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Franco Pasello
(foto Ivana Kerecki, grazie a Fabrizio Casavola) |
8 settembre 1976: suonano alla porta. La madre si alza da tavola, va ad aprire la porta: “Franco, ci sono due tuoi amici” – dice al figlio. Appena li vede, Franco capisce – “Mamma, non sono due amici. Debbo seguirli”. Monza, Peschiera del Garda, Gaeta, Latina, Roma, Sondrio, Desio: dopo 19 mesi e 5 giorni di carcere (14 di carcere militare, il resto di carcere civile) Franco è tornato a casa il 14 aprile scorso. Il congedo militare l’ha preceduto, arrivandogli a casa mentre ancora era nel “civile”.
Ora Franco Pasello, 26 anni, originario di Lendinara (Rovigo), garzone di panettiere dall’età di 13 anni, è qui in redazione. Ci siamo scritti nell’ultimo periodo della sua carcerazione, ci ha chiesto la rivista ed i libri, il contatto è stato presto stabilito: parliamo della sua vicenda; della vicenda di un giovane che “da sempre” ha deciso che lui il soldato non lo farà mai e che questa sua volontà ha saputo e voluto realizzare.
In effetti – dice Franco – è proprio così: fin da piccolo mi sono sempre detto che io il servizio militare non l’avrei fatto. Non vi erano ragioni ideologiche o di altro tipo coscienti in questa mia volontà, solo un istinto basato sulla convinzione che si trattasse (come poi è) di un’imposizione dall’alto, assurda ed ingiusta. Dall’età di 13 anni lavoro e prima di entrare in carcere non avevo mai frequentato compagni o gruppi politicizzati: la mia rivolta è nata su basi individuali.
Nel ’71 Franco riceve la cartolina per i “tre giorni”, cioè presentarsi alla visita medica presso il distretto militare. Ma lui non ci va e per quattro anni non succede niente. Nel ‘75 prima visita dei carabinieri a casa sua: prendono Franco e di forza lo portano a Como a fare i “tre giorni”, dopodiché lo lasciano ritornare al suo paese. Nell’aprile gli arriva la notifica di un processo a suo carico, presso la pretura di Como. Franco non ci va, non nomina nessun avvocato: quello d’ufficio non fa molto per evitargli la condanna ad un anno per il suo rifiuto di presentarsi puntualmente la prima volta ai “tre giorni”. Prima del processo, intanto, gli arriva la cartolina: a giugno deve partire soldato, la patria lo chiama. Ma Franco, ancora una volta, non risponde e l’8 settembre – nel modo descritto all’inizio – i carabinieri lo prelevano da casa e lo fanno rinchiudere nel carcere civile di Monza. Il giorno dopo lo accoglie il carcere militare di Peschiera del Garda.
Appena incarcerato a Monza – racconta Franco – ho subito iniziato uno sciopero della fame: per me questa era l’unica possibilità di protestare contro la mia detenzione, che istintivamente rifiutavo e sentivo ingiusta. A quell’epoca continuavo a non avere nessun rapporto con movimenti politici e a sorreggermi nella convinzione della giustezza del mio comportamento era proprio questa mia istintiva ribellione contro il servizio militare. Pensa che, data la mia situazione familiare, avrei potuto chiedere e forse anche ottenere l’esonero, ma non l’ho mai voluto fare. Lo sentivo come un compromesso che non avrei mai potuto accettare.
Una volta a Peschiera, Franco entra in contatto con alcuni detenuti “politici”, uno dei quali vicino all’anarchismo. I compagni gli propongono un impegno politico, ma Franco ancora non se la sente.
Nel giro di un mese lo trasferiscono a Gaeta, a centinaia di chilometri da casa sua.
È stato allora che ho cominciato a ricercare il contatto con gli altri; mi sono sentito isolato e ho cominciato a scrivere ai compagni che avevo conosciuto. Anche gli altri hanno cominciato a scrivermi.
Il 5 novembre si celebra al tribunale militare di Napoli il processo a suo carico per rifiuto del servizio militare. Ancora una volta Franco rinuncia a occuparsi della sua difesa legale: gli danno un difensore d’ufficio che il giorno del processo non si presenta, subito sostituito da un altro. Così, su due piedi. Risultato: Franco viene condannato a 14 mesi. L’appello, nel codice militare, praticamente non esiste. Lo rispediscono a Gaeta, al reclusorio militare. Vi resta fino al novembre, termine della sua condanna militare.
