Incrocio di storie:
i libri con dentro le voci
Ci sono in giro dei libri che possono incendiare la memoria e proiettarci verso il futuro. Libri di storie e di Storia. Storia tutta vissuta, tanto da poter essere raccontata.
Un amico giornalista/editore (bisogna far tutto da soli, ormai!), Checchino Antonini, me n’ha allungato uno nella bolgia del Salone del libro di Torino: “A te che interessano le storie”. Mi interessano le storie, in effetti, mi interessa la testimonianza, mi interessa il tentativo che fa di questi tempi la letteratura di tornare oralità, di smettere i suoi panni più accademici, le sue costruzioni ardite, per militare nel campo della testimonianza. Icché poi non dista più di tanto da una scelta estetica: l’idea più è bella e più e vera diceva Ivan della Mea.
“D’altri tempi” (ed. Alegre, 13 euro) raccoglie 10 narrazioni di Stefano Tassinari, uno dei più rigorosi combattenti letterari in attività. Stefano lascia per un po’ gli affreschi in forma di giallo politico che ce l’hanno fatto conoscere (“I segni sulla pelle”, “L’amore degli insorti”), lascia da parte la funzione demiurgica del narratore e si eclissa dietro dieci voci. Ognuno dei racconti che compongono questo bel libro (e, più ancora che “bello”, utile, che è il massimo complimento che mi riesce di fare a un’opera d’arte) è raccontato in prima persona da un testimone o dal protagonista stesso del fatto narrato.
Brian Jones, il chitarrista ribelle dei Rolling Stones, percorre con tono divertito la propria delirante carriera, la propria esistenza sfortunatamente breve.
L’agonia di Carol Lobravico – attrice del Living Theatre – ci è cosegnata dalla memoria inquieta di un secondino del manicomio criminale di Pozzuoli, dove la poveretta trovò la sua fine assurda, legata a un letto di contenzione. L’io narrante di questo racconto riecheggia cupamente il Pasquale Cafiero deandreiano.
Salvador Puig Antich, l’anarchico catalano garrotato nel 1974, ci agghiaccia con la diretta delle sue ultime ore: “Prima mi fasciano il collo con un grande anello di ferro, poi un aiutante del boia verifica che le mie vertebre cervicali siano perfettamente posizionate all’altezza del foro praticato nel legno. Adesso è tutto a posto, a parte la Storia, che sta per incamminarsi su una strada sbagliata. Qualcuno dà il via all’esecuzione. Sento lo scricchiolio del legno, e poi il cigolio della vite che comincia ad entrare nel tronco della garrota, e subito dopo il freddo dell’anello che inizia a stringermi il collo, e poi la punta della vite che mi tocca la zona più alta della spina dorsale. Istintivamente cerco di ritrarmi, ma questa specie di collare me lo impedisce. Tutto avviene rapidamente, anche se a me sembra il contrario. La punta inizia ad infilarsi nella pelle, mentre l’anello, sempre più stretto, mi riduce il respiro. Sono gli ultimi istanti. Vorrei gridare “viva l’anarchia!”, ma non ho abbastanza fiato e allora lo penso soltanto. È un attimo: avverto il sangue che mi bagna la schiena, la punta che cerca un passaggio tra due vertebre, il collare che mi soffoca, lo sforzo del boia, le voci delle guardie e del giudice militare, i miei lamenti, il dolore fisico, ancora il sangue, ancora la punta, ancora il cerchio, ancora il sangue, ancora la punta, ancora il cerchio… crac.”
E così via, fino ad arrivare al penultimo racconto dove la voce del narratore – che già aveva fatto capolino nel brano dedicato alla Bloody sunday irlandese – rievocando l’assassinio in piazza del militante bolognese Francesco Lorusso, compie una sorta di autopsia psicologica, un bilancio generazionale “finché i necrologi sui giornali saranno troppi per farci credere di essere ancora una generazione”. In questa pagina c’è il senso dell’intero libro. Un incrocio di vite che si agitano inquiete al racconto, la capacità unica della voce, anche così trascritta in letteratura, di essere cosa viva, di dire che qualcosa brilla sul fondo di questa notte, che le stelle sono morte da milioni di anni, eppure permangono come un movimento di luce a indicare la strada per chi va.
Finalmente esiste un libro (Canzoni, scritti, disegni, sculture) su Herbert Pagani, cantautore, poeta, pittore, artista multimediale ante litteram. L’ha pubblicato l’editore Barbes di Firenze (25 euro).
A parte qualche sito internet, tanto benemerito quanto amatoriale, mancava nel nostro paese qualsiasi raccolta organica su questo autore, a me tanto caro da avergli dedicato uno dei primi articoli della rubrica. Questo libro arriva per colmare un vuoto, e lo fa portando anche il prezioso allegato di un CD antologico.
È un’emozione potersi confrontare con la vitalità, qualche volta disperata, ma sempre rivoluzionaria di questo nomade dell’arte. È un’emozione e sempre un rimpianto confrontarsi con le tante belle intuizioni, con le canzoni profonde ma mai spocchiose di questo autore che ha fatto la storia, non solo della canzone italiana e francese, ma anche della conduzione radiofonica, inventandosi, all’inizio degli anni ’60, il mestiere del Deejay a Radio Montecarlo. È toccante seguire il percorso di quest’artista errabondo che esordì come disegnatore, che conquistò il successo come intrattenitore, che emigrò in Francia perché era un cantante troppo impegnato per il pubblico televisivo, che si assunse l’ingrato compito di sostenere una posizione di sionista-libertario con sincerità.
