Rivista Anarchica Online


violenza sessuale

A proposito di una sentenza

di Letizia Bertolucci

Violenza sessuale. Una sentenza della Corte di Cassazione. Il problema della tutela delle vittime.

 

Qualche settimana fa ha suscitato scalpore l’emanazione della sentenza della Corte di Cassazione sulla violenza sessuale di gruppo. Leggendo i commenti, gli articoli, dopo la diffusione della sentenza n 4377/12 della terza sezione penale della Corte di Cassazione, come donna mi sono sentita di dover esprimere un parere, un’opinione, politica.
Prima di far questo proverò a fare un po’ di chiarezza sull’accaduto, non per spiegare qualcosa a qualcuno che non ritengo in grado di capire, come da molti articoli è sembrato, ma perché credo fortemente nella condivisione del sapere come forma di lotta, e perché credo che divincolarsi tra i cavilli giuridici non sia cosa facile per nessuno.
Proviamo a fare un passo indietro rispetto alla pronuncia della Cassazione. In primis l’ambito di intervento della sentenza è quello delle misure cautelari e non delle sanzioni. Vale a dire quelle misure che vengono adottate prima che via sia stata una pronuncia nei confronti dell’indagato e qualora ricorrano oltre ai gravi indizi di colpevolezza alternativamente pericolo di inquinamento delle prove; pericolo di fuga; pericolo di reiterazione del reato(ex art 274cpp). Cioè siamo a dire che si corre il rischio di essere sbattuti dentro prima di che il processo sia cominciato (vedi i recenti casi degli arrestati per i fatti della Val di Susa), quella della carcerazione è ovviamente solo una delle misure che il codice prevede.
Si può discutere dell’ammissibilità o della legittimità di un tale sistema in relazione alle garanzie della libertà personale, ma non è questo l’argomento del dibattito, il sistema vigente è quello delineato. Ora, in questo quadro un ruolo fondamentale è quello del giudice, infatti le misure cautelari non scattano automaticamente, bensì sarà un magistrato a valutare le necessità o meno dell’applicazione della misura, e a scegliere la misura che più ritiene adeguata, nel fare questa scelta non è però del tutto libero bensì vincolato dal principio per cui “la custodia cautelare in carcere può essere disposta soltanto quando ogni altra misura risulti inadeguata.”(ex art 275 3c cpp). Nel 2009 viene apportata una modifica all’articolo 275 cpp il quale disciplina appunto i criteri di scelta delle misure cautelari, sancendo al 3° comma un presidio fondamentale per la libertà personale. La modifica introdotta prevede che per alcuni reati tra i quali rientra la violenza sessuale di gruppo art 609octies del codice penale, si applica comunque la custodia cautelare in carcere. (Gli altri reati equiparati sono l’omicidio doloso-volontario-, quelli relativi alla prostituzione minorile alla pornografia minorile e gli altri a sfondo sessuale, l’associazione a delinquere ai fini di spaccio e i reati di mafia). Il che vuol dire che in questi casi il giudice non sarà libero nella sua valutazione e guidato dal principio per cui la carcerazione deve essere l’ultimo rimedio, ma è obbligato ad applicare la custodia cautelare in carcere. Su questo primo punto si rende necessaria una riflessione, ogni qual volta si inseriscono meccanismi di automatismo nel diritto penale si erodono spazi di liberta.

