Un
paio d’anni
fa circa mi capitò, durante un viaggio in macchina,
di ascoltare un’intervista radiofonica, mi sembra che
fosse su Popolare Network, durante la quale veniva presentato
un disco appena uscito, che aveva il curioso titolo “Chi
non la pensa come noi”, e conteneva una serie di canzoni
di Brassens tradotte in italiano. Curiosamente, durante tutto
il corso dell’intervista lo speaker non nominò
mai l’intervistato, per cui una volta tornato a casa
conoscevo il titolo del disco ma non avevo la benché
minima idea di chi ne fosse l’autore. Fortunatamente
venne in mio aiuto Mr. Google. Così venni a sapere
che la voce profonda che avevo avuto il sommo piacere di ascoltare
in radio, tra una domanda e l’altra venivano mandate
in onda le canzoni, era quella di Alberto Patrucco. Il giorno
successivo acquistai il CD, e non è esagerato dire
che per qualche mese le liriche di Brassens, così magistralmente
tradotte nella nostra lingua, accompagnarono ogni mio momento
libero. In seguito contattai Patrucco per un’intervista
da pubblicare sulla rivista letteraria PaginaUno, e da lì
è nata una bellissima e ricca amicizia.
Ciarallo – Bene,
Alberto, il lavoro svolto nel tradurre i brani di Brassens
che compongono il tuo primo album e quelli nuovi che faranno
parte del disco di prossima uscita, dimostra una dedizione
alla musica del grande chansonnier che va oltre il semplice
amore del fan. Come sei entrato nell’universo brassensiano,
e soprattutto cosa ti ha spinto a cimentarti nella traduzione,
per poi sfornare il notevole “Chi non la pensa come
noi”?
Patrucco
– Ho incontrato Georges Brassens, incontrato virtualmente,
beninteso, su disco… a casa di mio zio Marc, che era
canadese francofono, pressappoco a metà degli anni
Sessanta. Ero giovanissimo, avrò avuto otto o nove
anni, forse anche meno. Non ricordo cosa accadde, so che rimasi
letteralmente rapito dal suo modo di fare canzone, un vero
e proprio coup de foudre. Ripensandoci, fu davvero curioso.
Non tanto perché mi “sfuggiva” il contenuto,
quanto e soprattutto perché non capivo una sola parola
di quel che Brassens cantava. Probabilmente avevo capito…
che c’era molto da capire. Poi è venuto il tempo
di un approccio diverso. Scoprendo veramente Brassens mi resi
conto di quanto fosse straordinario anche come musicista,
e quanto fosse grande il suo patrimonio artistico e poetico.
Per questo, quasi per una sorta di timore reverenziale, mai
avrei pensato un giorno di tradurre le sue canzoni.
A istigarmi, nel 2005, furono gli amici del Club Tenco, Enrico
De Angelis, Antonio Silva e in particolare Sergio Sacchi mi
suggerì l’idea di riproporre il teatro-canzone.
Da quello spunto iniziale, all’idea di tradurre alcuni
pezzi di Brassens (mia passione letteral-musicale di sempre),
il passo è stato assai breve. Il che non significa
facile.
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Alberto
Patrucco al piano
(foto di Gigi Galbiati) |
Il
più difficile da tradurre
Molti sono stati i
tentativi di traduzione dei testi di Brassens. In alcuni casi
si sono avuti risultati soddisfacenti, in altri, l’impressione
è stata quella che i testi italiani non fossero proprio
all’altezza degli originali. Comunque le tue versioni
hanno rappresentato una novità assoluta rispetto alle
precedenti, visto che tu non ti sei limitato a tradurre pedissequamente
le canzoni, ma le hai rielaborate, mantenendo integro il ritmo
e conservando le rime, cosa non facile visto l’abbondante
uso di argot da parte del Maestro, e la diversità di
conformazione fonetica tra la lingua italiana e quella francese.
Georges Brassens, che è
il cantautore più difficile da tradurre, è paradossalmente
il più tradotto al mondo (per quel che so lo è
ancor più che Bob Dylan). Tradurre Brassens, come dicevo,
è davvero molto impegnativo. Aldilà della lingua,
va da sé, salvaguardare sostanza, poesia e incisività
satirica, non è per nulla semplice. Per quel che mi
riguarda, una volta vinti i timori del confronto con un tal
mostro sacro, il mio sforzo si è concentrato nel tenere
insieme le due anime di Brassens, quella gergale, colloquiale,
e quella dotta, di pura poesia. E, per il mio primo disco,
ho voluto mettere dei paletti assai rigidi al mio lavoro.
