Il l movimento di occupazione delle case e delle aree industriali non affittate o abbandonate, iniziò a Berlino tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta ed ebbe uno sviluppo notevolissimo nel periodo seguito alla riunificazione della città, quando cioè molti palazzi di Berlino Est e dei quartieri prospicienti il “Muro”, furono abbandonati in vista di una loro demolizione o ristrutturazione.
Nel corso degli anni molte di queste occupazioni furono poi legalizzate da contratti collettivi fra gli occupanti e i proprietari di allora, solitamente agenzie pubbliche incaricate del risanamento dei quartieri a Est. I contratti, molto spesso prevedevano che da parte degli occupanti fossero presentati progetti di carattere sociale che giustificassero l’uso dell’immobile da qui il termine spesso usato di “casa-progetto”. Nacquero così case femministe, case transgender, case gay ma, come la Regenbogen Fabrik, anche case sociali che prevedevano asili per bambini, servizi di medicina, officine e laboratori di vario genere oltre, naturalmente, spazi abitativi. Ma come mai proprio Berlino è divenuta la capitale delle esperienze alternative e autogestite? Lo abbiamo domandato a Rolf Lindemann, protagonista sin dagli anni Sessanta dei movimenti sociali berlinesi, che ha vissuto in prima persona la stagione delle occupazioni.
Rolf Lindemann – I collettivi autogestiti a Berlino nascono anche grazie
alle particolarità della storia della città. Berlino, già dagli anni Cinquanta era diventata il punto di riferimento per molti artisti che cercavano luoghi dove esprimersi liberamente. La città poi era nota anche per un altro particolare: chi in Germania Ovest non voleva svolgere il servizio militare, l’unica possibilità che aveva era quella di prendere la residenza a Berlino Ovest, città che, per ragioni legate alla particolare situazione “di confine”, era stata “demilitarizzata”.
Così, soprattutto negli anni Sessanta, dopo i tempi bui, così li chiamo io, del decennio precedente, dove intanto si era comunque sviluppato un pensiero critico in merito a diverse tematiche come il nucleare, la democrazia, il fascismo, all’ambiente artistico berlinese si affiancarono moltissimi giovani pacifisti e antimilitaristi.
In conseguenza di queste particolarità “socioculturali”, quando nacque il movimento del ’68 questo ebbe da subito una base più solida, più di massa. Per via di questo fatto, a Berlino già negli anni Settanta nel movimento antagonista extraparlamentare si cominciò da subito a ragionare e a sperimentare nuovi modelli esistenziali: già nel quotidiano, cioè, si cominciò a costruire una vita diversa. Negli anni Settanta, ad esempio, si crearono i primi collettivi di lavoro: collettivi di falegnami, collettivi di tipografi e così via; nel frattempo nacquero tante esperienze di asili nido e scuole materne autogestite, addirittura furono sperimentate le prime scuole elementari in autogestione. Il Sessantotto a Berlino aveva determinato una forte spinta all’autogestione nel senso che aveva dato la possibilità a ciascuno di prendere in mano la propria vita e di organizzarla in tutti gli ambiti, in quello dell’educazione dei figli come nella vita delle persone: non per nulla furono tantissime le esperienze di convivenza nelle comuni. Questo è stato poi l’humus in cui negli anni Settanta si è sviluppata la forte critica attorno alle politiche urbane della città. Nei vecchi quartieri operai di Berlino, come Kreuzberg per esempio, che per la vicinanza alle grandi fabbriche subirono nella Seconda Guerra mondiale grandi distruzioni dai bombardamenti aerei, si stava affermando una politica urbana che voleva abbattere praticamente tutto per costruire strade ed autostrade. Non a caso, proprio in quei quartieri si formò il movimento di occupazione delle case contro queste logiche di amministrazione urbana che non consideravano più la città come luogo dove i cittadini potessero vivere. Sia chiaro però che era molto più di un movimento “per la casa”, era una specie di “rivitalizzazione” della partecipazione, spingeva cioè la gente a riprendersi la città, a impegnarsi, a responsabilizzarsi, sulle zone verdi del proprio quartiere, per i luoghi dove i bambini potessero giocare, per le strutture dedicate agli anziani. È stato un movimento che ha rivendicato una città dei cittadini contro l’idea di città-centro commerciale dove la gente vive solo per consumare. In quel periodo furono occupate circa 160 case di cui circa la metà si trovava proprio a Kreuzberg perché era quello dove più alto era l’interesse dell’amministrazione pubblica all’affermazione delle nuove politiche urbane e dove quindi c’erano più persone disposte a dire: noi vogliamo partecipare, vogliamo decidere come e dove vivere. Se tu cammini oggi a Kreuzberg, vedi tanti segni di questo passato e vedi ancora tanti progetti autogestiti ancora oggi, dopo venti, venticinque trent’anni vivi e che stanno contribuendo alla buona qualità di vita del quartiere.
