre un atteggiamento positivo, incoraggiava e sosteneva, anche se diceva che invecchiando si alzava ottimista al mattino ma andava a dormire pessimista.
Il mio ruolo di educatrice, di sostenitrice della partecipazione dei giovani alla trasformazione dell’ambiente mi è stato ispirato dalle sue idee. Non faccio tutto da sola. Colin ha influenzato una generazione di educatori in tutto il mondo, affermando come l’educazione all’ambiente urbano fosse un campo di studio emozionante, importante e stimolante. Ho avuto la fortuna di incontrare molti di questi educatori. È stato Colin che mi ha indirizzato verso le collaborazioni internazionali. Un giorno ci arrivò una lettera della International Society for Art , che lo invitava a Parigi per un fine settimana di seminari.
“Parigi” disse “è in Francia, no?”
“Sì” gli risposi.
“È all’estero, no?”
“Già” assentii.
“È il tuo reparto.”
Presa la decisione, respinte le obiezioni, andai a Parigi per quel seminario, seguito da una conferenza al Centre Pompidou e da un altro viaggio come consulente per un produttore televisivo, tutto perché Colin aveva deciso di non mettersi in viaggio!
Per quarant’anni ho avuto la grande fortuna di lavorare in ventitré paesi e sono stata in grado di condividere le idee di Colin con tanti altri. Non sono mai riuscita nemmeno ad avvicinarmi alla sua abilità di conferenziere e mi sarebbe stato impossibile adattare i miei tentativi al suo stile originale. Ma mi ricordo bene come se ne stava seduto con un’aria sgualcita e poi si alzava balzando su come se tornasse in vita quando era il suo turno di parlare. Mi ricordo com’era vivace quando raccontava e convincente nell’esporre le proprie argomentazioni, come sapeva intrattenere con storie e aneddoti e dare un tono spiritoso alle sue parole. Alle domande rispondeva con franchezza. Nessuno se ne andava dopo una sua conferenza senza avere in testa nuove opinioni e nuove idee. Ho tentato di emulare il suo metodo nelle mie conferenze di didattica attraverso il paesaggio, la collaborazione interdisciplinare nella scuola, l’educazione alla sostenibilità, l’arte pubblica e il Power Drawing. In tutte queste occasioni ci sono stati analoghe prese di coscienza, per agire, per sviluppare le capacità di partecipare alla vita culturale e per dare forma all’ambiente.
Colin è famoso per il suo lavoro come anarchico, ma io lo vedo più come un umanista. L’umanesimo è basato sulle caratteristiche e sui comportamenti che si considerano i migliori negli esseri umani. Colin credeva nel meglio delle persone ed era capace di tirarlo fuori da tutti.
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Colin Ward |
Colin Ward e la rivoluzione
delle relazioni umane
Roman Krznaric
Il giorno che ho saputo della morte di Colin, ho raccolto i suoi libri presenti nella mia biblioteca – almeno venti titoli su una quantità sorprendente di argomenti – e sono rimasto alzato a leggere tutta la notte. Uno dei miei preferiti è Influences, nel quale parla dei pensatori che hanno formato la sua visione del mondo, fra i quali Alexander Herzen, Mary Wollstonecraft e Paul Goodman. Quella notte mi sono reso conto di quanto Colin mi avesse influenzato, offrendomi nuove idee e ispirazione per il mio approccio all’arte di vivere.
Ho incontrato i suoi testi la prima volta nel 1997, sul giornale anarchico Freedom, che avevo cominciato a leggere come antidoto contro la stampa ufficiale che era ossessionata dalle elezioni generali che si tenevano in quell’anno. Sono ben presto diventato dipendente dai suoi libri, dal classico Anarchy in Action a titoli più eccentrici, come Goodnight Campers! The History of the British Holiday Camp. Più tardi sono diventato amico di Colin e di sua moglie Harriet (lei stessa una formidabile pensatrice e scrittrice) e per un decennio ho fatto viaggi regolari per stare in loro compagnia nel Suffolk. Colin era una persona gentile e un meraviglioso parlatore. Aveva una risata fanciullesca, un lampo di cattiveria nello sguardo, e ogni tanto o si metteva a cantare a voce spiegata mentre masticava una salsiccia, pescando dalla sua memoria straordinaria – che purtroppo è andata svanendo negli ultimi anni – per riprendere le parole di canzoni della sua infanzia nell’Essex negli anni trenta. Non deve sorprendere che suo figlio e i suoi due figliocci abbiano finito per fare i musicisti.