Ho scelto innanzitutto di tradurre solo brani “inediti
nella nostra lingua”, di farlo per rime e non per assonanze
– complicandomi maggiormente la vita ma tentando di
essere il più brassensiano possibile – e, infine,
di vestire di colori musicali quello che in origine era solo
voce, chitarra e contrabbasso. Dalla proposta minimale propria
dell’autore mi attirava l’idea di passare, senza
stravolgimenti, a una lettura musicale più articolata
e ampia. E qui, il merito va soprattutto a Daniele Caldarini,
l’autore degli arrangiamenti dell’album, che ha
restituito la profondità musicale, forse mai adeguatamente
riconosciuta, insita nell’opera di Brassens. Comunque,
premesso che qualsivoglia avvicinamento all’opera del
Nostro rischia di rivelarsi incompleta, e aldilà della
riuscita o meno di talune traduzioni rispetto ad altre, della
valentia o meno dei traduttori, credo di poter dire che in
genere chi abbraccia l’opera di Brassens lo fa con amore.
E di solito si sente.
Cosa ti è piaciuto
di più delle precedenti traduzioni (e relativi traduttori)
e cosa, secondo te, non ha funzionato? Ad esempio, cosa ne
pensi della scelta di Nanni Svampa, già negli anni
sessanta, di trasporre le canzoni di Brassens in dialetto
milanese?
Sono l’ultimo arrivato
e non ho niente da insegnare a nessuno, peraltro tra i traduttori
di Brassens ci sono nomi altisonanti come De André,
Svampa, Amodei, Chierici, Medail… Ci sono state operazioni
di traduzione importanti, altre meno, altre molto personali.
Forse, pochi sono riusciti a tenere insieme l’anima
alta e quella bassa di Brassens. Nanni Svampa, con le sue
traduzioni in milanese, ha colto soprattutto il tratto popolare:
senza dubbio una impresa di molto valore che però,
a mio avviso, ha un po’ limitato il raggio d’azione.
Comunque trovo estremamente curioso ricordare la bizzarria
tutta italiana che vuole praticamente sconosciuto nel nostro
paese il “capostipite” dei più importanti
cantautori italiani, non ultimo Fabrizio De Andrè,
a lungo considerato l’artista più vicino alla
poetica brassensiana.
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Alberto
Patrucco sul palco
(foto di Valeria Rogolino) |
“Mi
ha fatto letteralmente dannare”
Qual è stata
la canzone che ti ha impegnato maggiormente, che ti ha fatto
pensare: “Questa non ce la faccio proprio a tradurla”?
E quale, invece, quella che ti ha divertito di più
trasporre nella nostra lingua?
Non c’è stata
una sola canzone che non mi abbia fatto dire: questa, a tradurla
non riuscirò mai! E, semmai dovessi farcela, verrà
una “cosetta”. Poi, invece… Alcune canzoni
si sono dimostrate davvero intraducibili e, tra le tante,
in tutta onestà, per qualcuna non ce l’ho proprio
fatta. Sarà anche per il fatto, e qui la sparo un po’
grossa ma sotto sotto ne sono convinto, che la traduzione
deve essere meglio dell’originale. Con Brassens è
molto difficile che ciò accada, ma ritengo sia giusto
partire con questo obiettivo, altrimenti non è nemmeno
il caso di cimentarsi nell’impresa. Comunque, “Supplique
pour être enterré à la plage de Sète”,
mi ha fatto letteralmente dannare. In primis, perché
è un capolavoro: dove tocchi, hai solo paura di fare
danni. Poi, è molto personale, è il suo testamento
e, senza stravolgere nulla, ho voluto provare a “spersonalizzarla”.
Infine, è lunghissima, la più lunga che Brassens
abbia mai scritto. Quella che mi ha più divertito,
invece, è “La cane de Jeanne”. Anche perché,
forse, è la più corta.
Brassens diceva: Sono
talmente anarchico che attraverso sulle strisce pedonali per
non avere a che fare con la gendarmeria. Questa sua naturale
appartenenza al credo libertario mi sembra che sia molto presente
in tutta la produzione dell’artista, anche in quelle
canzoni che apparentemente sono le più “neutre”…
Diceva anche, «Quando
si è anarchici, lo si è per sempre. È
congenito. Significa rimettere ogni giorno tutto in discussione».
E ancora, «L’anarchico s’immagina sia un
tipo che dice “no” a tutto. Al contrario l’anarchico
dice “sì” a tutto». Nel 1946 scrive
sulla rivista anarchica Le Libertaire e, di lì
a poco tempo, i suoi stessi compagni si accorgono di avere
a che fare con il più anarchico tra gli anarchici.
Il manifesto dell’individualismo libertario di Brassens
è «La mauvaise réputation». Composta
nei mesi della clandestinità, una delle prime canzoni
che ha scritto, sottolinea la sua avversità e la sua
diversità rispetto al mondo borghese. Ci teneva a precisare:
«Il mio individualismo d’anarchico è una
lotta per conservare il mio pensiero libero».
