Prima
di parlare di De André vorrei presentarti al pubblico
di Rete Italia. Nato nel 53 a Milano, hai studiato violoncello
ma anche composizione sperimentale ed elettronica e poi architettura.
Alle spalle una lunga carriera come compositore in molti ambiti
ma anche come esecutore di installazioni sonore. Chi è
Piero Milesi?Quale parte della tua produzione ti definisce
meglio?
Quello che posso dire è che il fatto di aver avuto
a che fare con attività in fondo molto diverse è
stata per me sia una fortuna che una sfortuna. Sfortuna nel
senso che poi è anche più difficile gestire,
sia a livello professionale che artistico, una variegata possibilità
di interventi. La fortuna invece è che anzitutto non
mi annoio e secondo che mi rimanda sempre a vedere le cose
da prospettive diverse. Questo perche, ovviamente, gli interlocutori,
le committenze, sono diverse. Quindi non saprei dire con quale
ambito posso identificarmi meglio. Le installazioni sonore
sono nate un po’ per caso… probabilmente lì
hanno inciso i miei studi di architettura. Riuscire a lavorare
in grandi spazi è una cosa che col tempo ho raffinato
e messo a punto e mi ha dato la possibilità di affrontare
la musica, indipendentemente da quello che la musica ha in
sé stessa, ma anche condizionata da dove la musica
viene rappresentata. E questo è un fenomeno che era
molto sviluppato in Italia, soprattutto a Milano, negli anni
80. Adesso è un po’ andato nel dimenticatoio.
E poi l’aspetto più direttamente musicale: pur
avendo un background di studi classici, questa cosa mi ha
permesso di essere piuttosto “eretico” in questo
senso, per cui i miei interventi musicali si sono rivolti
anche alla musica cosiddetta “leggera”, e le virgolette
le metto due volte, perché in certi casi la musica
leggera può essere più intelligente rispetto
a certa musica cosiddetta colta, che però è
tutt’altro che intelligente!
|
Piero
Milesi |
Nel 1990 arrangiamenti e direzione d’orchestra
per “Le nuvole”, nel 1996 “Anime salve”
anche come co-produttore e poi la produzione della tournée
del 1997 nei palasport. Com’è accaduto che hai
cominciato a lavorare anche con Fabrizio De André?
Con Fabrizio è nato perché sono stato convocato
da Mauro Pagani, che era il produttore de “Le Nuvole”.
Io Mauro lo conoscevo già dai tempi non sospetti, da
quando lavoravo ancora insieme con Moni Ovadia e facevamo
già musica chiamiamola così “etnica”,
la “World Music” degli anni settanta. Noi c’eravamo
già! Poi è esploso il fenomeno negli anni Ottanta.
Mauro è venuto a lavorare con noi, è stato convocato
in un mio disco dove lavoravo per una scrittura d’orchestra.
Lui è stato chiamato in qualità di violinista.
Lui poi mi ha convocato per “Le Nuvole”, per arrangiare
due pezzi da orchestra sinfonica, cosa che ho fatto di buon
grado ed è stato un lavoro, direi, anche piuttosto
semplice, lineare. Lì ho avuto modo di conoscere Fabrizio.
Fabrizio evidentemente non si era dimenticato di me e nel
1995, quando era ancora nella fase di pre-produzione di “Anime
salve”, mi aveva convocato per la scrittura degli archi.
Allora, forse lo sapete, si pensava che il disco sarebbe uscito
con il doppio nome: “Fabrizio de André e Ivano
Fossati”, perché tra l’altro Fossati è
coautore delle canzoni. Poi lì, per vari sviluppi,
che non sto ad approfondire ora più di tanto, mi sono
trovato ad arrangiare tutto l’album. Fabrizio me lo
aveva chiesto, prima mi aveva messo un po’ alla prova,
chiedendomi di arrangiare un paio di pezzi e mi sono trovato
anche ad essere co-produttore dell’album. E li è
cominciata questa via crucis, chiamiamola così, insieme
a Fabrizio, però che ha portato a un disco che, insomma,
più o meno tutti conoscono, perlomeno tutti gli amanti
di De André!
Nel filmato “Faber” di Bigoni e Giuffrida
c’è una tua breve apparizione dove sottolinei
due aspetti della personalità di De André. Uno
di questi è la sua capacità di ascolto e profonda
comprensione degli altri. Tu dicevi che è una qualità
rara in tempi in cui tutti parlano e nessuno ha voglia di
ascoltare. Questa capacità di ascolto verso chi era
rivolta e come si manifestava?