Sentenza formalmente corretta

Al di là del giudizio che possiamo avere sui giudici il fatto di imporre una certa soluzione, in senso repressivo, sottrae spazi alla libertà , alla possibilità di valutare tutte le circostanze che hanno portato alla (possibile in questo caso) commissione di un reato, e alle possibilità di difendersi. A seguito di ciò una sentenza della Corte Costituzionale la 265 del 2010 ha dichiarato costituzionalmente illegittima questa modifica, relativa ai reati sessuali, sulla base del fatto che non può esservi comparazione tra i reati di mafia, che presuppongono l’inserimento di un soggetto in un contesto criminale organizzato, e i reati sessuali, che di solito vengono eseguiti individualmente o per ragioni non necessariamente ricondotte ad associazioni criminali (si legga a riguardo il passaggio di cui alla pag 4 della sentenza della Cassazione che ben spiega su cosa si basa la differenza di trattamento). Ciò non significa che il Giudice non può applicare la custodia in carcere in attesa del processo, ma che può anche non applicarla oppure concedere all’indagato gli arresti domiciliari, come avviene normalmente per tutti gli altri reati (magari puniti con pene più severe, come ad esempio la rapina aggravata o il sequestro di persona a scopo di estorsione). Per la Corte tale trattamento repressivo non era ragionevole e pertanto censurabile per disparità di trattamento e per violazione dell’art. 3 della Costituzione.
La sentenza per la precisione si occupò solo di alcuni dei reati sessuali considerati (poiché per questi era stato fatto il ricorso), e tra questi non l’articolo 609octies, per cui la pronuncia odierna della Cassazione risulta essere solo un adeguamento alla sentenza della Corte Costituzionale per così dire inevitabile. Nel senso che sulla disposizione pendeva una sorta di spada di Damocle, visto che la pronuncia di incostituzionalità aveva già investito l’altra parte della norma riguardante gli altri reati sessuali di eguale gravità. Dunque credo di poter dire che la sentenza della Cassazione è formalmente corretta, e coerente con la posizione della Corte Costituzionale che ha cercato di riportare nel suo alveo naturale la funzione delle misure cautelari. Esse dovrebbero essere applicate solo se strettamente necessarie e nel caso della carcerazione solo se nessuna altra misura possa funzionare. Nel caso della violenza sessuale di gruppo e non, quando i presupposti ci sono, essa continuerà ad essere applicata.
Ora credo che tale principio sia condiviso specialmente da chi come molte compagne/i si sia trovato a subire ingiuste carcerazioni preventive come strumento di repressione politica. Questo per dire che le misure cautelari sono uno strumento in rari casi necessario e molto spesso male utilizzato, sono davvero molti i casi di “errore”, considerando anche che si tratta delle prime battute di un procedimento penale dove chi viene messo dentro spesso non è nemmeno stato ascoltato. Ciò premesso, alcune valutazioni politiche.

Problemi tutti politici e sociali

La prima è l’indignazione che provo, in quanto donna, nel vedere che l’unica risposta che lo Stato accenna al problema della violenza sulle donne sia quella della repressione penale. Non esiste nessuna campagna, nessuna politica seria messa in campo a livello istituzionale per cercare di risolvere il problema della violenza. Per non parlare delle politiche sociali riguardanti le donne e la maternità, scarse e sempre messe in discussione. Questo per dire che la reazione di uno Stato che anch’esso si indigna dovrebbe prevedere ben altro che l’inasprirsi della pena. Ricordo che la maggior parte delle violenze sulle donne avvengono nel contesto familiare, e tali soprusi sono quelli che solitamente non vengono perseguiti (1). Mi chiedo dove siano le politiche dello stato per aiutare le donne a uscire allo scoperto, per aiutarle a denunciare mariti o padri, dove siano le misure per la loro protezione, fisica ma anche economica e sociale.
Mi chiedo allo stesso tempo solo per fare un esempio, dove siano le politiche di educazione sessuale nelle scuole, quelle che dovrebbero insegnare ai bambini di oggi, uomini di domani la sessualità, il rispetto della donna e per il suo-diverso-corpo. Questo per dire che non dovremmo chiedere al sistema penale, che dovrebbe servire solo e se del caso ad accertare la responsabilità personale dei singoli, di risolvere problemi che sono tutti politici e sociali.
Molti dei post, dei commenti usciti sul web dopo la diffusione della notizia, sono firmati da donne e riflettono in alcuni casi una comprensibile reazione istintiva, legata anche al tipo di informazione circolata sul web. Mentre gli uomini in genere hanno fornito le risposte, le spiegazioni e i chiarimenti sperticandosi in difesa dell’operato della corte o nella condanna dell’operato della stessa. Credo che tutte/i con le opportune informazioni siano in grado di valutare l’operato della corte, quello che mi lascia perplessa è con quanta foga, puntualità e precisione in molti siano intervenuti per fornire la loro interpretazione. Al contrario non sento questo levarsi di scudi ogni volta che si legge di una violenza su una donna solo in quanto donna: dove sono tutti gli uomini che oggi ci spiegano come leggere una sentenza o come e quanto indignarsi? Perché non si sperticano nella condanna delle violenze e nell’autocoscienza di genere? Già, perché la violenza sulle donne è un problema degli uomini, tutto appartenente al genere maschile, che forse dovrebbe cominciare a far sentire la sua voce sulla questione. Invece il silenzio sul tema è assordante. Soprattutto lo è da parte dei compagni, di quelli che fanno della lotta politica una pratica quotidiana, ma che spesso nelle proprie azioni perpetrano pratiche di violenza, di aggressività e di controllo sul corpo e sulle idee delle donne.
Vi è poi un altro punto che merita di essere approfondito, bisognerebbe essere attenti a quello che si invoca. A seguito della sentenza molte sono state le dichiarazioni a favore della custodia in carcere per coloro che commettono violenza sessuale, sia in via preventiva che come pena definitiva, magari da inasprire, visto l’alto disvalore insito nel reato di cui trattiamo. Credo che quanto meno tre ordini di problemi si aprano davanti a questi auspici. Il primo riguarda il sistema penale e carcerario in sé. Come donne, vittime di oppressione e soprusi costanti, non possiamo permetterci di delegare al sistema giustizia dello stato la tutela, la protezione e l’emancipazione che ci spettano. Tale sistema difatti, lungi dall’essere votato all’equità sociale e all’egualitarismo è frutto dell’oppressione dello stato nei confronti della società tutta. Come si può invocare la carcerazione come soluzione essendo essa stessa parte del sistema di oppressione che dovremmo combattere? Non possiamo permetterci di giustificare, anche se parzialmente, un sistema fondato sulla retribuzione e sulla difesa sociale di cui conosciamo gli esiti funesti.