Pur avendo raggiunto una fama internazionale ed essendo spesso invitato a parlare in ogni angolo del mondo, approfittava raramente dell’opportunità di fare viaggi all’estero. Invece per lui uno dei momenti di gloria nel corso della settimana era un viaggio in autobus (non sapeva guidare) dalla sua casa in campagna alla città di Ipswich, dove andava al cinema con Harriet e faceva incursioni nella biblioteca locale, della quale deve essere stato il più fervido utente. Tornato a casa, quando non leggeva passava gran parte del tempo a battere i tasti della sua macchina da scrivere, per tirare fuori un altro libro di Colin Ward o per rispondere diligentemente ai propri corrispondenti – anarchici coreani, esperti di concessioni urbanistiche norvegesi, e tanti altri suoi interlocutori internazionali.
Di lui ammiravo soprattutto la capacità di vedere il buono nelle persone. Non sprecava energie per prendersela con coloro con i quali non andava d’accordo e di solito riusciva a trovare una parola gentile anche per loro. Dell’anarchico americano Murray Bookchin, dal carattere notoriamente spigoloso, una volta disse: “Sono proprio contento che ci vediamo al massimo ogni quindici anni, così ci scambiamo notizie sulla salute e la famiglia senza parlare di ciò che ci può unire o dividere.” Questo era il massimo della critica alla quale poteva spingersi e stava molto attento a evitare le beghe interne al movimento anarchico. Credo che potremmo imparare tutti da lui, che aveva capito che lo scopo delle idee è di contribuire a creare il mondo, non a distruggerlo.
La storia che lo riguarda che io preferisco (e che devo forse avere inconsapevolmente abbellito nel corso degli anni) si riferisce al suo periodo di insegnante della materia allora in gran voga dei liberal studies, al Wandsworth Technical College di Londra, negli anni sessanta. Molti suoi studenti facevano gli apprendisti nell’industria edilizia e quando entrò a tenere la prima lezione domandò loro che cosa volessero imparare – quali difficoltà incontravano nella vita che lui potesse davvero aiutare a superare. Venne fuori che la loro maggiore preoccupazione riguardava la mancanza di sonno. Allora Colin si riempì diligentemente la testa di nozioni scientifiche sul sonno e per un semestre si mise a tenere lezioni sull’arte del dormire. È una storia che mi è rimasta sempre impressa come insegnante, l’esempio estremo di come ci si può impegnare per andare incontro ai bisogni degli studenti.
Per la maggior parte delle persone l’immagine tipica dell’anarchico è un dinamitardo russo dell’Ottocento o un giovanotto con il passamontagna nero delle odierne manifestazioni anticapitaliste. Colin non corrispondeva a nessuna delle due immagini. Veniva da una tradizione anarchica differente, quella che vedeva il cambiamento sociale emergere non dalla violenza e dalla rivoluzione, ma dall’espansione della cooperazione e del mutuo aiuto nella vita quotidiana. I suoi scritti esaltavano le cooperative di lavoratori, le associazioni di inquilini, gli assegnatari di appezzamenti, i campi giochi per i bambini, le società di mutuo soccorso e le organizzazioni come la Royal National Lifeboat Institution. È lì che vedeva “l’anarchia in azione” – persone che si organizzano per proprio conto, su base volontaria, non gerarchica e decentrata – un modello sociale che rispecchia le teorie anarchiche di una delle personalità che più l’aveva influenzato, lo scrittore e geografo russo Kropotkin. Colin era convinto che una società anarchica non fosse una situazione prospettata in un immaginario futuro, ma una cosa che esisteva qui e ora, tutta intorno a noi, una forza latente, “come un seme sotto la neve”, com’era solito dire, che ha la capacità di far arretrare i confini dello Stato centralista e del sistema capitalista.
Colin amava citare Gustav Landauer, un anarchico tedesco dei primi del Novecento, che aveva scritto:
“Lo Stato non è una cosa che può essere distrutta da una rivoluzione, ma una condizione, una certa relazione tra gli esseri umani, un modo di comportarsi; lo abbattiamo stabilendo relazioni diverse, comportandoci in un modo diverso.”