Mi fa piacere che me l’hai fatto ricordare, perché
mi ero dimenticato di averlo detto. Questa sua capacità
di ascolto è verissima: Fabrizio era molto empatico
con il suo circostante e con le persone con cui aveva a che
fare riusciva sempre a innescare un rapporto molto profondo,
non solo un rapporto positivo, ovviamente, anche negativo,
perché Fabrizio non aveva un carattere accomodante,
tutt’altro. Però era il suo modo di cercare di
capire le persone, di cercare di coglierle, in qualche modo
di radiografarle… non so.. solo il fatto che si divertiva
a dare soprannomi a tutti, fin dall’inizio. Soprannomi
tra l’altro estremamente appropriati ed azzeccati, molto
simpatici, ovviamente, ecco: questo era un suo modo di inquadrare,
definire le persone. Ma questo con tutte le persone, a tutti
i livelli, dall’amico antico al collaboratore occasionale
oppure, come nel mio caso, al collaboratore con cui condivideva
alla fine una parte della sua vita piuttosto lunga. Questo
lo vedevo… questa sua perenne curiosità nel cercare
di capire… riusciva a capire addirittura le sfumature
di una persona, i pensieri più reconditi… e anche
nei momenti di difficoltà, purtroppo a Fabrizio non
gliela si faceva! Perché in questo senso era più
forte: conosceva di più l’altra persona. E questo
era un aspetto che non permetteva mai di… mi vien voglia
di dire che non permetteva di barare, però è
un termine sbagliato. Diciamo che non permetteva mai di farla
franca su qualsiasi questione.
Il lato positivo era che alla fine il rapporto, pur essendo
estremamente conflittuale, come è stato nel mio caso
ma anche di altri suoi collaboratori che mi hanno preceduto,
era comunque un rapporto molto onesto. Onesto perché
evitava gli arzigogoli devianti dalle verità.
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Milano
1996 - Piero Milesi durante la realizzazione di Khorakhanè |
Mettere in musica il dolore universale
… Ci puoi allora rivelare qual era il tuo di
soprannome?
…beh, in realtà me ne aveva dati tantissimi!
All’inizio ero Geppetto, perché avevo i capelli
bianchi. Questo qui, vabbé, era il più facile.
Poi “Tentenna”, perché musicalmente sono,
così, un “caga dubbi”, peggio di Fabrizio,
per cui ogni tanto ci preoccupavamo a vicenda perché
nella nostra estrema ricerca della perfezione a volte da certe
situazioni, anche banali, facevamo molta fatica ad uscire.
Infatti Fabrizio in queste occasioni diceva: “Belìn,
proprio da qui non ne usciamo più, andiamo bene, siamo
a posto!” e probabilmente Fabrizio aveva bisogno, proprio
lo richiedeva, di una figura come un sergente, un personaggio
spiccio che in quattro e quattr’otto risolvesse le situazioni
più delicate. Comunque ce l’abbiamo fatta, riuscendo
sempre con lui a valutare, nota per nota, tutto lo sviluppo
della costruzione di questo album. Poi me ne aveva dati altri
di soprannomi però… beh, uno non lo dico, quello
gli usciva nei momenti di cattiveria, quindi non lo dico!
È coperto dalla privacy! Hai appena sottolineato
che avete lavorato: “nota per nota” e questo introduce
l’altro aspetto che sottolineavi in quella tua testimonianza,
che è più legato all’aspetto professionale.
Mi riferisco al fatto che De André fosse uno che cercava
di raggiungere livelli alti di perfezione nel suo lavoro e
quindi, per usare le tue parole, “tormentava”
i suoi collaboratori. In che modo vi tormentava?
Sì, nello stesso tempo penso di aver detto che, allo
stesso modo, tormentava anche se stesso. Il fatto è
che Fabrizio era una persona tormentata. Lui cercava sempre
di raggiungere un livello estremamente alto, questo probabilmente
anche per appagare, giustamente, la sua vanità, ma
anche, soprattutto, per poter veicolare meglio dei messaggi
che lui riteneva opportuno di lanciare. L’aspetto musicale,
quindi un aspetto estetico, retorico, aiutava ovviamente la
comunicazione di quello che lui voleva dire. Tormentava nel
senso che molte cose lui non sapeva come dovevano essere.
Lui diceva magari che delle cose dovevano essere bellissime,
però senza sapere come arrivarci. Allora è difficile,
specialmente quando si parla di musica. È difficile
traslare dei sentimenti in note musicali. Anche perché
lì interviene l’aspetto culturale, che è
estremamente soggettivo, per cui un dato suono o una data
sequenza di note per me potrebbe avere un significato emotivo
di un certo tipo e magari per te ce n’ha un altro e
in quel senso la comunicazione verbale diventava ardua. Però
c’è una cosa che mi aveva molto stupito di Fabrizio:
ricordo di un brano sul quale avevo riflettuto tutta la notte
per capire come affrontarlo. A un certo punto decido di chiamare
Fabrizio per chiedere soccorso a lui e ho chiesto a Fabrizio
come lui se lo immaginasse, come lui se lo aspettasse, questo
brano. Anche perché andava a toccare un momento importante
dell’album. In pratica si doveva cercare di capire come
mettere in musica il dolore universale! Ho chiesto aiuto a
Fabrizio e mi aspettavo da lui una risposta molto ben articolata
e molto ben motivata, come Fabrizio sapeva fare: era la sua
specialità questa. E lui, un po’ spiazzandomi,
a un certo punto mi dice: “Piero, deve essere bello!”.
