Qualche settimana
fa ha suscitato scalpore l’emanazione della sentenza
della Corte di Cassazione sulla violenza sessuale di gruppo.
Leggendo i commenti, gli articoli, dopo la diffusione della
sentenza n 4377/12 della terza sezione penale della Corte
di Cassazione, come donna mi sono sentita di dover esprimere
un parere, un’opinione, politica.
Prima di far questo proverò a fare un po’ di
chiarezza sull’accaduto, non per spiegare qualcosa a
qualcuno che non ritengo in grado di capire, come da molti
articoli è sembrato, ma perché credo fortemente
nella condivisione del sapere come forma di lotta, e perché
credo che divincolarsi tra i cavilli giuridici non sia cosa
facile per nessuno.
Proviamo a fare un passo indietro rispetto alla pronuncia
della Cassazione. In primis l’ambito di intervento della
sentenza è quello delle misure cautelari e non delle
sanzioni. Vale a dire quelle misure che vengono adottate prima
che via sia stata una pronuncia nei confronti dell’indagato
e qualora ricorrano oltre ai gravi indizi di colpevolezza
alternativamente pericolo di inquinamento delle prove; pericolo
di fuga; pericolo di reiterazione del reato(ex art 274cpp).
Cioè siamo a dire che si corre il rischio di essere
sbattuti dentro prima di che il processo sia cominciato (vedi
i recenti casi degli arrestati per i fatti della Val di Susa),
quella della carcerazione è ovviamente solo una delle
misure che il codice prevede.
Si può discutere dell’ammissibilità o
della legittimità di un tale sistema in relazione alle
garanzie della libertà personale, ma non è questo
l’argomento del dibattito, il sistema vigente è
quello delineato. Ora, in questo quadro un ruolo fondamentale
è quello del giudice, infatti le misure cautelari non
scattano automaticamente, bensì sarà un magistrato
a valutare le necessità o meno dell’applicazione
della misura, e a scegliere la misura che più ritiene
adeguata, nel fare questa scelta non è però
del tutto libero bensì vincolato dal principio per
cui “la custodia cautelare in carcere può essere
disposta soltanto quando ogni altra misura risulti inadeguata.”(ex
art 275 3c cpp). Nel 2009 viene apportata una modifica all’articolo
275 cpp il quale disciplina appunto i criteri di scelta delle
misure cautelari, sancendo al 3° comma un presidio fondamentale
per la libertà personale. La modifica introdotta prevede
che per alcuni reati tra i quali rientra la violenza sessuale
di gruppo art 609octies del codice penale, si applica comunque
la custodia cautelare in carcere. (Gli altri reati equiparati
sono l’omicidio doloso-volontario-, quelli relativi
alla prostituzione minorile alla pornografia minorile e gli
altri a sfondo sessuale, l’associazione a delinquere
ai fini di spaccio e i reati di mafia). Il che vuol dire che
in questi casi il giudice non sarà libero nella sua
valutazione e guidato dal principio per cui la carcerazione
deve essere l’ultimo rimedio, ma è obbligato
ad applicare la custodia cautelare in carcere. Su questo primo
punto si rende necessaria una riflessione, ogni qual volta
si inseriscono meccanismi di automatismo nel diritto penale
si erodono spazi di liberta.
Sentenza formalmente corretta
Al di là del giudizio che possiamo avere sui giudici
il fatto di imporre una certa soluzione, in senso repressivo,
sottrae spazi alla libertà , alla possibilità
di valutare tutte le circostanze che hanno portato alla (possibile
in questo caso) commissione di un reato, e alle possibilità
di difendersi. A seguito di ciò una sentenza della
Corte Costituzionale la 265 del 2010 ha dichiarato costituzionalmente
illegittima questa modifica, relativa ai reati sessuali, sulla
base del fatto che non può esservi comparazione tra
i reati di mafia, che presuppongono l’inserimento di
un soggetto in un contesto criminale organizzato, e i reati
sessuali, che di solito vengono eseguiti individualmente o
per ragioni non necessariamente ricondotte ad associazioni
criminali (si legga a riguardo il passaggio di cui alla pag
4 della sentenza della Cassazione che ben spiega su cosa si
basa la differenza di trattamento). Ciò non significa
che il Giudice non può applicare la custodia in carcere
in attesa del processo, ma che può anche non applicarla
oppure concedere all’indagato gli arresti domiciliari,
come avviene normalmente per tutti gli altri reati (magari
puniti con pene più severe, come ad esempio la rapina
aggravata o il sequestro di persona a scopo di estorsione).