Di qui l’idea che il cambiamento della società non viene da nuove leggi, da nuovi governi o da nuove politiche, ma da una rivoluzione delle relazioni umane a partire dal basso, modificando il modo in cui gli individui si trattano a vicenda. Era un metodo che ha inciso profondamente sul mio modo di pensare, allontanandomi dal mio precedente interesse per i partiti tradizionali e per il potere statale (ero un ricercatore di scienze politiche all’università) e spingendomi a elaborare le mie idee sull’empatia come forza del cambiamento sociale. Ciò che scrive Colin sul pensiero sociale di Martin Buber, nel suo libro Influences mi ha fatto conoscere un altro pensatore che ha profondamente influenzato le mie convinzioni sulla forza dell’empatia.
Al di fuori dei circoli anarchici, Colin ha avuto un importante influsso come studioso di storia sociale e di storia orale, mostrando ai suoi lettori paesaggi imprevisti e facendo ascoltare voci generalmente ignorate dagli storici tradizionali. Il suo libro The Allotment: Its Landscape and Culture (scritto con David Crouch) presenta le qualità di geniale improvvisazione degli orticultori, mentre The Child and the City ha rivelato la straordinaria creatività dei bambini che giocano nelle strade di periferia. Uno dei suoi ultimi libri, Cotters and Squatters, una cronistoria delle occupazioni di case e di terre in Inghilterra dal diciassettesimo secolo, è caratteristico del suo lavoro, che riporta in vita un’intera subcultura sociale nota solo a pochi. Una delle qualità che rendono così affascinanti i suoi libri, al di là della straordinaria gamma e originalità degli argomenti, è il suo stile dialogico, la sua prosa accessibile: è del tutto allergico al gergo teorico e accademico. Per questo lo considero uno dei grandi comunicatori politici del secolo scorso, accanto ad autori come George Orwell. Mentre scrivo, ho davanti a me una foto di Colin che mi fissa, che tiene d’occhio non solo la qualità delle mie idee, ma anche il mio modo di esprimerle.
Colin provava un’estrema avversione per il separatismo nazionalista, religioso o politico. Rifiutava le ideologie e il patriottismo semplicista che porta la persone ad ammazzarsi a vicenda. Nel 1942, nei giorni più bui della Seconda Guerra mondiale, il Colin sedicenne decise di ricopiare queste parole scritte dal giornalista Bill Connor sul Daily Mirror:
“I nostri bambini sono protetti dalla difterite grazie a ciò che hanno fatto un Giapponese e un Tedesco. Non prendono il vaiolo grazie all’opera di un Inglese. Evitano la rabbia grazie a un Francese. Dalla nascita alla morte sono circondati da un’invisibile schiera: sono gli spiriti degli uomini che null’altro hanno servito con assoluta fedeltà quanto il benessere del genere umano.”
Colin amava questa citazione, considerandola al centro della propria visione del mondo, e poco a poco arrivò a diventare il protagonista di queste stesse parole. Colin Ward fa ora parte di quell’invisibile schiera che circonda le nostre esistenze, la cui opera continua silenziosamente a formare il nostro benessere e a creare la rivoluzione delle relazioni umane della quale abbiamo un disperato bisogno.
Leggere Colin Ward (in italiano) |
Anarchia come organizzazione, Eleuthera, Milano, varie edizioni.
(a cura di Colin Ward), P. Kropotkin, Campi, fabbriche, officine, Antistato, Milano, 1975.
Dopo l’automobile, Eleuthera, Milano, 1992.
La città dei ricchi e la città dei poveri, e/o, Roma, 1998.
Il bambino e la città, Ancora del Mediterraneo, Napoli, 2000.
Acqua e comunità, Eleuthera, Milano, 2003.
Conversazioni con Colin Ward, Eleuthera, Milano, 2003.
L’anarchia. Un approccio essenziale, Eleuthera, Milano, 2008.
Per una efficace introduzione al suo pensiero consiglio di leggere di Stuart White, L’anarchismo pragmatico di Colin Ward, Bollettino dell’Archivio Pinelli, n. 30, Milano. |
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