Ed è finita lì. Al momento mi sono detto: “beh,
grazie tante, questo lo so anche io!”. Però è
come se con questo mi avesse provocato una piccola illuminazione,
nel senso che a questo punto sapevo che la responsabilità
era tutta mia e in quel senso mi sono anche auto incoraggiato.
Ho avuto da lui un incoraggiamento che mi ha innescato un
auto incoraggiamento. E difatti da lì mi è arrivata
l’idea che ha funzionato. Per cui la comunicazione con
lui era spesse volte molto spiazzante, probabilmente anche
perché a lui piaceva essere sempre fuori dalle righe.
Però il discorso andava sempre su dei temi molto alti
e questo voleva dire andare sempre a cercare in sé
stessi le parti più profonde e riuscire a tradurle
in musica, evidentemente nel modo migliore. Però che
fatica!
A quale pezzo ti riferivi?
Era Disamistade, che fra l’altro, sia per
me che per Fabrizio, è il pezzo che abbiamo preferito.
Però questo ce lo siamo detti ad album già uscito.
Erano i due brani strumentali, uno a metà e l’altro
che è la coda strumentale. Disamistade l’abbiamo
amata entrambi, su questo, dopo, perché l’amore
per quello che abbiamo fatto l’abbiamo manifestato soltanto
dopo, perché durante il viaggio, in realtà,
si navigava fra i perigli. Questo brano c’è piaciuto
moltissimo perché nella sua semplicità…
sono quattro accordi, se vogliamo, tipicamente “deandreiani”…
però siamo riusciti, musicalmente, a dargli, almeno
così pensavamo noi, dargli una veste molto contemporanea.
Contemporanea forse è anche un termine sbagliato, nel
senso che lo limita a un tempo. Diciamo che siamo riusciti
a dargli una veste così anacronistica che poteva essere
contemporanea, ecco, mettiamola così.
Ci siamo chiusi in casa senza vedere nessuno
Realizzare un CD o mettere assieme una tournée
non è come scrivere un libro. L’artista in questi
casi deve rapportarsi con molte altre persone e il prodotto
finale è il frutto di un lavoro di gruppo. De André
come sceglieva di volta in volta i suoi collaboratori? Per
esempio tu entri in scena come arrangiatore solo in una certa
fase.
Non so come scegliesse i suoi collaboratori, però
so che Fabrizio difendeva il nostro operato in modo egregio.
Perciò in due siamo riusciti a fare l’album quasi
come se fosse un libro. Nel senso che sia la casa discografica
che le pressioni dall’esterno, come l’informazione
e quant’altro, lui riusciva a tenerli a bada. Per cui
tutta la pre-produzione di questo lavoro l’abbiamo portata
avanti io e lui, e tutto quello che abbiamo fatto lo abbiamo
ascoltato solamente io, lui e Dori Ghezzi. Lui è riuscito
a proteggere questo lavoro. Perché altrimenti se avessero
iniziato i discografici a dire: “no qui faremmo così”
oppure: “qua questa cosa c’è il rischio
che non venda”, e così via, questa cosa sarebbe
stata l’inizio della fine. Invece i musicisti che poi
sono intervenuti lavoravano su cose che erano non solo state
scritte ma anche estremamente valutate nel dettaglio, precedentemente
da me e Fabrizio. Qualcosa ovviamente, lungo la strada, è
cambiato. Perché, per esempio, nel caso delle percussioni
di Naco, certe proposte fatte da lui, lì per lì,
io e Fabrizio le abbiamo ben accolte. Però in sostanza
tutto il lavoro di pre-produzione, che è durato sei
sette mesi e si è svolto a casa mia, è stato
molto intenso.
Ci siamo chiusi in casa per tutto questo tempo senza vedere
nessuno. È stato un po’ come fare con lui un
viaggio in barca, al di fuori c’era il nulla e nella
barca c’eravamo solamente noi. Questo nel bene, per
la produzione dell’album e a volte anche nel male, fra
di noi, per il nostro rapporto, anche perché sembra
che sia normale, se due persone fanno un viaggio in barca
di sei sette mesi… sarebbe anormale se di tanto in tanto
non si andasse a litigare anche in modo pesante.
Ecco questo viaggio in barca, questa frequentazione
molto intensa porta anche, come dicevi adesso, a dei momenti
di conflitto. In linea generale il rapporto umano che si stabiliva
con Fabrizio lavorandoci assieme come lo definiresti?