Alla fine Herbert, bambino dilaniato sin dall’infanzia dal senso d’abbandono, inconsolabile partigiano della pace che “in mancanza di radici” aveva tentato di “farsi delle ali”, tornò a fare il pittore e lo scultore, chiudendo le parole nella gola per tristezza e forse rimanendone strozzato a soli 44 anni.
Il libro che finalmente abbiamo fra le mani ci consegna testi e documenti mai ristampati o polverizzati in giro per la rete, ma lascia in bocca il gusto dell’occasione perduta. Le parti analitiche e biografiche sono davvero un po’ troppo ridotte all’osso e l’impressione è che ci troviamo di fronte a un faldone a cui non sia stato dedicato il necessario lavoro redazionale per trasformarlo in un libro… perché un libro – soprattutto all’epoca di internet – dovrebbe essere qualcosa di diverso da un sito di un appassionato collezionista.
Essere voce di Luca Pessina. Tutt’altra complessità ci presenta un saggio specialistico che parte dalla figura di Demetrio Stratos, l’indimenticabile voce degli AREA, per sviluppare una riflessione ardita sul tema della vocalità.
Stratos nella sua brevissima parabola – 34 anni appena aveva quando una lucemia lo folgorò – sviluppò un uso impressionante della voce, sganciandosi dal linguaggio per avviare una ricerca sul suono, sul timbro, sulla vibrazione corporea stessa. Di questa ricerca, oltre alle parti vocali dei dischi degli AREA, Demetrio lasciò ampia testimonianza in una serie di registrazioni della seconda metà degli anni ’70: “Metrodora” e “Cantare la voce”.
Soprattutto su queste registrazioni si è interrogato Luca Pessina nel libro “Essere voce” (ed. Aereostella, 18 euro), rendendo esplicito un percorso che rende allo sforzo di Stratos tutto il suo valore di guida nel viaggio della riappropriazione del proprio corpo, inteso come matrice del suono umano.
Il logos, il discorso, la poesia, hanno subordinato la voce alla parola, le hanno tolto il corpo e l’hanno relegata all’unico ruolo di strumento utile alla comunicazione. In una società in cui un eccesso di informazioni strangola l’uomo nel vuoto di sostanza, si pone il problema del cosa è la voce e più ancora del perché è la voce. Il percorso alla scoperta del proprio suono, del proprio fiato appare allora come un atto fondante della riscoperta di sé. Il discorso di Pessina, sotto l’egida di Stratos, mira alla riappropriazione del corpo attraverso la riscoperta della voce sepolta nelle nostre mute parole.
Questo è un libro eminentemente filosofico, che raggiunge un momento di grande intensità quando viene raccontata l’esperienza fatta dall’autore con un ragazzino undicenne con forti problemi relazionali e cognitivi. In questa parte del libro Demetrio Stratos pare risorgere, il suo immane sforzo per dar vita a un progetto di liberazione corporea che era assieme esistenziale e politica diventa – tanti anni dopo la sua morte – uno strumento di sostegno essenziale per un bambino che di Demetrio mai ha sentito parlare, ma che per tramite di Pessina, ha potuto beneficiare di quell’eroica ricerca interrotta dalla stupidità della morte, ma rimasta qui, utile a noi tutti.
Ivan Della Mea. Un inedito e testimonianze.
Ivan della Mea è stato un artista imprescindibile. Resta un punto di riferimento.
Il realismo poetico delle sue prime canzoni, quelle del tempo in cui viveva, capiva e cantava l’epica disastrata dei sottoproletari milanesi (El me gatt, La canson del desperà), si era fuso – fra la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70 – con la materia visionaria dell’utopia rivoluzionaria che prendeva corpo e presto franava (La nave dei folli). Nella fase più matura della sua creatività il tema onirico era diventato un tutt’uno con l’ansia del futuro, l’amore per la vita faceva il paio con l’onnipresenza della morte (Il capitano, Binario 3). Anche la forma nel lavoro di Ivan era esplosa: le canzoni s’erano ramificate in analisi del nostro tempo, gli articoli erano diventati accrocchio di allitterazioni e rime interne, i suoi libri autobiografici si apparentavano ai cicli di ballate dedicate a Gianni Bosio… credo che nei prossimi anni il lavoro di Ivan sarà ancora molto presente se vogliamo una bussola per agire con le parole, con le chitarre e con la voce nella realtà.
Qualche mese fa è apparso un volume collettaneo: “Ivan della Mea. Un inedito e testimonianze” (Jaca Book 18 euro) che per metà (80 pagine) è occupato da un sostanzioso scritto inedito del Mea e per il resto da testimonianze sulla sua pratica di intellettuale disorganico di Gianni Mura, Cesare Bermani, Enrico de Angelis, ecc.
L’inedito di Ivan “Icché” (un toscanismo per dire “che cosa”) è un gustoso saggio filosofico / politico / biografico in forma epistolare (anzi di mail) scambiate con l’amica filosofa Rosaria Parri. Uno zibaldone di pensieri talvolta cupi, talvolta pieni di una gioia di vita e di un riso bambino ai limiti del nonsense, che chi non conosceva bene Ivan fa fatica a conciliare con la sua immagine di cantautore impegnato. Frammenti di versi che chissà se un giorno riemergeranno anche cantati in qualche nastro inedito. Episodi di una lunga vita densa d’incontri che non avevano trovato posto in “Se la vita ti da uno schiaffo” o in “Accadde a Tuscamelot” (i libri autobiografici pubblicati in vita).
Insomma, Ivan Della Mea è vivo e lotta insieme a noi.
Alessio Lega
alessio.lega@fastwebnet.it
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