Durante la mia detenzione a Gaeta sono stato richiuso per punizione due volte in cella di isolamento: al posto della finestra, c’è solo una grata sul soffitto, aperta, in modo che qualsiasi cosa vi caschi sopra finisce immancabilmente dentro la cella. Come altri compagni, appena mi ci hanno rinchiuso ho iniziato lo sciopero della fame: che altro ti resta da fare in quelle condizioni?
Di scioperi della fame Franco ha accumulato una buona esperienza.
Nel luglio dello stesso anno, con Renato Zorzin, Beppe Frusca, Rinaldo Gabrielli, e Toni Cazzanello abbiamo effettuato un primo sciopero della fame della durata di 23 giorni; a novembre, insieme con altri detenuti (Lorenzo Santi, Roberto Francesconi, Roberto Scannagatta e Angelo Motta), ne abbiamo fatto un altro di pari durata. Chiedevamo che il periodo trascorso in carcere miliare fosse considerato valido al fine del servizio militare (una richiesta, questa, che evidentemente non ci riguardava direttamente, ma era fatta a favore di altri detenuti militari), che i colloqui con gli amici (della durata di 20 minuti) potessero essere prolungati come quelli con i familiari (una o due ore), che fosse sancito il diritto all’uso non censurato del telefono e quello di ricevere normalmente tutta la stampa (come nei carceri civili), ecc.
Franco ricorda anche la visita effettuata da Pannella nel reclusorio di Gaeta in occasione del loro secondo sciopero della fame. Il parlamentare radicale preavvisò la direzione del carcere della sua prossima visita e questo preavviso permise che si facessero ordine e pulizie dappertutto: i testimoni di Geova (oltre 200 solo a Gaeta) furono invitati a “mettersi bene”, con la camicia, e a esternare tutta la loro soddisfazione per la situazione in cui si trovavano. Nelle camerate, prima della visita di Pannella, si accese il dibattito: da una parte chi voleva nascondere tutti i difetti e le ingiustizie, in obbedienza alle indicazioni della direzione, dall’altra chi intendeva comunque denunciare la verità. Cosa che Franco e gli altri due compagni, che con lui hanno facevano lo sciopero della fame, hanno fatto durante il colloquio con Pannella, servito praticamente a niente.
Al 18°giorno dello sciopero della fame – ricorda Franco – ci hanno trasferiti al Celio, l’ospedale militare di Roma: dicevano che eravamo in pericolo di vita. La pressione, in effetti, c’era scesa molto. Scadevano intanto i termini della mia carcerazione militare: i 14 mesi inflittimi dal tribunale militare di Napoli erano trascorsi. Restava però l’anno inflittomi dal tribunale di Como per la mancata presentazione ai “tre giorni”. Dal Celio sono stato così accompagnato direttamente al carcere di Latina dove sono rimasto “in transito” per un mese; poi altri sei giorni “in transito” a Regina Coeli; quindi al carcere civile di Sondrio, dov’ero stato destinato. Forse per la mia partecipazione – unico tra le decine di detenuti a Sondrio – allo sciopero nazionale dei detenuti promosso dai carcerati di Padova per 27-28 febbraio, ai primi di marzo mi hanno trasferito nel carcere di Desio, salito alla ribalta della cronaca per la “scoperta” che l’autorità trattiene tutti i soldi versatile per il vitto dei detenuti, costringendo questi ultimi a comprarsi con la “spesa” tutto il necessario (a parte il pane e qualche uovo ogni tanto). Il 14 aprile scorso, infine, sono uscito in regime di semi-libertà, sotto la vigilanza di un assistente sociale.
Dall’intera vicenda Franco ha tratto conferma della validità del suo comportamento e della sua scelta: la sua critica del servizio civile proposto dalle autorità in alternativa al servizio militare gli pare un compromesso inaccettabile.
Spesso – dice Franco – mi sono sentito dire che io avrei scelto di andare in galera: non di una libera scelta si tratta, ma della logica e diretta conseguenza del mio rifiuto dell’esercito. È in questo contesto che l’alternativa del servizio civile per me non si è mai posta.