Estremamente conflittuale! Del resto la creatività
non è altro che il frutto di un conflitto, questo in
tutti i sensi anche se magari poi si potrebbe discutere sulla
parola “conflitto”. Comunque conflittuale non
solo per i momenti di confronto in cui ci si dice: “io
la penso così, tu la vedi colà”. Lì
intervengono anche gli ego. Allora uno difende non tanto la
propria idea musicale, in quel momento, ma difende se stesso,
difende il suo pensiero rispetto al mondo e questa cosa era
inevitabile in un lavoro di questo tipo. In un lavoro più
sulle righe, più leggero, su certe cose si sarebbe,
ovviamente, passati sopra. Potrei definirlo così: intensamente
e meravigliosamente conflittuale. Poi naturalmente ci sono
stati anche momenti di grande divertimento, di lasciarsi andare,
dire grandi stupidaggini, farsi le battute stupide, prendersi
in giro in modo bonario, o lasciarsi andare anche a confidenze
estremamente private. Anche se il disco incombeva sempre su
di noi. Guarda, mi fai venire in mente una cosa. Finito il
disco io ricordo che, proprio in occasione della presentazione
dell’album, al ristorante, ho detto: “Fabrizio
tu, veramente, proprio mi hai tormentato all’inverosimile!”.
E lui: “Ma, Piero, certo! Io volevo che tu mantenessi
sempre alta la tensione”. Perbacco, infatti l’ho
mantenuta la tensione! Per cui lui aveva proprio un ragionamento
logico, una strategia, proprio da Machiavelli. Però
su una cosa, alla fine, eravamo veramente d’accordo:
che non doveva vincere né Fabrizio De André
né Piero Milesi. Doveva vincere l’arte. Doveva
vincere il disco. Questa cosa ci ha permesso di andare avanti.
Io non nascondo che in più di un momento ho pensato,
veramente, di declinare il mio impegno e rinunciare alla produzione.
Meno male che, così, anche inconsciamente, sono andato
avanti.
Visto il mistero che aleggiava all’inizio sulla
sua persona e visti i testi di certe canzoni, per anni si
è pensato a un De André chiuso nella sua figura
di poeta maledetto, scontroso e musone. Ma era questa davvero
la sua personalità?
No, non è vero, perché un conto è l’immagine
che lui dava di sé… sai, come capita a tutti
noi personaggi pubblici, a volte si rimane come ingabbiati
nell’immagine che si è deciso di dare di sé
stessi. Però Fabrizio, anzitutto non era un omologato,
questo è vero. Lui quello che odiava erano gli stereotipi.
Che c’è anche il pericolo che adesso si faccia
un po’ l’icona, l’immaginetta di Fabrizio
e si stia stereotipizzando, a sua volta, l’immagine
di Fabrizio De André. E questa cosa qui lo so già
che gli darebbe un enorme fastidio, perché tutta la
vita di Fabrizio è stata mirata a sgretolare i miti,
a smantellare le sicurezze e le certezze, a detestare ciò
che era omologato. La legge del branco, per intenderci. E
c’è il rischio che adesso, su di lui, venga fuori
questa cosa qua. Poi quella del poeta maledetto diventa un’espressione,
direi, un po’ romantica che potrebbe far comodo anche
ai media e ai giornalisti per scriverne. Io capisco naturalmente
l’aspetto editoriale per cui certe terminologie incuriosiscono
il lettore. Però Fabrizio era veramente una persona
a trecentosessanta gradi e anche negli aspetti, così,
bonari, o quando parlavamo di calcio e siamo andati anche
allo stadio assieme, potrei raccontare delle sue manie di
segnarsi nei taccuini le partite, come fanno i bambini, lui
ha continuato a farlo, dando i voti ai calciatori! Uno magari
rimane spiazzato quando sente queste cose. Come? Fabrizio
de André che da i voti ai calciatori e si tiene il
calendario delle partite dell’annata? Ma certamente
anche questo fa parte del Fabrizio De André uomo e
artista. Io mi stupirei del contrario. Sennò rischia
di essere un politico, nella sua accezione peggiore, dove
il controllo di se stesso è portato sempre agli estremi
eccessi. Fabrizio tutt’altro. Anzi! Molte volte lui
non si controllava.
… anche tu sei tifoso del Genoa?
No! Io son milanista! Siamo andati a vedere Milan-Genoa,
me lo ricordo. Zero a zero, una partita orribile! Adesso però
sono abbastanza genoano perché sto vivendo in Liguria.
Sono anche un po’ genoano per quieto vivere… diciamo
così!
Non il personaggio ma la sua caricatura
Hai accennato a quello che è successo dopo
la morte di De André: gran produzione di libri, artisti
che ricantano le sue canzoni a volte in maniera discutibile,
sindaci che dedicano vie e piazze… tu come la vedi questa
profusione di tributi post mortem?
Mah… non lo so. Da una parte sono estremamente contento
perché i semi che Fabrizio aveva lanciato stanno germogliando
da soli, senza bisogno di concimarli più di tanto.
Ormai sono semi potenti che stanno venendo su da tutte le
parti. Fabrizio evidentemente è andato a toccare, con
le sue canzoni, certi argomenti che nel più profondo
molte persone avevano già intuito ma che, probabilmente,
molti non avevano il coraggio di esternare e Fabrizio l’ha
fatto per loro, per noi. Per cui il fatto che il fenomeno
(perché ormai è diventato un fenomeno) Fabrizio
De André si sia sviluppato in questo modo è
senz’altro positivo, soprattutto vedendolo anche all’estero.