Centosessanta case occupate, interi quartieri popolari e multietnici “rivitalizzati” dall’arrivo di migliaia di nuovi abitanti politicizzati, l’estetica dei palazzi arricchita da centinaia e centinaia di murales multicolori: come reagì la città all’ondata libertaria che la investì?
R.L. Quello dell’occupazione delle case non è stato un vero e proprio movimento di massa. Alle più grandi manifestazioni hanno partecipato al massimo 20 mila persone, ma ciò che è più interessante è stato il riconoscimento da parte dei cittadini “comuni” che hanno contribuito allo sviluppo del movimento nella quotidianità, pur se hanno meno spinto dal punto di vista della piazza. Mi ricordo che all’epoca era stata fatta un’analisi di cosa i cittadini di Berlino pensassero dell’occupazione delle case, nei primissimi tempi solo un 20 per cento era d’accordo con quest’atto che era considerato “illegale”; dopo circa un anno e mezzo fu fatta una nuova indagine dalla quale emerse che più della metà della cittadinanza era d’accordo con questa pratica e ciò significò fare un notevole salto di qualità, fu il riconoscimento del fatto che il movimento non era visto come un movimento nato per soddisfare un bisogno particolare come quello di possedere una casa con un affitto pagabile ma come un movimento capace di lottare per molti interessi di base dei cittadini.
Da allora sono trascorsi ormai più di trent’anni? Cosa è cambiato nel frattempo?
R.L. In questi anni è cambiato parecchio, se tu oggi vai a Kreuzberg, come dicevo prima, vedi ancora molti segni di ciò che è stato e di ciò che c’è ancora, ma è indubbio che nel corso del tempo ci sia stato anche un riflusso. Ci sono state case occupate che sono state riprivatizzate, ci sono stati molti progetti che sono falliti, e soprattutto la situazione della casa è diventata molto difficile perché sono arrivati tantissimi investitori. Una buona parte delle case occupate era un tempo proprietà o comproprietà del comune. Negli ultimi anni, in conseguenza delle grosse speculazioni clamorosamente fallite che l’amministrazione cittadina aveva fatto con le banche e che hanno provocato debiti enormi alle casse pubbliche, le case prima di proprietà pubblica sono state vendute ai privati, si sono ridotte le spese sociali e quelle destinate a migliorare la qualità della vita dei cittadini. Non si deve poi dimenticare che il quartiere Kreuzberg, che all’epoca del movimento delle case era considerato periferico perché confinava proprio con il muro che divideva la città, dopo l’unificazione delle due Berlino è venuto a trovarsi nel centro della città. È chiaro quindi che la “nuova” collocazione centrale ha reso ancora più attraente il quartiere che già gode di una buona qualità della vita perché, come dicevo, c’è un elevato livello di partecipazione che rende piacevole viverci. C’è tranquillità fra migranti e tedeschi nel quartiere: Kreuzberg è uno dei pochi quartieri dove il razzismo o la violenza è a un livello abbastanza basso rispetto ad altre città tedesche o anche ad altri quartieri di Berlino, nonostante che ancora adesso sia un quartiere abbastanza povero. Questo clima un po’ diverso, un po’ libertario attira gli investitori perché c’è molta gente che vorrebbe vivere lì, anche gente con più soldi, gente del ceto medio e medio-alto. Non per nulla nell’ultimo decennio stiamo vivendo un processo di gentrificazione del quartiere nel senso che parte della popolazione originale del quartiere è costretta ad andarsene. Con l’arrivo degli investitori e le loro ristrutturazioni degli immobili, chi non è in grado di pagare i nuovi affitti richiesti viene espulso, deve spostarsi in altri quartieri più periferici (naturalmente, l’espulsione “forzata” degli inquilini di un palazzo occupato è sempre stata eseguita con la nota “gentilezza” delle forze dell’ordine: scorso 2 febbraio, ad esempio, il quartiere Friedrikshain di Berlino fu svegliato all’alba dal rumore di centinaia di camionette e blindati della polizia e da circa 3000 agenti in tenuta antisommossa mobilitati per sgombrare, dopo vent’anni di occupazione, il palazzo conosciuto con il nome di Liebig 14, dove era attiva una delle molte cosiddette case-progetto – ndr). Molti appartamenti, poi non vengono nemmeno più affittati ma venduti. Questo ha fatto sì che comunque, negli ultimi due o tre anni, le associazioni dei cittadini insieme alle associazioni degli inquilini siano diventate sempre più forti e stiano contestando l’amministrazione della città perché intervenga in qualche modo a bloccare questo processo. Personalmente ho assistito qualche giorno fa (l’intervista è stata raccolta nel mese di aprile 2011 – ndr) ad un’assemblea che si è svolta in una chiesa: c’erano più di trecento persone di tutte le fasce sociali, da migranti a persone dei ceti medi a operai, che si sono incontrate e che si stanno preparando in maniera sempre più decisa a resistere alla gentrificazione. Penso che nei prossimi due anni le lotte per la casa a Berlino diventeranno un grosso problema per qualsiasi amministrazione…
R.G./G.P.