Gli chiedo dei rapporti che è riuscito a instaurare durante la sua detenzione: quanti hanno capito la sua scelta? E quanti invece lo hanno sostanzialmente deriso?
In effetti la grande maggioranza dei detenuti per reati comuni (a parte i testimoni di Geova, sempre ubbidienti all’autorità e spesso ostili a noi “politici”, noi “politici” eravamo ben pochi) non riesce a comprendere la nostra scelta di obiezione totale: ma qualcuno l’ha capita e con molti in genere sono riuscito a stabilire un dialogo efficace.
Ora che è fuori, Franco continua a occuparsi del problema dell’obiezione totale ed è in contatto con altri che se ne occupano, e soprattutto con quei compagni che in carcere stanno pagando per la sua stessa scelta di coerenza: Lorenzo Santi, Giovanni Pierantoni, e Matteo Danza nel carcere militare di Forte Boccea a Roma, Roberto Francesconi in quello di Gaeta (è possibile, naturalmente, che già all’uscita di questo numero di “A” qualcuno di questi compagni sia stato trasferito altrove).
Tutti compagni anarchici, come lo sono – dice Franco – quasi tutti quelli che hanno compiuto e compiono la scelta dell’obiezione totale, magari senza dichiararsi tali o forse senza neanche saperlo.
Proprio com’è successo a lui, che solo in carcere si è “scoperto” anarchico dopo essersi comportato di fronte all’autorità che lo voleva soldato proprio come si sono comportati tanti militanti anarchici.
Paolo Finzi
“A” 66, giugno/luglio 1978
Fermo, perseverante, dolce
Caro Paolo,
ho appreso con molto dispiacere la notizia della morte di Franco Pasello. Pur non avendo avuto modo di conoscerlo bene, è stato un compagno sempre presente nella mia esistenza nel movimento anarchico. Penso, le poche volte che sono stata a Milano, di averlo sempre incontrato mentre vendeva la stampa anarchica, in quel suo modo così fermo, perseverante, dolce. E poi nelle manifestazioni antimilitariste, contro la repressione...
Un altro compagno prezioso che se n’è andato, e quanti se ne sono andati negli ultimi anni.
Insieme ai compagni del gruppo siamo accanto a tutto il movimento anarchico milanese in questo momento triste. Per favore inoltra tu questa lettera a compagne e compagni milanesi.
Un abbraccio Paola e Gruppo Anarchico Germinal (Trieste)
il suo NO al censimento
Tempo fa tirai fuori delle foto di famiglia e mie per fare non ricordo più quale selezione. Una parte è poi rimasta su di una sedia ed essendo piuttosto pigro le ho lasciate lì magari nell’utopica attesa che si rimettessero a posto da sole.
Guardandole ora e dopo avere saputo, sabato scorso, della morte di Franco mi sono fermato a guardare la foto più in alto della pigna. È una foto di gruppo di tanti anni fa (la data riportata è il 15/8/1984) scattata davanti alla redazione di “A” (stavamo imbiancando i locali) e dove siamo presenti anche io e Franco oltre a Paolo e sua mamma Matilde, Aurora, MisatoToda dal Giappone, Maddalena e suo figlio Willy da Livorno, Mauro (altro obiettore totale) da Asola, la piccola Alice da Forlì.
Conobbi Franco nell’80 e una delle cose che mi hanno sempre colpito di lui è stato il suo itinerario ideologico condotto, diciamo così, a ritroso.
Ha cioè cominciato dove per altri si è avuto il punto di arrivo. La sua avversione per l’esercito e per tutta la ritualità che stava dietro l’operare dello stesso era del tutto dettata da un sentimento naturale di ribellione che solo in seguito, grazie alle letture e alla frequentazione delle idee è divenuta coscienza antimilitarista ed antiautoritaria.
Per un certo periodo costituimmo un piccolo nucleo (formato da Franco, da me e da Pasquale detto Lillino, emigrato da poco al nord da Molfetta) di diffusione della stampa anarchica e libertaria. Ogni sabato pomeriggio ci ritrovavamo alla fiera di Sinigaglia, una sorta di mercato delle pulci nel quartiere Ticinese a Milano, e Franco arrivava direttamente dal lavoro: aveva fatto il pane tutta la notte e parte della mattinata perché i negozi restavano chiusi la domenica e quindi bisognava fare pane doppio.