Io lo vedo, anche in questa intervista che stiamo facendo.
Purtroppo noi italiani all’estero siamo identificati
ormai come “spaghetti-Paolo Rossi-Sofia Loren”,
più o meno. E questo è ovviamente molto frustrante
per noi. Allora il fatto che, specialmente anche nelle comunità
straniere, il messaggio di Fabrizio sia così preso
in considerazione, altro non è che il superamento dell’immagine
che gli italiani hanno del proprio paese, standone fuori.
E questo qui è l’aspetto estremamente importante
e bello. Poi c’è l’aspetto un po’,
diciamo così, esteticistico, che mi disturba un pochino.
Ogni tanto mi chiamano a certe manifestazioni come testimone
di colui che ha lavorato con Fabrizio De André (cosa
che peraltro adesso sto cercando di evitare di fare) e c’è
un po’ questo aspetto del: “io tocco te, quindi
tocco lui” e questa cosa mi frustra un pochino, mi fa
venire in mente un po’… hai presente il film “Buffalo
Bill e gli indiani” di Altman, dove alla fine quello
che rimane non è il personaggio ma la sua caricatura?
Ecco, questo potrebbe essere il pericolo. Però, pensando
sempre che a Fabrizio, in questo senso, il suo essere famoso
non gli sarebbe piaciuto, io questo aspetto cerco sempre di
evitarlo.
Comunque quelli che hanno scritto i libri e fatto
i dischi quasi mai sono persone come te che hanno lavorato
assieme a De André. Come mai, per una sorta di riservatezza,
di pudore?
Secondo me sono questioni di business. Nel mercato il fenomeno
De André è un fenomeno che tira. Fare una biografia
su De André ormai, con l’informatica, con il
copia/incolla, è una cosa facilissima. Ogni editore,
grande o piccolo, ormai deve fare il suo libro su De André,
perché comunque se ne vendono tanti. E questo qui non
è molto bello, perché poi la maggior parte dei
libri che vengono fuori non sono altro che riedizioni di quello
che già era stato letto. Ecco, quello lì è
proprio l’aspetto omologante dove poi, veramente, si
rischia di fare l’immaginetta di Fabrizio. Questo qui
è un fenomeno assolutamente da combattere. Una questione
è l’intervista o l’incontro di approfondimento
Un altro conto è… spiattello una bella foto,
faccio il festival di Fabrizio De André perché
so che almeno la gente ci arriva…anzi, peggio ancora!
Faccio il festival su Fabrizio De André perché
so che le amministrazioni mi danno il finanziamento! Per cui
in pratica c’è anche una giustificazione culturale
sull’operazione.
Poi c’è una pletora di “cover band”
che girano per tutta l’Italia… benissimo, buon
per loro! Però ogni tanto mi piacerebbe sentire anche
qualche canzone di Fabrizio, completamente stravolta e riarrangiata.
Adesso per la verità c’è anche chi inizia
a farlo così e lo preferisco piuttosto che sentirmi
la fotocopia, spesse volte fatta male, di quello che Fabrizio
aveva già fatto. Anzi spesse volte mi coinvolgono anche
in situazioni del genere e io non nego di trovarmi in notevole
imbarazzo.
Al di là del lavoro che hai fatto per Le
Nuvole e Anime Salve, del resto della produzione
artistica di De André c’è qualcosa che
ti importa in maniera particolare? Che ti piace e ti emoziona
più di altre o che ti sembra più importante?
Si, è “La buona novella”. Ti dirò,
di Fabrizio, prima di lavorare con lui sapevo poco o niente,
anche perché della musica cosiddetta leggera, o dei
cantautori, sapevo poco perché i miei studi erano classici
per cui ascoltavo molto Beethoven, Stravinskij e Bach. Avevo
però ascoltato un po’ di Fabrizio de André
di sponda, perché avevo un fratello che comprava i
suoi dischi. Per cui dall’altra stanza sentivo le sue
canzoni e ricordo che La buona novella, allora, mi aveva veramente
trapassato. Mi aveva veramente colpito. Tanto è vero
che poi, dopo l’ultima produzione live di Fabrizio,
si parlava con lui di recuperare La Buona Novella,
perché è una tematica, veramente che, a dire
attuale mi sembra anche di limitarla un po’. Però
è attuale perché è veramente fuori dal
tempo. Specialmente in un periodo come questo dove i Vangeli
sono stati così abusati. Adesso non voglio dire cose
pesanti sul sistema religioso in Italia, però un album
come La buona novella è un certo modo di rimettere
i puntini sulle i, rispetto a certe questioni estremamente
delicate. E difatti Fabrizio l’ha ripresa, da ultimo,
ne presentava alcuni brani nell’ultima tournée,
fra l’altro uno glielo avevo riarrangiato io. Poi, a
parte La Buona Novella, ci sono alcune canzoni qua
e là che mi piacciono, forse quelle più o meno
note per tutti. Comunque la cosa interessante di Fabrizio
è che, se andiamo a vedere, non è che lui ha
avuto un’attività estremamente prolifica come
numero di canzoni. Non sono tantissime. Però una cosa
è certa: quasi tutte le canzoni di Fabrizio sono state
importanti. Se noi guardiamo ad altri autori del passato,
per esempio Modugno, vediamo che hanno scritto tantissime
canzoni, però alla fine sono stati identificati in
alcune canzoni, le canzoni che conosciamo di questi autori
alla fine sono quattro o cinque. Invece chi segue Fabrizio
De André, al di là di Bocca di Rosa,
Marinella e La guerra di Piero, ne conosce
molte di più. Diciamo che ci sono almeno una quarantina
di sue canzoni che ci accompagnano continuamente.