Per la Corte tale trattamento repressivo non era ragionevole
e pertanto censurabile per disparità di trattamento
e per violazione dell’art. 3 della Costituzione.
La sentenza per la precisione si occupò solo di alcuni
dei reati sessuali considerati (poiché per questi era
stato fatto il ricorso), e tra questi non l’articolo
609octies, per cui la pronuncia odierna della Cassazione risulta
essere solo un adeguamento alla sentenza della Corte Costituzionale
per così dire inevitabile. Nel senso che sulla disposizione
pendeva una sorta di spada di Damocle, visto che la pronuncia
di incostituzionalità aveva già investito l’altra
parte della norma riguardante gli altri reati sessuali di
eguale gravità. Dunque credo di poter dire che la sentenza
della Cassazione è formalmente corretta, e coerente
con la posizione della Corte Costituzionale che ha cercato
di riportare nel suo alveo naturale la funzione delle misure
cautelari. Esse dovrebbero essere applicate solo se strettamente
necessarie e nel caso della carcerazione solo se nessuna altra
misura possa funzionare. Nel caso della violenza sessuale
di gruppo e non, quando i presupposti ci sono, essa continuerà
ad essere applicata.
Ora credo che tale principio sia condiviso specialmente da
chi come molte compagne/i si sia trovato a subire ingiuste
carcerazioni preventive come strumento di repressione politica.
Questo per dire che le misure cautelari sono uno strumento
in rari casi necessario e molto spesso male utilizzato, sono
davvero molti i casi di “errore”, considerando
anche che si tratta delle prime battute di un procedimento
penale dove chi viene messo dentro spesso non è nemmeno
stato ascoltato. Ciò premesso, alcune valutazioni politiche.
Problemi tutti politici e sociali
La prima è l’indignazione che provo, in quanto
donna, nel vedere che l’unica risposta che lo Stato
accenna al problema della violenza sulle donne sia quella
della repressione penale. Non esiste nessuna campagna, nessuna
politica seria messa in campo a livello istituzionale per
cercare di risolvere il problema della violenza. Per non parlare
delle politiche sociali riguardanti le donne e la maternità,
scarse e sempre messe in discussione. Questo per dire che
la reazione di uno Stato che anch’esso si indigna dovrebbe
prevedere ben altro che l’inasprirsi della pena. Ricordo
che la maggior parte delle violenze sulle donne avvengono
nel contesto familiare, e tali soprusi sono quelli che solitamente
non vengono perseguiti (1). Mi chiedo
dove siano le politiche dello stato per aiutare le donne a
uscire allo scoperto, per aiutarle a denunciare mariti o padri,
dove siano le misure per la loro protezione, fisica ma anche
economica e sociale.
Mi chiedo allo stesso tempo solo per fare un esempio, dove
siano le politiche di educazione sessuale nelle scuole, quelle
che dovrebbero insegnare ai bambini di oggi, uomini di domani
la sessualità, il rispetto della donna e per il suo-diverso-corpo.
Questo per dire che non dovremmo chiedere al sistema penale,
che dovrebbe servire solo e se del caso ad accertare la responsabilità
personale dei singoli, di risolvere problemi che sono tutti
politici e sociali.
Molti dei post, dei commenti usciti sul web dopo la diffusione
della notizia, sono firmati da donne e riflettono in alcuni
casi una comprensibile reazione istintiva, legata anche al
tipo di informazione circolata sul web. Mentre gli uomini
in genere hanno fornito le risposte, le spiegazioni e i chiarimenti
sperticandosi in difesa dell’operato della corte o nella
condanna dell’operato della stessa. Credo che tutte/i
con le opportune informazioni siano in grado di valutare l’operato
della corte, quello che mi lascia perplessa è con quanta
foga, puntualità e precisione in molti siano intervenuti
per fornire la loro interpretazione. Al contrario non sento
questo levarsi di scudi ogni volta che si legge di una violenza
su una donna solo in quanto donna: dove sono tutti gli uomini
che oggi ci spiegano come leggere una sentenza o come e quanto
indignarsi? Perché non si sperticano nella condanna
delle violenze e nell’autocoscienza di genere? Già,
perché la violenza sulle donne è un problema
degli uomini, tutto appartenente al genere maschile, che forse
dovrebbe cominciare a far sentire la sua voce sulla questione.
Invece il silenzio sul tema è assordante. Soprattutto
lo è da parte dei compagni, di quelli che fanno della
lotta politica una pratica quotidiana, ma che spesso nelle
proprie azioni perpetrano pratiche di violenza, di aggressività
e di controllo sul corpo e sulle idee delle donne.