Portavamo con noi sia i giornali ‘storici’ di movimento come “UN”, “L’Internazionale”, “A” e qualche copia di “Volontà“, ma anche giornali come l’antimilitarista “Senzapatria” o come “Anarchia” giornaletto ciclostilato degli anarchici del Ticinese. A fianco della stampa periodica portavamo anche una serie di libri che andavano dai titoli delle Edizioni Antistato a quelli delle Edizioni La Fiaccola, ad altri di varia provenienza (Edizioni Archivio Famiglia Berneri, Edizioni R.L., ecc.
[...]
Penso che Franco fosse un uomo generoso, era sempre puntuale con il pagamento delle cose che diffondeva e lasciava sempre qualcosa, quando poteva, di sottoscrizione alle varie iniziative editoriali. Aveva un senso dell’etica abbastanza profondo, anche se con qualche spigolosità o coerenza eccessiva, come nella sua solitaria lotta contro l’ultimo censimento di cui riporto ciò che scrisse allora in una sua lettera:
Dico no al censimento. Non sono un ipocrita e per quanto mi sia stato suggerito di compilare il tutto in maniera generica e non veritiera preferisco riconsegnare il tutto in bianco. Non mi piacciono le schedature ma trovo ancora più assurdo che mi si voglia obbligare ad autoschedarmi. Posso consigliare l’ufficio di censimento comunale dirivolgersi alla questura di Milano la quale è in possesso di una notevole schedatura nei miei confronti in quanto anarchico e antimilitarista. Non accetto il censimento e le vostre statistiche in quanto violano la mia libertà individuale, i miei interessi, il mio privato, il tutto già fortemente messo alla prova nel mio vivere quotidiano dove in ogni dove cineprese installate all’esterno delle banche e dappertutto seguono costantemente i miei movimenti e la mia persona.
Non accetto il censimento in quanto vivo in uno stato di polizia dove ogni giorno rischio di essere fermato (e capita!) senza alcuna motivazione da solerti tutori dell’ordine. Non voglio fare il poliziotto di me stesso (ad ognuno il suo lavoro!). Non accetto il censimento da parte di un governo di un paese dove a manifestare e contestare l’esistente, sì viene uccisi e massacrati dalle forze dell’ordine (vedi Genova e non solo). Non accetto il censimento da uno Stato e governo (compresi i precedenti) guerrafondai, che alimentano guerre e miseria in Italia e in ogni parte del mondo, un governo che per l’ennesima volta ha fatto cartastraccia della sua stessa costituzione (L’Italia ripudia la guerra e bla bla bla). E nello stesso modo in cui venticinque anni fa ho detto No, ho rifiutato l’obbligo del servizio militare e sostitutivo, oggi dico ancora No e rifiuto l’obbligo che mi si vuole fare del censimento. Non accetto il censimento da parte di uno Stato che sempre difende i privilegi dei più forti a scapito dei più debo1i ed emarginati (penso soprattutto ai Rom e agli stranieri).
Non accetto il censimento da un governo dove come presidente del consiglio (cioé a governare-comandare) c’é il più ricco cittadino e più grande ladrone; dove come presidente della repubblica ci ritroviamo uno dei più potenti banchieri in pensione con la sua schifosa retorica patriottarda che in questi periodi di guerra può solo far vomitare le persone di buon senso (di sicuro il sottoscritto!). In questo Stato, in questa nazione come del resto nel mondo io mi sento Straniero. Non chiedetemi di collaborare.
Ognuno faccia la sua parte.
Franco Pasello (Sesto S. Giovanni)
Se dovessi pensare all’esistenza di una sorta di esistenza dopo la morte potrei pensare, nel suo caso, che sia finito in una specie di ‘paradiso’ dei Rom (popolo da cui era affascinato notevolmente), un ‘paradiso’ dove è possibile sentirsi finalmente e definitivamente liberi.
Ciao Franco!