Il mio lavoro con i Rom
Nel percorso di questa trasmissione abbiamo intervistato
soprattutto gente che potesse ritrovarsi nei personaggi delle
canzoni di De André. La prostituta, la palestinese,
il detenuto, il Rom e così via. Volevamo indagare su
quanto De André avesse colto nel segno parlando di
queste persone. Tu ti sei mai sentito in qualche modo rappresentato
in qualcuna delle sue canzoni o ti senti più un osservatore
del mondo cantato da De André?
No, mi sento anche rappresentato. Io mi sento abbastanza
uno zingaro e anche Fabrizio me lo diceva, che lo ero. Non
sono zingaro, non sono Rom, però mi sento molto zingaro.
Ma non perché continuo a cambiare casa e mi sposto.
È proprio nello spirito. Tra l’altro ultimamente
sto lavorando con dei musicisti Rom. Zingari di cui sono molto
amico e con cui mi trovo molto a mio agio. Tra l’altro
mi invitano alle loro feste, matrimoni, battesimi….
Io mi sento zingaro nel senso che la legge che determina i
comportamenti del popolo zingaro non è una legge scritta:
non esistono tribunali, non esistono forze dell’ordine.
Ma è una legge tutta morale. Talvolta può essere
una legge estremamente discutibile, però, in questo
senso mi ci ritrovo. E Fabrizio tra l’altro me lo diceva…
… allora abbiamo scoperto un altro dei soprannomi
che ti aveva appioppato Fabrizio!
(ridendo) eh, sì!
Questo tuo rapporto con il gruppo Rom ci interessa!
Queste persone con cui siamo venuti a contatto, che abbiamo
intervistato, ci hanno quasi sempre confermato di essersi
sentite ben raccontate in queste canzoni, senza essere giudicate.
Tu che sei anche stato vicino a De André hai qualche
esperienza simile da raccontare? Per esempio questo gruppo
Rom con cui lavori… magari conoscono Khorakhané!
Certamente! Difatti stiamo pensando di fare una versione
di Khorakhané cantata tutta in lingua Rom
e con il finale in italiano, riarrangiata da loro. Purtroppo
io li ho conosciuti dopo l’esperienza con De André,
altrimenti, sicuramente, li avrei coinvolti nell’album.
Tra l’altro ce ne sono un paio che sono veramente dei
talenti, musicalmente parlando. Generalmente gli zingari sono
bravi musicalmente, cosa tra l’altro un po’ cliché
da dire. Tanto quanto a noi dà fastidio essere identificati
solo con Paolo Rossi e Sofia Loren, a loro dà altrettanto
fastidio essere identificati con quelli che rubano e però
suonano bene il violino, perché più o meno questa
è l’immagine corrente. In realtà c’è
un universo veramente interessante. Loro, lungo i secoli,
sono portatori, dall’India e attraverso tutta l’Asia
e l’Europa, di cultura. Non dimentichiamo che, ad esempio,
gli strumenti che noi abbiamo adottato, dal violino allo stesso
pianoforte (che in origine arriva dal cimbalom), beh, sono
strumenti provenienti dall’area indiana, ed è
il nomadismo che ha permesso a questi strumenti di divulgarsi
in Occidente.
Tornando, in coda di intervista, alla tua vicenda
professionale, dopo De André ti sei trovato a lavorare
con altri “big” della canzone d’autore.
Come è stato questo rapporto?
Sì, ho fatto un paio di brani con Ligabue, tra l’altro
mi è piaciuto perché sono andato a Londra, negli
studi di Happy Road che è un po’ un obiettivo
importante e dove ho anche avuto un incontro simpatico con
Paul Mc Cartney. Quindi ho lavorato con Luciano e ho fatto
anche qualche altra piccola cosa, però ho cercato di
limitarmi, perché non volevo finire a fare l’arrangiatore,
come lavoro.
Io mi sento un compositore e non di canzoni (purtroppo, perché
in realtà il portafoglio ne risente) quindi quello
che mi preme e che mi urge è di continuare a scrivere,
più che lavorare sui brani di altri. Certo, ogni tanto
faccio qualche lavoro di arrangiamento, che non mi dispiace
fare, anche perché con la crisi della discografia bisogna
anche pensare, ahimè, alla pagnotta.
|
Piero
Milesi nella sua casa a Mattarana (Sp) |
La notte della Taranta
Qui a Rete Italia ci siamo occupati a fondo della
world music italiana e della rinascita della musica popolare.