Vi è poi un altro punto che merita di essere approfondito,
bisognerebbe essere attenti a quello che si invoca. A seguito
della sentenza molte sono state le dichiarazioni a favore
della custodia in carcere per coloro che commettono violenza
sessuale, sia in via preventiva che come pena definitiva,
magari da inasprire, visto l’alto disvalore insito nel
reato di cui trattiamo. Credo che quanto meno tre ordini di
problemi si aprano davanti a questi auspici. Il primo riguarda
il sistema penale e carcerario in sé. Come donne, vittime
di oppressione e soprusi costanti, non possiamo permetterci
di delegare al sistema giustizia dello stato la tutela, la
protezione e l’emancipazione che ci spettano. Tale sistema
difatti, lungi dall’essere votato all’equità
sociale e all’egualitarismo è frutto dell’oppressione
dello stato nei confronti della società tutta. Come
si può invocare la carcerazione come soluzione essendo
essa stessa parte del sistema di oppressione che dovremmo
combattere? Non possiamo permetterci di giustificare, anche
se parzialmente, un sistema fondato sulla retribuzione e sulla
difesa sociale di cui conosciamo gli esiti funesti.
Non dietro le sbarre
Secondariamente bisognerebbe anche tener conto di un altro
fattore, quello per cui il sistema penale/carcerario non fa
che perpetrare le forme di patriarcato e di dominio di un
genere sull’altro. Questo non solo perché, come
da alcune è stato sottolineato, il sistema giustizia,
come tutti gli altri sistemi di potere, è gestito da
uomini ma anche per la particolarità del sistema carcerario.
Infatti, all’interno di quelle stesse strutture dove
vorremmo vedere costretti gli stupratori in realtà
non fanno che consolidarsi quelle dinamiche sociali che stanno
alla base degli stessi reati. All’interno del carcere
il rapporto tra i generi viene totalmente annullato e le donna
diventa nient’altro che un ritaglio di giornale. Una
figurina di carta sulla quale sfogare tutta la repressione
sessuale accumulata negli anni. Le più pesanti e riprovevoli
costruzioni culturali e sociali, nel carcere si confermano
come l’unica idea di donna possibile. Non vi è
nessun meccanismo, nessuna pratica, che possa portare chi
ha compiuto un atto di tale gravità a capirne il disvalore,
a maturare un nuovo modo di relazionarsi con il genere femminile.
Senza troppi giri di parole la sessualità in carcere
è negata, è tabù, e diventa un campo
di privazione, di frustrazione e di castrazione anche per
chi non lo era. Come può questo aiutare le donne a
sentirsi più sicure? Come può questa situazione
cambiare l’assetto sociale o quanto meno evitare che
lo stesso reato venga compiuto nuovamente una volta fuori?
In ultimo, proverò a rispondere ad una critica che
potrebbe facilmente essere mossa a questa riflessione, e cioè
che nel sistema come attualmente configurato l’unica
risposta possibile rimane quella della detenzione. Se l’ottica
abolizionista rimane un’utopia, nel frattempo, che fare
per combattere la violenza sulle donne anche a livello legale?
Credo che l’unica risposta sensata possa essere quella
di incrementare i sistemi di tutela della vittima, quasi del
tutto assenti per quanto concerne la fase pre-processuale
(id est proprio quella di cui si occupava la sentenza della
cassazione). Le misure cautelari, per come configurate nel
codice di procedura penale, non rappresentano uno strumento
di tutela delle vittime, e non sarebbero d’altra parte
idonee a farlo. La tutela delle donne vittime del reato di
violenza sessuale,dovrebbe passare da una serie di misure
legislative volte non solo alla loro protezione fisica ma
anche a quella sociale ed economica. Credo che questo debba
essere il campo di rivendicazione su cui muoversi, anche affinché
la tutela della vittima non diventi una strada per una vittimizzazione
sociale, ma sia sul serio uno spazio per le donne, dove le
loro esigenze e i loro bisogni diventino gli obiettivi primari.
Per questo mi sento di suggerire di non cadere in facili illusioni,
il sistema repressivo penale non serve a proteggere nessuno
ma solo a neutralizzare qualcuno. Le risposte che cerchiamo
come donne e come uomini non stanno dietro le sbarre di una
prigione ma in un cambiamento sociale e politico ed è
quello il terreno su cui continuare a lottare. Ovvio che questa
non era l’ingiustizia più insopportabile del
nostro sistema penale ma resta il fatto che perpetrare un’ingiustizia
non servirà né ad impedire le violenze né
a proteggere le donne.