Patrizio Biagi
(Pontremoli – Ms)
Una persona buona
Oggi sono andata in viale Monza, la Fai ha organizzato un incontro sulla pedagogia libertaria, ci troviamo con tanti compagni e amici e come tante volte si sta fuori, è ben organizzata ci sono dei compagni con dei bambini piccoli ed altri come Paolo e me con nostra figlia, Alba grande. E un’occasione per vederci baciarci stare insieme, mi guardo intorno, sto bene con i compagni/compagne, mi godo la loro compagnia, sono viva, io ce l’ho fatta Franco no!
Franco non riesco a pensarlo senza che le lacrime mi salgano agli occhi, anche se non era molto per i convegni ecc. ci sarebbe stato. Anche lui a salutare tutti e poi si sarebbe messo da un lato ad ascoltare un pochino. Tanti compagni e compagne sono morti in questi anni ho ancora il ricordo bruciante per Pinelli Serantini e tanti altri, per Franco è come se fosse diverso, non riesco ad accettarlo. Franco era uno di famiglia, lui c’era sempre, a vendere la stampa e sempre mi giro e lo cerco tra gli altri con il suo sorriso sornione e scanzonato, con la sua bici e la stessa passione per i gatti. In redazione abbiamo tolto una scatola con scritto Pasello, ci mettevamo la stampa anarchica che ci arrivava anche dall’estero e lui anche se non parlava altre lingue se non l’italiano se la portava a casa. Gli dava un’occhiata.
Caro Franco ho aspettato che Paolo mi dicesse scrivi ora, entro stasera altrimenti non hai più tempo. Come vedi il tempo l’ho trovato, volevo dirti che mi ricordo ancora quando in redazione facevamo la spedizioni della rivista, eravamo in tanti e tutti davano una mano e si scherzava, ti voglio bene, sei stato come un fratello per me, hai un posto importante nel mio cuore grazie di essere stato sempre cosi, anche se non sempre eravamo d’accordo sapevo che c’eri e grazie per la tua generosità e bontà, ecco ho detto la cosa giusta, ti ricorderò sempre come una persona buona. Ciao Aurora Failla
(Milano)
il suo rigore morale
Ho conosciuto Franco Pasello a una riunione antimilitarista e ci siamo sempre ritrovati. C’era quasi sempre quando venivo a Milano per qualcosa riguardante l’anarchia. Mi è rimasta impressa la sua tensione ideale, che emanava da ogni cellula del suo corpo, il suo rigore morale, che sprigionava dal suo porsi spontaneo, il suo aspetto da simpatico scapigliato.
Da diversi anni non ho avuto occasione d’incontrarlo, ma per me è rimasto un personaggio dell’estetica anarchica milanese, quella che ti fa identificare uno status. Andrea Papi
(Forlì)
Tutta la vita
per testimoniare
Sabato mattina 9 ottobre 2010: alla sveglia la radio ci avverte che anche oggi in Afghanistan hanno sparato sui militari italiani in cosiddetta “missione di pace”. Una bomba rudimentale ha fatto fuori quattro alpini della Brigata Julia. Quattro giovani che facevano il loro sporco lavoro. Magari erano anche convinti dalla propaganda militarista che i loro sforzi erano tesi a migliorare le condizioni di vita del popolo afgano, ridotto alla miseria più nera dagli interessi degli stati ricchi che sul suo suolo si combattono da sempre. Non mi sono mai stati simpatici i militari e ovviamente combatto la logica guerrafondaia, soprattutto quando giustifica la guerra vestendola con una falsa veste umanitaria. Penso anche che i ragazzi che entrano nell’esercito avrebbero potuto e dovuto fare scelte diverse e che il militare o il poliziotto non sono lavori che si possono fare per campare, in assenza di alternative valide. Ma so per esperienza che il lavoro non sempre si può scegliere e, del resto, la morte è un affare ancora più antipatico quando si muore sul lavoro. Chiaramente, i militari sono avvantaggiati nella morte rispetto agli altri perché diventano eroi con il funerale di stato, le autorità, il sostegno alle famiglie…
Pensando a queste cose, mi arriva la notizia che nella mattinata improvvisamente se n’è andato un compagno ed un amico, Franco Pasello, veneto di nascita e milanese (di Sesto San Giovanni) d’adozione. Ero molto legato a Franco anche perché era stato lui a regalarmi le prime riviste anarchiche della mia vita, un mercoledì di vent’anni fa alla stazione di Cadorna (dove lui dagli anni ’70 ad oggi faceva vendita militante ogni settimana). Negli ultimi anni, il nostro rapporto si è fatto ancora più profondo e non so più quante volte abbiamo passato serate e giornate insieme. Era un anarchico che si definiva “individualista”, con un profondo senso della responsabilità coniugato ad una sensibilità che sapeva relazionarsi con tutte le componenti (anche organizzate) dell’anarchismo. Lui c’era sempre. In ogni occasione in cui il suo apporto poteva essere utile e senza bisogno di doverglielo chiedere.
