storia Carlo
Cafiero 2
Perché un documentario
su Carlo Cafiero?
di Ezio Aldoni
e Massimo Lunardelli
Backstage di un lavoro di ricostruzione
storica, fatta con tanto rispetto.
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L’idea di realizzare
un documentario su Carlo Cafiero ci è venuta leggendo
una lettera che il suo biografo Pier Carlo Masini e lo scenografo
Ugo Ronfani spedirono nel 1954 alla rivista Cinema Nuovo, diretta
da Guido Aristarco.
Poche righe che dopo aver riassunto la breve e intensa vita
del rivoluzionario di Barletta (1846-1892), terminavano con
un auspicio:
“Cafiero è il portavoce di tutta
una generazione di giovani italiani che giungono a maturità
quando il Risorgimento è già concluso. Il suo
caso, il caso di un giovane pugliese figlio di facoltosi agrari,
è quello di altre centinaia di giovani che voltano
le spalle alla loro classe, all’Italia ufficiale, per
andare incontro al popolo lavoratore, al proletariato del
nord e alle plebi del mezzogiorno. Cafiero è uno dei
più ardenti interpreti di questo dramma collettivo.
La sua conversione al socialismo avviene a Londra nel 1871,
sotto l’effetto di vibrazioni che scuotono non solo
la sua coscienza, ma tutto il mondo: da una parte lo spettacolo
della miseria crescente dei quartieri operai nella metropoli
del capitalismo industriale, dall’altra il prestigioso
esempio della Comune di Parigi.
Entrato in contatto con i gruppi rivoluzionari, incontratosi
con Marx e Engels, Cafiero ne diventa l’emissario per
l’Italia. A Napoli, sfidando le prime persecuzioni poliziesche,
inizia tra i lavoratori del porto, fra gli artigiani, fra
i disoccupati, fra masse socialmente disgregate ma indiscriminatamente
colpite da un cronico fenomeno di pauperismo, una paziente
opera di organizzazione e di educazione. Poco dopo, in Svizzera,
soggiogato dalla forte personalità del Bakunin e persuaso
dalla sua recente esperienza politica, Cafiero abbraccia la
causa del comunismo libertario. S’inizia così
la fase più agitata della sua breve esperienza: la
definitiva rottura con la famiglia, la vendita dei beni e
la devoluzione del ricavato per le necessità del movimento,
l’episodio della Baronata, una colonia di internazionalisti
esuli in Svizzera, il matrimonio al consolato italiano di
Pietroburgo con la nikilista russa Olimpia Kutusoff. Nel 1876,
a Firenze, partecipa al congresso nazionale della Federazione
italiana dell’Internazionale, svoltasi in maniera drammatica
a causa dell’intervento della polizia. Fu probabilmente
in detto congresso che venne decisa un’impresa clamorosa:
l’occupazione di una zona dell’Appennino meridionale
da parte di una formazione armata di internazionalisti. L’impresa
fu preparata e guidata da Cafiero, la zona prescelta l’altipiano
del Matese, già centro del brigantaggio tra il Sannio,
il Molise e la Terra di Lavoro.
L’allora ministro degli Interni Nicotera fece mobilitare
ingenti forze militari per accerchiare gli insorti che avevano
occupato i paesi di Letino e Gallo, dove fra l’entusiasmo
della popolazione distribuiscono chinino e tabacco, incendiano
carta bollata e ogni documentazione relativa alla proprietà,
abbattono i simboli del potere statale e della monarchia,
spezzano i contatori della tassa sul macinato […] Gli
insorti vengono sorpresi e catturati, Cafiero è arrestato.
Seguono lunghi mesi di prigionia in attesa del processo svoltosi
nell’agosto del 1878 a Benevento. Quando i giurati li
assolvono, una folla di lavoratori accoglie con commoventi
dimostrazioni di affetto gli internazionalisti liberati. Cafiero
prende la via dell’esilio. Poi un tentativo di entrare
clandestinamente in Italia con conseguente arresto, depressione
morale, tentato suicidio nelle carceri di Milano. La follia
comincia a insidiarlo e lo travolge definitivamente in drammatiche
circostanze nel 1883. C’è in Italia un regista
che, senza affidarsi a comode divagazioni della fantasia,
voglia trarre dalla biografia di Cafiero un film che sia un
quadro di quel tempo, dei cafoni del Matese, degli operai
di Napoli e di Milano, dei compagni di Cafiero, delle donne
che affollano il dramma, siano esse semplici popolane o rivoluzionarie
di professione, un film che sia una visione della nostra terra,
dalla Puglia bruciata al carsico Matese? Noi vogliamo sperarlo”.