La tua esperienza come direttore artistico della “Notte
della Taranta” rientra in questo filone. Ce ne puoi
parlare?
Questa per me è stata una tappa estremamente importante
perché sulla Notte della Taranta io ho cominciato con
la seconda edizione, quando ancora non ci scommetteva nessuno.
La prima edizione era stata curata da Daniele Sepe. La seconda
l’ho curata io e lì ho capito che poteva essere
una cosa veramente importante, più che interessante.
Importante perché sulla pizzica tarantata si sapeva
poco o niente. Si sapeva qualcosa di striscio, più
che altro sull’aspetto terapeutico di quella musica.
Ricordo che da ragazzino avevo ascoltato delle trasmissioni
radiofoniche di Diego Carpitella sui “tarantati”,
e mi ero anche piuttosto spaventato! Circa quarant’anni
dopo sono stato coinvolto in questa attività e mi si
sono risvegliate le parti più recondite della coscienza.
È stato molto interessante, in primo luogo perché
c’è un fermento musicale impressionante nel Salento,
probabilmente dovuto anche al fatto che, pur essendo sempre
stato tagliato via dalle comunicazioni importanti, soprattutto
per motivazioni geografiche (il “tacco” dell’Italia
era proprio fuori dal mondo, si può dire), però
nello stesso tempo è riuscito a conservare una propria
identità molto forte.
L’esclusione è diventato un aspetto positivo.
Per me è stato importante perché scoprire un
mondo musicale con una identità così forte…
basti pensare che ad ogni concerto della Taranta… adesso
ormai, all’ultima edizione c’erano oltre centomila
persone di cui tantissimi erano ragazzi, tutti armati di tamburello
a suonare assieme. E suonato bene, non suonato in modo pasticciato.
E questa cosa qui non fa che riempirmi di gioia. Ovviamente
anche lì il fenomeno di quella musica, nello stile,
nel modo di suonare, è soggetto a mutamenti. Ma questo
è normale perché vuol dire che il linguaggio
di quella musica è un linguaggio vivo, quindi in continuo
movimento. Altrimenti non sarebbe altro che una riproduzione
congelata e filologica di quello che c’era un tempo
e adesso non c’è più, un po’ come
i giorni dell’addio.
E questo della taranta è un fenomeno che ormai è
esploso in Italia e presto esploderà anche fuori, e
io sono anche un pochino orgoglioso di averci creduto e di
avere lavorato molto su questo per alcuni anni ed è
molto importante che questo fenomeno esploda nei suoi termini
più positivi.
Mi fai venire in mente, tra l’altro, che, quando stavo
arrangiando Anime Salve con Fabrizio, come sai abbiamo usato
tantissimi strumenti particolari, cosiddetti etnici e fra
questi, allora, che eravamo ancora in tempi non sospetti,
io pensavo di usare anche il Didjeridoo, che è uno
strumento tipicamente vostro, dei nativi australiani. Avevo
dei campioni che avevo recuperato da qualche parte e questo
suono estremamente ammiccante ci intrigava molto. Il problema
era trovare allora chi lo suonasse, per cui è stato
scartato per motivi più che altro tecnici, perché
venire in Australia diventava una cosa un po’ complicata.
Però è quasi stato un bene, perché quello
strumento è stato usato adesso in tutte le salse e
forse, purtroppo, rischia di essere un po’ snaturato
nel suo aspetto semantico, proprio di significato. Perché
uno strumento che ha, come quello, una tradizione così
radicata, rivisto ad esempio nella pubblicità di un
detersivo, devo ammettere, mi sciocca un pochino.
Vuoi dire che è diventata una cosa quasi folcloristica?
Esatto, folcloristica è la parola giusta. Mi viene
in mente che sulla differenza fra musica etnica e musica folcloristica
Fabrizio aveva dato una definizione bellissima: “la
musica folcloristica è quella che i musicisti suonano
per gli altri, mentre la musica etnica è quella che
i musicisti suonano per se stessi”. Questo rende molto
l’idea. Per gli altri, nel senso che è per i
turisti, insomma.
I tuoi progetti per il futuro? Il violoncello è
solo un ricordo oppure lo suoni ancora?
Mah, lo sto un po’ riprendendo però io l’ho
lasciato da tempo. A un certo punto della mia vita ho deciso
di fare il compositore per cui l’ho abbandonato. Ultimamente
lo sto riprendendo, lo sto ristudiando, sto facendo anche
qualche piccola registrazione, però non mi sento di
essere un vero violoncellista. L’ho lasciato per troppo
tempo a dormire. Progetti, se riesco a vincere le mie pigrizie
e le mie paure, vorrei andare avanti sul mio nuovo album,
quello sì. Che poi, dopo l’esperienza con De
André e con la Notte della Taranta, ovviamente molti
parametri in me sono cambiati. E dal momento in cui cambiano
i parametri, per me è molto difficile ricostruirmi
delle regole.