Franco aveva lavorato per quasi quarant’anni come fornaio (si era ritirato l’anno scorso per un dissidio insanabile con il suo ex datore di lavoro di una vita) ed era poco più che cinquantenne ma mostrava sulla pelle i segni di una vita vissuta senza mai tirarsi indietro. Un antimilitarista e antiautoritario viscerale che nel 1976/77 aveva dovuto subire 19 mesi in carcere (14 mesi di carcere militare e 5 di civile) per quella che all’epoca si chiamava obiezione totale ovvero rifiuto totale di servire lo Stato. In quell’occasione si era avvicinato a quell’anarchismo d’azione che poi sarebbe diventato a tutti gli effetti la sua vera famiglia. Franco amava l’azione e non accettava compromessi, risolvendoli spesso con lunghi scioperi della fame.
Sul carcere una volta aveva dichiarato alla rivista A:
“Data la mia situazione familiare, avrei potuto chiedere e forse anche ottenere l’esonero, ma non l’ho mai voluto fare. Lo sentivo come un compromesso che non avrei mai potuto accettare. [...] Spesso mi sono sentito dire che io avrei scelto di andare in galera: non di una libera scelta si tratta, ma della logica e diretta conseguenza del mio rifiuto dell’esercito. È in questo contesto che l’alternativa del servizio civile per me non si è mai posta…”. (1)
Questa frase rappresenta molto bene lo spirito indomabile di Franco che lui non ostentava mai ma che, tuttavia, era sempre presente nel suo sguardo.
Franco Pasello era autodidatta e aveva una biblioteca militante molto vasta che ha deciso di donare alla Rivista A. Nel suo minuscolo bilocale a Sesto, non c’era una libreria vera e propria ma i libri e le riviste erano dappertutto: quasi non c’era spazio per muoversi perché dovunque c’era un’edizione speciale dei testi di Bakunin o di Malatesta oppure la raccolta completa di Senzapatria (rivista antimilitarista e antiautoritaria fondata nel 1978 e durata quasi vent’anni con la quale aveva collaborato anche Franco). Si capiva che i libri erano per lui degli strumenti da usare per capire il mondo e attraverso le riviste che distribuiva in ogni occasione utile (vedi foto) arrivava a comunicare alle persone più diverse.
A casa sua, teneva tante fotografie del suo passato (era un fotografo dilettante) e una volta mi ha mostrato delle foto di un posto orribile chiedendomi (come faceva spesso) di indovinare le circostanze dell’immagine: era una delle carceri militari dove era passato in gioventù. A me ha ricordato i peggiori centri di detenzione per immigrati in Africa. Forse per l’abitudine alle difficoltà della vita, Franco era molto vicino alle sofferenze altrui. La compassione lo portava a farsi carico delle difficoltà degli altri in un modo che per lui era semplice nella sua radicalità.
Franco era di casa in molti campi rom italiani e conosceva molto bene la storia ed i costumi di queste popolazioni impegnandosi in prima persona per dare supporto alla loro causa per una vita dignitosa. (2) Spesso aveva dato una mano agli immigrati clandestini che riusciva a far sentire a casa propria con la sua semplicità e concretezza. Qualche anno fa, si era sposato solo per garantire un permesso di soggiorno ad una donna immigrata in gravi difficoltà.