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Benevento,
4 gennaio 2012 - da sinistra: Ugo Gregoretti, Bruno Tomasiello,
Ezio Aldoni |
Un ritratto soprattutto umano
Erano gli anni di film come Miracolo a Milano di Vittorio
de Sica; Viaggio in Italia di Roberto Rossellini; Achtung
Banditi! di Carlo Lizzani; Processo alla città
di Luigi Zampa; stavano per uscire Senso di Visconti
e La Pattuglia sperduta di Pietro Nelli; per Masini
e Ronfani era arrivato il momento di rivisitare in chiave neorealista
anche il cinema storico “finora caratterizzato soltanto
dalla retorica e dall’artificio, dalle banalità
e gli arbitrii, in un clima di pesante monotonia”. Ma
nessun regista ha mai raccolto il loro invito. Mettendoci sulle
tracce di quel possibile film, abbiamo però trovato qualche
frammento: una sceneggiatura sui fatti insurrezionali del Matese
scritta per la Rai nel 1982 da Ettore Scola e Almerigo Alberani
intitolata La Repubblica di Letino e mai tradotta in
pellicola; uno sceneggiato trasmesso in quattro puntate su Rai2
tra il settembre e l’ottobre dello stesso anno tratto
da Il Diavolo a Pontelungo di Riccardo Bacchelli per
la regia di Pino Passalaqua, dove accanto al protagonista Bakunin
(Paolo Bonacelli) c’è nel ruolo di Cafiero un magistrale
Flavio Bucci; un film tedesco del 1970 di Peter Lilienthal intitolato
Malatesta, con un Cafiero interpretato da Peter Hirsche
che appare per un minuto rinchiuso in manicomio.
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Benevento,
4 gennaio 2012 - da sinistra: Massimo Lunardelli, Franco
Schirone, Bruno Tomasiello,
Carlo Falato, Ezio Aldoni |
Siamo stati a Locarno a farci raccontare dagli anarchici del
circolo Carlo Vanza le vicende della Baronata, la villa sul
lago che con i soldi di Cafiero e un anziano Bakunin nel ruolo
del vecchio rivoluzionario stanco e deluso, sarebbe dovuta diventare
luogo di rivoluzione permanente; da Bruno Tomasiello, autore
del volume La Banda del Matese: i documenti, le testimonianze,
la stampa dell’epoca, ci siamo fatti guidare a San
Lupo, Gallo, Letino, nei luoghi in cui in quei giorni di aprile
del 1877 Carlo Cafiero, Errico Malatesta, Napoleone Papini e
una ventina di altri internazionalisti tentarono di sollevare
le popolazioni in nome della rivoluzione sociale; a Imola, all’archivio
storico della Federazione Anarchica Italiana, abbiamo scovato
conservata in un cassetto la pipa di schiuma bianca che Cafiero
fumava senza sosta durante la sua degenza e il soggiorno in
città; a Nocera siamo stati nel manicomio dove si è
spento intorno a mezzogiorno di domenica 17 luglio 1892 a causa
di una tubercolosi intestinale. Ne è venuto fuori un
ritratto soprattutto umano che nulla toglie al Cafiero politico.
Ha scritto di lui Giacinto Stiavelli sulle colonne de L’Avanti!
del 26 settembre 1903:
“La bella figura che io oggi voglio ricordare ai lavoratori
d’Italia – perché il ricordare certi uomini
e certi avvenimenti fa bene – è quella di Carlo
Cafiero, uno dei primi che parlarono e scrissero di socialismo
quando il solo parlarne (guai poi a scriverne!) faceva tremare
le vene ai polsi alle classi dirigenti […] Girava di
città in città per diffondere il verbo del socialismo,
il gran verbo, per far proseliti alla sua causa, che è
quella di tutti i miseri, e dovunque distribuiva opuscoli,
giornali, manifesti, dovunque teneva discorsi, alla buona,
perché parlava agli indotti, ma pieni di senno, e dovunque
lasciava denari, i quali dovevano servire o ad alleviare miserie
o a tener viva la propaganda delle idee nuove”.
Nel portare in giro questo documentario, il cui titolo è
un omaggio al lavoro di Pier Carlo Masini che titolava il primo
capitolo della biografia di Cafiero Il Figlio del Sole,
vorremmo avere la presunzione di fare nostre e di rilanciare
le parole scritte da Malatesta nel 1892:
“Carlo è soprattutto grande per la sua natura
intima, per il tesoro di affetti, per l’ingenuità
della fede che era in lui. Non bisogna che queste memorie
siano perdute, soprattutto oggi che v’è bisogno
di elevare il livello morale degli anarchici, che bisogna
reagire contro l’egoismo e la brutalità che ci
invade, per tornare al disinteresse, allo spirito di sacrificio,
al sentimento d’amore di cui Carlo fu così splendido
esempio”.
Perché è triste pensare che di Carlo Cafiero,
uno dei padri del socialismo italiano in senso lato, oggi non
esista neppure una tomba: sepolto con gli abiti da pazzo in
una fossa comune. Destino forse inevitabile per chi, nella seconda
metà dell’Ottocento, sognava di volare, teorizzava
la spiritualizzazione della materia e al medico che quotidianamente
lo visitava diceva qualche mese prima di morire:
“Io sono felice: ho menato vita errabonda, ho sciupato
un grosso capitale, mi sono ridotto ad una modestissima pensione,
ma sono contentissimo perché mi si è aperta
la luce e ho conosciuto la ragione ultima di tutte le cose
esistenti”.
Ezio Aldoni e Massimo Lunardelli
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