Infatti, tu nasci come musicista classico, come ci
ricordavi all’inizio. Però queste esperienze
ti avranno influenzato in qualche misura.
Sicuramente, anche se, ti dirò, io sono un musicista
classico però Jimi Hendrix da ragazzino lo ascoltavo.
Anzi, quando avevo quattordici anni avevo una band e facevamo
Hendrix e i Led Zeppelin. Nella mia cameretta avevo due manifesti:
quello di Beethoven e quello di Jimi Hendrix!
Si assomigliano anche!
Sì, nella capigliatura si assomigliano! Ma sicuramente
si assomigliano anche nel loro modo di sconquassare certe
regole di comunicazione musicale che a loro erano diventate
estremamente ingombranti e nello stesso tempo anche insufficienti.
In questo mondo di furbi
A proposito del tuo ultimo album… i tuoi dischi
sono soprattutto sul mercato americano e non su quello italiano.
Come mai?
Io i miei dischi li faccio là, perché qua non
me li facevano fare. Quando ho fatto il primo album ho girato
per due anni tutte le case discografiche italiane e più
che qualche pacca sulla spalla non ho trovato. Poi ho provato
a mandarlo in Inghilterra e subito, immediatamente, ho avuto
due contratti. Per cui il primo l’ho fatto in Inghilterra.
Poi da lì, una casa discografica americana (evidentemente
gli americani ascoltano le musiche un po’ di tutto il
mondo), beh, mi è arrivata questa lettera dove mi proponevano
di fare un disco. Io non avevo neanche risposto perché
pensavo che fosse uno scherzo di qualcuno. Poi mi è
arrivato un sollecito e ho cominciato a preoccuparmi perché
lo scherzo stava diventando pesante. E poi ho capito che non
era uno scherzo. Quindi, in quel caso lì, ho faticato
tanto in Italia per trovare una casa discografica e non ho
fatto nulla per trovarne una negli Stati Uniti. E ricordo
anche il motivo. In Italia i discografici non potevano prendere
la mia musica perché dicevano di non sapere come classificarla,
come promuoverla e quindi come venderla. Le edizioni di musica
classica mi rimandavano a quelle di musica leggera e pop,
quelle di pop mi rimandavano a quelle di classica e io stavo
impazzendo in questo girare a vuoto. Ricordo invece che in
Inghilterra mi dissero: “ci piace perché questa
cosa non l’abbiamo mai sentita”. E questa cosa
mi ha fatto ovviamente un enorme piacere. Ci ho messo tre
minuti a firmare il contratto! Prima l’ho firmato e
poi l’ho letto.
Questa tua storia la dice lunga sulla salute del
mercato discografico italiano. Ti va di salutare gli ascoltatori
con un tuo ultimo commento su Fabrizio De André uomo
e artista? O un tuo ultimo ricordo, se preferisci.
Guarda ne ho talmente tanti che non saprei da dove cominciare.
Posso dire questo, quello che mi viene in mente adesso: Fabrizio
non sapeva per niente nascondere le sue emozioni, era come
un bambino. Nei momenti in cui era incazzato (scusate il termine,
non so se si possono dire le parolacce per radio!), proprio
trapelava da tutti i pori. Così anche nei momenti in
cui era buono, affettuoso. Era estremamente trasparente in
questo senso qui, estremamente aperto, e sicuramente questo
aspetto non può essere disgiunto da quella che poi
è stata la sua produzione artistica, che comunque era
estremamente aperta. Fabrizio non aveva assolutamente paura
di quello che non conosceva. Io ricordo che Fabrizio lo diceva
spesso: ogni persona generalmente abbraccia le tipologie di
persone con cui si è in confidenza, a cui assomiglia.
Per cui si formano le mandrie, i greggi, e c’è
grande diffidenza rispetto a chi è diverso da noi.
Fabrizio in questa trappola non ci cascava mai. Il suo essere
aperto, il suo modo di essere letto da un certo punto di vista
era, credo, anche un po’ la sua dannazione, perché
poi gli creava dei problemi anche nei rapporti di lavoro.
Insomma è un mondo pieno di furbi e il cosiddetto furbo
sa bene come nascondere le proprie carte.
Piero, ti ringraziamo di questa tua testimonianza.
Vi ringrazio io! Mi ha fatto piacere ed ho anche avuto modo
di fare un ripasso su quello che è stato un pezzo importante
della mia vita.
(Intervista realizzata via telefono nel settembre 2007. Registrata
presso gli studi di Rete Italia – Melbourne. Andata in
onda nell’ottobre 2007 nell’ambito della trasmissione
settimanale: “In direzione ostinata e contraria”,
dedicata ai personaggi delle canzoni di Fabrizio De André).
Grazie per le foto di Piero Milesi a Walter Pistarini dal sito
viadelcampo.com.