I morti non sono tutti uguali. Franco amava tutte le persone: soprattutto quelle maltrattate dalla vita e sapeva che la guerra non può mai portare la libertà. Per questo si è speso in prima persona tutta la vita per testimoniare la sua disubbidienza all’autorità delle armi. Sono certo che Franco Pasello, se ne avesse avuto il tempo, avrebbe avuto compassione dei ragazzi con la penna nera morti in modo orribile lontano dalla propria famiglia, ma ciò non avrebbe cambiato di una virgola la sua vita dedicata a combattere contro la loro scelta di violenza.
Carissimo compagno Franco, sabato mattina è successo a te quello che succede sempre ai Rom come tu perfettamente lo descrivevi in un articolo:
“[Que]i rom che anche quando si trovano in un posto da trent’anni e vivono in una casa hanno comunque pronta la campina perché sanno che in qualsiasi momento possono avere urgenza di partire, possono essere costretti a partire”. (3)
Si vede che era il tuo momento per partire con una roulotte scassata. Mentre noi rimaniamo qui conservando un pezzetto della tua umanità perché ci ispiri a continuare la lotta contro l’autorità e la violenza dei potenti. Ci mancherai. Marco Gastoni
(Milano)
Note
- Da A rivista Anarchica http://xoomer.virgilio.it/anarchivio/archivio%20testi/066/66_08.htm
- Ho trovato questo articoletto scritto da Franco “Dalla parte dei Rom”: http://www.angelfire.com/ma/art21/parterom.html
- http://www.angelfire.com/ma/art21/parterom.html
Alla nostra riunione
del giovedì
Se posso aggiungere una cosa, Franco ultimamente, non solo si confidava sulle vicende della sua vita (ci aveva appena detto che sperava di arrivare ai 60 anni), ma si sedeva anche con noi all’inizio delle nostra riunione del giovedì, quando passava per prendere Umanità Nova, ascoltava per un po’, poi si alzava, salutava e ripartiva con la sua bicicletta.
Il giovedì prima di morire non era passato, allora gli abbiamo telefonato e incredibilmente ci ha detto che si era dimenticato! lui che ogni giovedì si premurava di accertarsi che UN fosse arrivato. Massimo Varengo
(Milano)
“Un panettiere
come Sante Caserio”
Ho conosciuto Franco tra il 1977 e ‘78, a Casatenovo, forse nella prima iniziativa pubblica che avevamo organizzato come gruppo anarchico, chiamato Agitazione (la A è cerchiata): il tema era “Pace e antimilitarismo”.
Franco era un obiettore totale, era appena uscito dal carcere militare per aver rifiutato di indossare la divisa e di accettare di diventare un “eventuale” assassino (legalizzato) in divisa. Non era di molte parole, forse anche un po’ timido, mi hanno molto colpito la sua umiltà, la sua grande dignità, la sua umanità consapevole di essere solo un “padrone” della sua vita.
Con gli anni che passavano siamo diventati amici. Insieme con altri compagni eravamo presenti ai vari incontri anarchici, da Venezia 1984 al convegno antimilitarista a Forlì, all’inaugurazione ad Ancona della piazza Errico Malatesta, al carcere militare della Spezia durante il processo a Mauro Zanoni, altro compagno antimilitarista, ecc. Il 1°maggio, poi, era diventato un appuntamento annuale in viale Monza, a Milano. E dopo il pranzo sociale, in manifestazione. Quante volte a casa sua siamo stati invitati a mangiare le sue ottime pizze, a volte scherzando diceva “sono un panettiere come Caserio” con gli anni non è cambiato molto.
È sempre stato molto disponibile con gli altri, un po’ chiuso e introverso, ma sempre pronto ad aiutare chi ne aveva bisogno. Instancabile divulgatore della stampa anarchica (e per lui erano anche un’occasione per parlare con la gente), Umanità Nova, “A” rivista e molti dei libri che ho (circa 300 titoli) li ho comprati da Franco in questi lunghi anni.
Amava la libertà, gli ultimi i diseredati, ha vissuto per gli altri, anche se si riteneva individualista. Era sempre alla ricerca della compagnia, del calore dei compagni, amava mostrare le tante foto che faceva ai suoi amici Zingari. La sua casa era sempre aperta a tutti, anche il suo cuore.