Non dietro le sbarre

Secondariamente bisognerebbe anche tener conto di un altro fattore, quello per cui il sistema penale/carcerario non fa che perpetrare le forme di patriarcato e di dominio di un genere sull’altro. Questo non solo perché, come da alcune è stato sottolineato, il sistema giustizia, come tutti gli altri sistemi di potere, è gestito da uomini ma anche per la particolarità del sistema carcerario. Infatti, all’interno di quelle stesse strutture dove vorremmo vedere costretti gli stupratori in realtà non fanno che consolidarsi quelle dinamiche sociali che stanno alla base degli stessi reati. All’interno del carcere il rapporto tra i generi viene totalmente annullato e le donna diventa nient’altro che un ritaglio di giornale. Una figurina di carta sulla quale sfogare tutta la repressione sessuale accumulata negli anni. Le più pesanti e riprovevoli costruzioni culturali e sociali, nel carcere si confermano come l’unica idea di donna possibile. Non vi è nessun meccanismo, nessuna pratica, che possa portare chi ha compiuto un atto di tale gravità a capirne il disvalore, a maturare un nuovo modo di relazionarsi con il genere femminile. Senza troppi giri di parole la sessualità in carcere è negata, è tabù, e diventa un campo di privazione, di frustrazione e di castrazione anche per chi non lo era. Come può questo aiutare le donne a sentirsi più sicure? Come può questa situazione cambiare l’assetto sociale o quanto meno evitare che lo stesso reato venga compiuto nuovamente una volta fuori?
In ultimo, proverò a rispondere ad una critica che potrebbe facilmente essere mossa a questa riflessione, e cioè che nel sistema come attualmente configurato l’unica risposta possibile rimane quella della detenzione. Se l’ottica abolizionista rimane un’utopia, nel frattempo, che fare per combattere la violenza sulle donne anche a livello legale?
Credo che l’unica risposta sensata possa essere quella di incrementare i sistemi di tutela della vittima, quasi del tutto assenti per quanto concerne la fase pre-processuale (id est proprio quella di cui si occupava la sentenza della cassazione). Le misure cautelari, per come configurate nel codice di procedura penale, non rappresentano uno strumento di tutela delle vittime, e non sarebbero d’altra parte idonee a farlo. La tutela delle donne vittime del reato di violenza sessuale,dovrebbe passare da una serie di misure legislative volte non solo alla loro protezione fisica ma anche a quella sociale ed economica. Credo che questo debba essere il campo di rivendicazione su cui muoversi, anche affinché la tutela della vittima non diventi una strada per una vittimizzazione sociale, ma sia sul serio uno spazio per le donne, dove le loro esigenze e i loro bisogni diventino gli obiettivi primari.
Per questo mi sento di suggerire di non cadere in facili illusioni, il sistema repressivo penale non serve a proteggere nessuno ma solo a neutralizzare qualcuno. Le risposte che cerchiamo come donne e come uomini non stanno dietro le sbarre di una prigione ma in un cambiamento sociale e politico ed è quello il terreno su cui continuare a lottare. Ovvio che questa non era l’ingiustizia più insopportabile del nostro sistema penale ma resta il fatto che perpetrare un’ingiustizia non servirà né ad impedire le violenze né a proteggere le donne.

Letizia Bertolucci


  1. I partner sono responsabili della quota più elevata di tutte le forme di violenza fisica rilevate, e sono responsabili in misura maggiore anche di alcuni tipi di violenza sessuale come lo stupro nonché i rapporti sessuali non desiderati, ma subiti per paura delle conseguenze. Il 69,7% degli stupri, infatti, è opera di partner, il 17,4% di un conoscente e solo il 6,2% è stato opera di estranei. Il rischio di subire uno stupro o un tentativo di stupro è tanto più elevato quanto più è stretta la relazione tra autore e vittima. Gli sconosciuti commettono soprattutto molestie fisiche sessuali, stupri solo nello 0,9% dei casi e tentati stupri nel 3,6% contro, rispettivamente, l’11,4% e il 9,1% dei partner (dati istat 2006).