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Georges
Brassens legge Le monde libertaire,
il foglio anarchico di cui fu collaboratore |
Al contempo noto una
enorme differenza tra l’anarchismo di Brassens e quello
di un altro grande della canzone francese, l’amato Leo
Ferré. Il primo sembra voglia seppellire il nemico
con la classica risata e lo sberleffo, il secondo, invece,
canta rabbia malinconica e pura e non sembra essere molto
incline alla satira e all’ironia.
La componente anarchica di
Brassens, il suo pensiero, credo che non si possa riferire
a una corrente precisa. Diceva, «Tra gli anarchici tutti
sono d’accordo sulle idee di fondo, ma sui mezzi, alcuni
sono per la violenza, altri no. Io ero individualista…».
Com’è nel suo stile, non fa propria una dottrina
integralmente (o integralisticamente), preferisce adattarla
alla sua personalità, viverla in modo del tutto originale.
Brassens detestava unirsi a un gregge: «Amo il pensiero
solitario, detesto le pecore», «Mi sono costruito
la mia umanità da solo, senza seguire nessun metodo».
Per quel che mi riguarda, pur conscio che a lui avrebbe dato
fastidio, considero Brassens come un buon Maestro per le sue
aperture mentali, per le sue valutazioni sul mondo, aldilà
e al di sopra di ogni cliché.
Diverso è il discorso per Ferré. Il suo mi sembra
un approccio più militante, con un coinvolgimento emotivo
più intenso. E ascoltando la sua bellissima, epica
“Les anarchistes”, si capisce la malinconia e
la rabbia che armano la sua mano nello scrivere.
Durante i tuoi spettacoli
ti sarà capitato spesso di cantare quel magnifico inno
all’internazionalismo e all’abbattimento di ogni
confine o barriera, che è “Quegli imbecilli nati
in un posto”. Che reazione hai notato nel pubblico di
quei paesi, soprattutto della cosiddetta Padania, che vivono
e si crogiolano nel mito della cultura locale e del territorio
da difendere a spada tratta dal diverso, dall’invasore?
Uno dei brani più attuali
è senza dubbio «La ballade des gens qui sont
nés quelque part», poiché viviamo in un
momento storico sospeso tra mondializzazione e misero attaccamento
al proprio giardino, alle proprie confuse e spesso sconosciute
radici culturali. L’inizio sereno e ridente –
È vero son graziosi i tipici paesi / I borghi, le frazioni,
i cari vecchi ambienti / Con chiese, panorami e vicoli scoscesi…
– non lascia minimamente immaginare il contenuto delle
strofe successive. Quando, con tono ben diverso, si comincia
a parlare degli abitanti: Al diavolo quei figli e la loro
patria-madre / Finissero impalati sul loro campanile…
Singolarmente violenti questi versi, ma testimoniano bene
l’insofferenza verso gli imbecilli, verso le persone
che per quanto «piccoline», sono in realtà
una vera minaccia perché il loro atteggiamento è
alla base di innumerevoli disgrazie. Più che il campanilismo,
credo che Brassens volesse colpire il sentimento che è
alla base di esso: il credersi migliori degli altri o, in
qualche modo, pensare di «avere Dio dalla propria parte»,
che fa sì che i campanilisti non siano soltanto delle
persone pittoresche, ma anche sommamente pericolose. Il pubblico,
fin qui, ha reagito e reagisce bene. Ma, è il pubblico
che segue i miei spettacoli. E, fin qui, di imbecilli non
ne ho visto uno.
E per concludere, so
che per lo scorso ottobre, mese in cui è caduto il
novantesimo anniversario della nascita di Brassens e il trentesimo
della sua morte, avresti voluto organizzare un tributo, libro
e CD, coinvolgendo tutti i tuoi amici musicisti, scrittori,
illustratori, fumettisti, ma non sei riuscito a trovare una
casa editrice, un produttore che si entusiasmasse a tale progetto,
forse giudicato frettolosamente “no commercial potential”.
Ma è così difficile, nell’Italia di oggi,
trovare uno sbocco alle tante iniziative culturali che pure
quotidianamente si creano nel nostro Paese?
Su questo argomento ci si
potrebbero scrivere intere pagine o liquidare la cosa con
una battuta fulminante. Purtroppo editori e produttori non
sono altro che un piccolo ingranaggio di quel perverso meccanismo
che reputa l’artista un peso per la società produttiva
(a tal proposito mi viene in mente la favola della cicala
e della formica di Esopo), e la cultura qualcosa che “non
dà da mangiare” come candidamente espresso qualche
tempo fa da un nostro ex ministro dell’Economia. Ma
i nostri gretti governanti non si chiedono quanto sia importante
avere sì il pane, ma anche le rose? Conoscendo i personaggi,
già immagino la risposta: “Le rose? Se son rose,
appassiranno!”.