Franco ci mancherai, hai lasciato un enorme vuoto difficile da colmare. Resterai, come il nostro indimenticabile compagno e amico comune Pierluigi Magni, vivo nei ricordi dei bei momenti trascorsi insieme. Ciao Franco! Un grande ricordo da Tiziano Viganò
(Casatenovo – Lc)
Fabio Magni
(Usmate – Mi)
e da tutti i compagni della Brianza
La nostra colonna milanese
Ciao Franco,
ti avevo scritto a fine maggio, pensando che anche quest’anno con il solito treno avresti risalito il solco dell’antico ghiacciaio per goderti la vista dei monti di Valtellina.
Anche solo un paio di giorni lontano dal caos e dalla pianura urbanizzata non avrebbero fatto male a un padano libertario e sovversivo come te, nato in Polesine sotto il livello del mare e morto ai margini della Metropoli.
Dopo la telefonata di Sergio non volevo credere a questa cruda e inaspettata realtà ben sapendo non trattarsi di uno scherzo di pessimo gusto.
Ora non restano che i ricordi del nostro vissuto, attraverso i sentieri percorsi assieme nell’arco dei trent’anni che ci sono scivolati alle spalle.
Il treno Milano-Sondrio – ricordo – avevi iniziato a frequentarlo assiduamente agli inizi degli anni ottanta, quando a Sondrio venivi a caricarti nello zaino le copie di “Senzapatria” fresco di stampa per poi distribuirlo a Milano alla fiera di Sinigallia. Con orgoglio ti si riteneva a pieno titolo la nostra colonna milanese e di sicuro la rivista antimilitarista e antiautoritaria poteva continuare le pubblicazioni grazie anche al tuo impegno militante di diffusore tenace, e quasi stoico direi.
Ricordi quando quella sera del lontano 1983 ti fermarono alla stazione ferroviaria per accertamenti? Certo i tuoi precedenti penali per il rifiuto degli obblighi militari e la tua schedatura avevano infastidito i locali sbirri che già mal digerivano che una rivista come “Senzapatria” venisse elaborata e stampata a Sondrio. E infatti dopo solo cinque minuti dai tuoi accertamenti gli agenti di una volante partita in quarta dalla questura ti fermavano sulle scale di casa mia. Il loro leggero ritardo impediva però loro di sequestrarti nel silenzio della via e le tue grida di protesta attirarono la mia attenzione provocando poi il parapiglia che ne seguì. Tutti in questura e poi tu rilasciato ed io intrattenuto e incriminato per oltraggio a pubblico ufficiale. E quanto te la menavi per questo mio fermo notturno in questura e i due conseguenti giorni di carcere. Proprio tu che con i tuoi venti mesi di galere militari e civili, tra cui Sondrio, avresti dovuto vivere tranquillamente la vicenda. Di fatto dopo un processo e l’assoluzione per insufficienza di prove gli sbirri compresero che non era il caso di forzare la mano in futuro. Una piccola vittoria e affermazione di libertà per gli anni seguenti, dove la nostra frequentazione non incontrò più ostacoli.
E quante tappe tra la Tipolito di Carrara e la mia casuccia valtellinese nel tuo modesto e vivace appartamento di Sesto San Giovanni alla fine degli anni ottanta, quando tu già frequentavi i campi nomadi ed eri affascinato da questi popoli senza stati ed eserciti che mai guerra mossero contro alcuno.
Come dimenticare nei primi anni del terzo millennio l’ospitalità per Annaberta, la madre di Marco Camenish, nelle soste obbligate verso il carcere di Biella. Quante pizze da te autoprodotte e quante birre e discussioni vive, strappando preziose ore di sonno per poi all’alba riprendere il viaggio verso il Piemonte.
La nostra storia in fin dei conti è un miscuglio di carcere, editoria libertaria, sovversione, vita godereccia, solidarietà, affinità, amicizia e le inevitabili contraddizioni che puntualmente si vivono in questo merdoso mondo autoritario che ci circonda.
Carissimo Franco, voglio pensarti con l’affetto per tutto quanto ci ha accomunato in questi decenni perché l’idea di un mondo migliore non ti ha mai abbandonato e il non voler rassegnarmi allo squallore quotidiano credo sia il miglior modo di ricordarti. Piero Tognoli
(Sondrio) |